DOMENICA «DELLE NOZZE DI CANA»
II del Tempo per l’Anno C
«È bene anche per te, fratello, che ti manchi il tuo vino e che tu non segua la tua logica: che Gesù ti faccia riempire di acqua le tue giare e in seguito cambi l’acqua in vino. Ascolta l’apostolo delle genti, ascolta uno dei versi che sanno da dove viene e come è stato prodotto il vino buono: “Se tra voi qualcuno sembra essere sapiente”, cioè sembra avere del vino, vuoti accuratamente se stesso per essere colmato di vino eccellente, cioè “diventi stolto per essere saggio”; si vuoti dell’orgoglio, perché chi crede di sapere qualcosa ignora ancora come bisogna sapere. Guai a coloro che si ritengono sapienti, perché nel momento stesso in cui si dichiarano sapienti diventano stolti. E si riempia d’acqua, cioè prenda coscienza della propria stoltezza e della propria debolezza; e così appaia a se stesso come è, per diventare ben presto ciò che non è ancora». (Isacco della Stella, Sermoni)
Invitato a Cana con sua madre, Gesù vi si reca in veste di amico, di vicino, accompagnato dai suoi discepoli. Forse non sa ancora che quel matrimonio gli offrirà l’occasione per compiere il primo dei segni del suo ministero. Per Giovanni, che scrive nel prologo del suo Evangelo: «In principio era il Verbo», l’«inizio dei segni», cioè dei prodigi che devono provare l’autenticità messianica di Gesù, rappresenta la traduzione nel tempo della sua gloria eterna. L’Evangelista riferisce questo «segno», questo miracolo, perché noi crediamo che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio e perché, credendo, abbiamo la vita nel suo nome (Gv 20,30-31).
Non è casuale che all’inizio della vita pubblica di Gesù si collochi una cerimonia di nozze, perché in lui Dio ha sposato l’umanità: è questa la buona notizia, anche se coloro che l’hanno invitato non sanno ancora che alla loro tavola è seduto il figlio di Dio, e che il vero sposo è lui. Tutto il mistero di Cana si fonda sulla presenza di questo sposo che comincia a rivelarsi. All’insaputa del maestro di tavola, infatti, Gesù «ha conservato il vino buono» fino a quel momento. Frutto della vite e del lavoro umano, il vino è la bevanda per eccellenza delle feste di nozze. Una vena della terra ha sanguinato al sole, offrendo il risultato di un anno di lavoro del vignaiolo. Attinto alle giare di pietra riservate alle abluzioni rituali, il vino di Cana, servito per ultimo, non poteva essere scadente: doveva avere il profumo della redenzione e la forza della vitalità dell’uomo-Dio.
Nel Medioevo si rappresentava volentieri la Madre di Dio con in braccio il bambino Gesù che spreme un grappolo d’uva. A Cana, Maria è presente, e si accorge per prima che il vino è venuto a mancare. Come allora ai servi, anche oggi la madre di Dio ci ripete: «Fate quello che vi dirà».
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 65,4
Tutta la terra ti adori, o Dio, e inneggi a te:
inneggi al tuo nome, o Altissimo.
Nell’antifona d’ingresso, Sal 65,4, AGC, il Salmista canta al Signore la gioia riconoscente, perché Egli ha operato fatti potenti in favore del suo popolo, liberandolo dai nemici sia nell’esodo, sia nella patria. E sempre rispondendo alla preghiera dell’Orante. I vv. 1-4 pullulano di imperativi innici: acclamate, cantate, date gloria alla lode, parlate, anche i nemici si chinano davanti alla divina potenza. Al v. 4a lo iussivo innico (una forma imperativale della 3a persona) invita l’intera terra, e quindi tutti i suoi abitanti (21,28; 25,9), ad adorare il Signore prostrandosi a riconoscerlo. E la medesima terra è invitata a unirsi all’assemblea del popolo di Dio, Israele, per «recitare il Salmo», il canto innico tipico dei fedeli del Signore, acclamando il Nome divino indicibile (v. 4b). Si nota qui l’insistenza sul canto dei Salmi, presi come modello della fede che deve espandersi tra le nazioni pagane e si consideri la loro ripresa come canti nelle nostre assemblee. Il salmo responsoriale era cantato da Israele nel tempio, festeggiando Dio come Signore dell’universo. La nota dominante del salmo è la gioia: perché la regalità di Dio si manifesta come forza di salvezza. Quella rivelazione di Dio che ha fatto cantare così Israele nella prima ambientazione del salmo fa ancor più cantare noi nella gioia per una salvezza non più profezia ma salvezza ricevuta e vissuta.
Canto all’Evangelo 2Ts 2,14
Alleluia, alleluia.
Dio ci ha chiamati mediante l’Evangelo,
per entrare in possesso della gloria
del Signore nostro Gesù Cristo.
Alleluia.
L’alleluia all’Evangelo, 2 Tess 2,14 adattato, è grazia del tutto gratuita, dono dell’immensa Bontà divina, la vocazione dei fedeli prodotta, sollecitata e confortata dallo Spirito Santo con la Potenza dell’Evangelo di Dio. Il fine di questo è che gli uomini, facendosi discepoli fedeli del Signore attraverso l’Evangelo, acquistino la sua Gloria, da Lui manifestata una volta per sempre nella visibilità della sua carne, che è la sua Parola, la sua preghiera, le sue opere. Ora, la prima “manifestazione” di tutto questo per la contemplazione teologica dell’Evangelista Giovanni sono le «Nozze di Cana», «l’inizio dei segni» potenti della Resurrezione, attraverso i quali si rivela la gloria del Signore e nasce la fede dei discepoli.
Le letture odierne che hanno richiamato le “nozze” di Dio con l’umanità ci portano a meditare sul tema dell’amore di Dio e del suo popolo. Dio si è legato all’umanità perché l’ama e il suo amore è come quello di uno sposo, intimo, esclusivo, geloso (Cant. 8,6-7; Dt 4,24). All’amore di Dio l’umanità ha risposto spesso con tradimenti ed infedeltà; come una sposa adultera ha dimenticato tutto l’amore ricevuto. Ma Dio è fedele e conserva sempre il suo amore (Ger 31,3).
Il canto della I lettura va ambientato con ogni probabilità nel periodo dei primi ritorni dall’esilio di Babilonia: davanti agli occhi delusi degli ebrei tornati dall’esilio appare l’amata Gerusalemme non già vestita di gloria, come era nei loro sogni, bensì in una condizione pietosa di abbandono. Il profeta dichiara che non cesserà di annunziare la salvezza futura e la glorificazione di Gerusalemme ad opera di Dio. Fino a quando Dio ha taciuto, Sion è rimasta nella desolazione; ma ora Dio sta per parlare e pronunciare «la sua vendetta»: una nuova luce sta per illuminare Gerusalemme.
L’immagine della «corona nella mano del Signore» (v. 3) e la metafora tratta dalla vita matrimoniale (vv. 4-5) esprimono l’amore e la compiacenza di Dio per Gerusalemme; ed è l’amore di Dio che restituirà all’adultera Israele la gioiosa freschezza del tempo ormai lontano quando Israele era la vergine sposa di Dio (vv. 4-5).
Anche questa Domenica la Chiesa Sposa celebra lo Sposo Risorto battezzato dal Padre con lo Spirito Santo in un episodio della Vita sua tra gli uomini per la Divina Liturgia (= opera per il popolo) che consiste nell’annuncio dell’Evangelo, nelle opere di Carità del Regno e nel culto al Padre. Le Nozze di Cana sono una straordinaria «opera della Carità del Regno», un incomparabile prodigio di divina carità per i poveri.
Nella seconda Domenica del tempo ordinario, la proclamazione dell’Evangelo, in tutti i tre cicli liturgici, non è presa (come ci aspetteremmo) dai tre sinottici, ma sempre dal IV Evangelo (ciclo A: Gv 1,29-34; ciclo B: Gv 1,35-42). L’Evangelo di Giovanni è un «Evangelo spirituale», che si distingue per l’originalità e per i ricchi riferimenti di teologia simbolica; come dicevano già gli antichi: l’Evangelo di Giovanni è di una profondità quasi inesauribile. Chi lo legge con attenzione è portato verso una più profonda e organica comprensione di Gesù. Giovanni, infatti, nell’iconografia ufficiale è accompagnato sempre dalla figura di un’aquila, perché il suo Evangelo si apre con quel prologo meraviglioso, nel quale, al dire del Santo Dottore Girolamo: «…come aquila sopra gli altri vola, risalendo fino alla vita del Verbo nel seno del Padre».
Forse i riformatori liturgici, proprio per una più profonda e ordinata comprensione di Gesù e del suo Evangelo, premettono Giovanni alla lettura dei tre sinottici. Fedele a questa causa Giovanni, nel suo Evangelo, raduna simbolicamente 7 «segni», o miracoli del Signore. I «segni» (semeia), gesti concreti, efficaci, storici, che rivelano il l’identità di Gesù, sono scelti secondo la «teologia simbolica», e per questo simbolicamente limitati a 7, quale prefigurazione del massimo «Segno» dell’Evangelo di Giovanni: l’ottavo, la Resurrezione del Crocifisso. Nell’ordine essi sono:
- Cana: 2,1-12;
- la guarigione del figlio dell’ufficiale regio: 4,46-54;
- la guarigione del paralitico alla piscina di Betzaetà: 5,1-9
- la moltiplicazione dei pani e dei pesci: 6,1-15;
- il cammino sulle acque: 6,16-21;
- la guarigione del cieco nato: 9,1-41;
- la resurrezione di Lazzaro: 11,1-45
Si nota a colpo d’occhio che solo due sono in comune con i sinottici:
- la moltiplicazione dei pani e dei pesci;
- il cammino sulle acque.
Altri 4 sono molto simili ad altri narrati dai sinottici (guarigione del figlio del funzionario; del paralitico; del cieco e la resurrezione di Lazzaro).
Il miracolo dell’acqua mutata in vino non ha niente che gli somigli nei sinottici. Nel corso triennale del Lezionario, questo mirabile episodio della Vita del Signore, che va sotto il nome celebre delle «Nozze di Cana», si legge di tutte le Domeniche e feste, solo adesso.
Il segno di Cana, efficace nella sua brevità, è descritto da Giovanni in forma dialogica ed è divisibile in tre parti, ben bilanciate, con una introduzione (vv. 1-2) ed una conclusione di fondamentale importanza teologica (v. 11). Nelle prime battute di questo dialogo, che tripartisce il brano, domina la figura della madre di Gesù (vv. 3-5); alla fine abbiamo l’elogio del maestro di tavola (vv. 9-10) e al centro occupa il primo posto Gesù, il quale ordina ai servitori di riempire le giare d’acqua e di attingere da esse (vv. 6-8). Abbiamo fin qui individuato, molto facilmente, la composizione della pericope e i protagonisti della scena; resta da notare fra gli elementi letterari, le inclusioni tra il passo iniziale e quello finale. All’inizio e alla fine del brano si parla di Gesù, di sua madre e dei suoi discepoli:
“Fu invitato Gesù… con i suoi discepoli” (v. 2),
“Egli discese a Cafarnao… con i suoi discepoli” (v. 12)
“c’era la madre di Gesù” (v. 1)
“egli discese… con sua madre” (v. 12).
La seconda inclusione pone in particolare evidenza l’importanza della figura di Maria nel primo segno operato da Gesù; Maria occupa infatti un posto di primo piano. Un’altra inclusione si trova tra il versetto iniziale e il passo finale costituita dalla menzione del luogo dove avvenne il segno: “in Cana di Galilea” (vv. 1.11.).
Esaminiamo il brano
1- «Tre giorni dopo»: Questa espressione temporale unisce la pericope a quanto precede; molto probabilmente all’evento narrato in l,43ss. Incomprensibile la sua eliminazione nella proclamazione liturgica a favore della favolistica espressione “In quel tempo…”! In questa indicazione iniziale, come fu già rilevato dai Padri, abbiamo una nota simbolica e diversi autori vi hanno cercato un senso:
- chi comincia a contare da 1,19, vede concludersi in 2,1-12 la prima settimana del ministero di Gesù (Cfr. 1,29.35.43), corrispondente alla settimana della creazione di Gen l-2,4a: alla prima creazione corrisponde la nuova creazione (unico vero argomento a favore è Gv 1,1.3.5);
- altri ad un livello teologico, più profondo del livello puramente cronologico, suppongono un riferimento implicito al mistero della resurrezione di Gesù.
Nell’episodio immediatamente seguente Gesù dichiara di poter far risorgere in tre giorni il suo corpo distrutto (2,19). Inoltre nell’antica tradizione cristiana la locuzione “il terzo giorno” spesso è riferita alla resurrezione di Gesù (Cfr. 1 Cor 15,4; At 10,40; Mt 16,21; 17,23; 20,19; Lc 9,22; 18,33; 24,7.46).
Questo passo si colloca dunque alla fine di una settimana intera che inizia con la predicazione di Giovanni Battista e continua con l’appello dei discepoli (Giovanni 1,19; 1,29; 1,35; 1,39; 1,43; 2,1). Vi sono altre due settimane nell’Evangelo di Giovanni:
- una che precede la passione e risurrezione, iniziando con l’unzione di Betania e finendo un sabato con la sepoltura di Gesù (Gv 12,1; 13,1; 19,31; 20,1.19.26).
- In 20,1 inizia una seconda settimana, quella della risurrezione, con alcune apparizioni, settimana che si conclude con l’apparizione a Tommaso, “otto giorni dopo” (20,26).
Il riferimento alla prima settimana della creazione (cf. Gen 1,1 e Gv 1,1) è innegabile. La vita di Gesù Cristo, nel IV Evangelo, inizia una nuova fase della creazione o, meglio, è l’inizio di una nuova creazione.
«ci fu una festa di nozze»: Presso il popolo ebraico le nozze erano celebrate con solennità; in genere la festa durava una settimana. In occasione del matrimonio di Giacobbe si parla della settimana nuziale (Gen 29,27; Cfr. anche Gdc 14,12.17), mentre per il matrimonio di Tobia si fece festa per due settimane (Tb 8,20; 10,8).
«a Cana di Galilea»: è un paesino non molto distante da Nazareth che viene identificato con Fattuale Khirbet Qana, 14 Km a nord di Nazareth, o con Kefr Kenna, 4 Km a nord-est della cittadina di Gesù. Natanaele, uno dei primi discepoli di Gesù, era appunto di Cana (Gv 21,2) e forse fu lui a invitare il Maestro, preceduto dalla madre, che, secondo quanto ci informano gli apocrifi, era la zia dello sposo. Nel NT Cana è ricordata solo dal quarto Evangelista (Gv 2,1.11; 4,46; 21,2); che sceglie questo paesino come quadro geografico dei primi due segni di Gesù (Gv 2,1-11 e 4,46ss, guarigione del figlio di un funzionario del re). Il paesino di Cana forma così un’autentica inclusione della prima solenne rivelazione di Gesù.
«la madre di Gesù»: è un titolo di onore, ancora oggi infatti, presso gli orientali palestinesi, è segno di rispetto chiamare una donna non con il nome personale, ma dicendola madre di un figlio: la maternità è un segno della benevolenza divina. Non dimentichiamo inoltre che l’episodio narrato proviene da un ambiente che già venerava Maria, madre di Gesù. È altrettanto importante rilevare che nel IV Evangelo la madre di Gesù compare sulla scena solo all’inizio della rivelazione anticipata della gloria di Gesù nel segno di Cana e nella manifestazione piena della gloria del Figlio di Dio sul trono regale della croce (Gv 19,25-27). La rivelazione iniziale e finale del Figlio di Dio avviene quindi sotto lo sguardo materno di Maria.
In entrambi i casi, il IV Evangelo la chiama “la madre di Gesù e non “Maria” e Gesù si rivolge a lei chiamandola “donna” (2,4; 19,26). Vi sono diverse spiegazioni di questo fatto. In ogni caso, sembra che il IV Evangelo voglia andare oltre la semplice maternità di Maria e suggerire una maternità più ampia. Maria è chiamata “donna” come Eva, la prima “donna” del genere umano (Gen 2,23). Maria, secondo questa interpretazione, avrà un ruolo speciale nella nuova creazione e nell’umanità salvata da Gesù Cristo.
2 – «Fu invitato …Gesù con ì suoi discepoli»: il motivo dell’invito alle nozze è taciuto ma è da notare che per la prima volta vengono nominati «i discepoli di Gesù» come gruppo già costituito.
Il racconto delle nozze di Cana inizia in un modo sorprendente, sebbene siamo forse troppo abituati a sentirlo. Vi sono nozze e le prime persone menzionate sono gli invitati. In genere, un resoconto di questo tipo inizia con la menzione degli sposi, non quella degli invitati. Non sapremo mai come si chiamavano gli sposi di Cana, però. Abbiamo buoni motivi di pensare che vi sia una ragione particolare in questa scelta. In secondo luogo, la prima persona menzionata non è Gesù di Nazareth, bensì sua madre. Anche in questo caso, la cosa può sorprendere, innanzitutto sapendo quale fosse la situazione della donna nella società tradizionale d’Israele. Anche in questo caso possiamo pensare che la cosa sia intenzionale.
Quanti invitati c’erano? Non possiamo saperlo, certo, però dovevano essere abbastanza numerosi. In effetti, la madre di Gesù è stata invitata, forse perché era una parente dello sposo o della sposa. È venuta con suo figlio e suo figlio è venuto con tutti i suoi amici. Se ciascuno degli invitati ha potuto agire nello stesso modo, possiamo immaginare quanta gente si è ritrovata in Cana per le famose nozze. Sappiamo inoltre che le nozze duravano in genere sette giorni (nozze di Giacobbe con Lea Gen 29,27-28). Abbiamo quindi elementi sufficienti per capire perché il vino è potuto venire a mancare.
3 – «non hanno vino»: l’accento messo sulle persone “essi non hanno più vino e non già “non c’è più vino” è più che una sfumatura; mostra l’attenzione di Maria verso gli sposi che stanno per essere umiliati.
L’Evangelista Giovanni in questo modo rivela non solo il dono di osservazione della madre di Gesù, la sua attenzione ai dettagli materiali, ma soprattutto la delicatezza del suo cuore e la sua innata compassione.
La madre non chiede a Gesù un miracolo; gli presenta semplicemente la situazione di necessità. È chiaro però che questo suo intervento è l’occasione che provoca il compimento del segno da parte di Gesù.
Le sorelle di Lazzaro si comportarono in modo analogo: notificarono la situazione disperata del fratello, senza chiedere nulla (Gv 11,3).
4 – «Donna, che vuoi da me?»: Questa espressione semitica, che nel nostro linguaggio suona come una frase imbarazzante poiché le prime parole sembrano dure e scostanti, si trova abbondantemente nell’AT (Cfr. Gdc 11,12; 2 Sam 16,10; 19,23; 1 Re 17,18; 2 Re 3,13; 2 Cron 35,21), nel N.T. (Mc 1,24; 5,7; Mt 8,29; Lc 4,34; 8,28) ed anche nella letteratura rabbinica ed ellenistica.
A questo proposito dobbiamo annotare qualche considerazione:
- la frase, nella realtà, acquista sensi diversi secondo la tonalità con cui viene pronunciata: può esprimere ostilità, senso di molestia ma anche semplicemente, secondo i canoni della cortesia orientale, il disimpegno nei confronti di un’azione proposta.
- la frase, che letteralmente suona “che cosa a me e a te, o donna?”, in buon semitico significa semplicemente: «È esistito mai alcunché di contrasto tra me e te?».
La risposta ovvia è: no.
L’espressione, che può avere più di un significato, andando dalla semplice sorpresa sino a un rifiuto di stabilire un vero rapporto, può essere compresa ulteriormente se la si legge nel contesto sociale del tempo. Nelle nozze di Cana, un elemento essenziale delle usanze del tempo permette di capire la reazione di Gesù e la grande novità del suo intervento. Nel mondo biblico, così come ancora oggi nel mondo musulmano e non solo, donne e uomini non si siedono mai insieme in occasioni pubbliche. In altre parole, durante le nozze, donne e uomini erano in due sale separate. Anche la sposa e lo sposo erano separati. Solo così si capisce la vicenda di Giacobbe ingannato da suo suocero Labano in Gen 29,23.25. Anche all’inizio del libro di Ester, vi sono due banchetti, uno organizzato dal re con tutti i suoi officiali e uno organizzato dalla regina con tutte le donne della reggia. I banchetti sono separati e quando il re Assuero chiede alla regina Vasti di presentarsi, ella rifiuta e, secondo molti interpreti, doveva rifiutare perché era contro tutte le usanze del tempo (Est 1,10-12). Era contro il costume e significava solo indecenza e sconcezza.
Perciò, Gesù dice a sua madre: “Ma che cosa viene a fare qua, nella sala ove sto con tutti gli uomini?”. Tutto ciò per dire due cose essenziali. Primo, Maria aveva visto che il vino veniva a mancare. Aveva un occhio su ciò che succedeva in cucina, quindi. Secondo, la situazione doveva essere grave e Maria doveva avere motivi molto seri per infrangere le regole del buon comportamento.
«Donna»: Gesù la chiama con il titolo nobile di Gynai, Donna, Signora, e questo rimanda subito alla Croce, dove ancora una volta risuona il Gynai (Gv 19,26). In questo modo di rivolgersi alla madre (da considerarsi tuttavia normale e gentile per il resto del genere femminile) alcuni autori vi vedono un motivo teologico, che rimanda a Gen 3,15 e che quindi Giovanni voglia presentare Maria come la nuova Eva, la madre dei viventi. Altri autori suggeriscono che Giovanni voglia identificare Maria con la comunità d’Israele, perché mette sulle sue labbra la stessa professione di fede emessa dal popolo sul Sinai (Cfr. Es 19,8; 24,3.7). Nel linguaggio biblico-giudaico inoltre il popolo eletto è raffigurato sovente sotto l’immagine di una “donna”, si può capire perché mai Gesù, rivolgendosi alla Madre in quel momento, usi il termine “Donna” (Cfr. I lett).
«la mia ora»: ricorre 26 volte in Giovanni ed ha spesso un senso qualitativo, indica cioè un tempo ben determinato ed importante nella vita di Gesù. L’ora di Gesù è quella del suo ritorno al Padre, della sua morte, identificata da Giovanni con la sua glorificazione (la hora è il termine con cui Giovanni indica il kairòs). Il gesto che Gesù compirà deve essere visto come una freccia puntata verso quella meta gloriosa. Gesù non vuole fare prodigi spettacolari, neppure per accontentare sua madre o venire incontro ad una difficoltà concreta quotidiana. Egli desidera nei suoi atti, anche potenti e straordinari, offrire solo rivelazioni del suo mistero divino.
5 – «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»: Maria ha compreso il senso vero di quella risposta di Gesù apparentemente negativa e dice ai servì: «Fate quello che vi dirà». In questo comando dato ai servi, la madre di Gesù esprime la completa disponibilità nel rimettersi pienamente alla volontà del Figlio, e quindi del Padre. Ha rinunciato ai legami di sangue e si rende disponibile per l’opera del Figlio. Maria ripete le parole del faraone. Questi al popolo egiziano, quando dopo i sette anni di abbondanza ormai la carestia infieriva e chiedevano aiuto, dice: «Andate da Giuseppe fate quanto vi dirà» (Gen 41,55). Giuseppe l’Ebreo così è costituito come il salvatore del popolo egiziano, con la sua previdenza sapiente e la sua provvidenza generosa. La Madre esattamente dice: «Quanto dirà a voi, fate» (v. 5). Ecco la Regina Madre in azione. Consapevole o no, anticipa proprio quello che il Figlio dirà nella Cena, riassumibile in questa spiegazione: tutto quello di cui parlai con voi, e quello per cui adesso ho pregato il Padre, fate questo se volete fare il memoriale di Me.
6-7 «Sei giare di pietra…»: tali giare sono attestate sia letterariamente che archeologicamente. Il testo dice che vi erano sei giare che contenevano ciascuna due o tre misure, ottanta e centoventi litri. Moltiplicate per sei e avrete la quantità totale: fra un minimo di quattrocentottanta e un massimo di ottocento dieci litri. Non dimentichiamo però che Gesù chiede prima ai servi di riempire le giare di acqua. Quanto tempo ci hanno messo? Occorreva andare ad attingere l’acqua a un pozzo o a un fontanile, poi trasportarla e travasarla nelle giare. Una persona trasporta in genere una decina di litri. Tutto ciò sapendo che manca il vino, non l’acqua.
Ultimo dettaglio: le giare erano sei. Ora, il numero perfetto è sette, non sei. Il particolare avrà la sua importanza, altrimenti non sarebbe stato menzionato. Le giare sono previste per le purificazioni (rituali) dei Giudei. È vero che i Giudei erano molto puliti e si lavavano spesso le mani, ad esempio prima dei pasti. Il testo di Gv 2,6 suggerisce che abbiamo qui un’economia imperfetta, quella delle purificazioni dei Giudei e della loro religione. Essa aspetta un complemento: le giare sono sei e non sette; vi è bisogno di vino e non di acqua.
«per la purificazione rituale dei giudei»: Un’antica tradizione obbligava tutti gli Ebrei fedeli a lavarsi le mani prima dei pasti, come segno di abbandono fuori della porta di ogni attività profana nel mondo, e anche come segno simbolico di purificazione anche interiore prima di procedere a un vero rito sacro che è il mangiare insieme dopo avere recitata la benedizione al Signore. La prescrizione resta ancora oggi.
L’uso del lavacro restò in ambito cristiano, sia con l’acqua che si porgeva all’ospite, ricevuto come Cristo, sia con le fontane poste davanti a tante chiese antiche, sia con l’innocente “acquasantiera” in ogni chiesa, sia con tipica fontana posta in ogni monastero d’Oriente e d’Occidente davanti al refettorio. L’abluzione sacra richiama così che si sta davanti alla “Presenza”.
Si comprende come a Cana questi ospiti e questi invitati, tutti buoni Ebrei osservanti, avessero a disposizione dei grandi recipienti per le abluzioni necessarie prima di entrare a mangiare. Certo, Gesù aveva polemizzato duramente contro quelli che si lavano la pelle di fuori, e non l’animo profondo davanti al Signore (Mt 15,1-20), tuttavia non aveva affatto “abolito” l’uso, in sé molto buono. Tanto, che il contenuto di quei recipienti era stato esaurito.
I recipienti vuotati sono pronti così ad accogliere la gioia messianica nuziale del Vino. Infatti adesso l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo li trasforma in contenitori dell’abbondanza messianica nuziale. Questa osservazione insinua forse una finalità nell’intenzione dell’Evangelista: contrapporre l’economia giudaica formalista preoccupata delle purificazioni rituali, alla nuova economia evangelica, prefigurata dal vino buono di Gesù.
Si confronti il passo di 2,6 con 4,6, dove nel dialogo con la samaritana il pozzo di Giacobbe è posto in parallelismo antitetico-progressivo con l’acqua viva donata da Gesù. La rivelazione di Gesù è contrapposta alla legge mosaica.
Questa intenzione di Giovanni è suggerita velatamente anche dal numero 6, che a differenza del sette che indica la perfezione, nel linguaggio biblico significa imperfezione o incompletezza. I medesimi recipienti quindi sono vuoti in modo non occasionale, l’acqua fu usata in negativo per le abluzioni sacre. Gesù li usa al positivo. Allora ordina: «Riempitele d’acqua» (v. 7a). Così mostra che non vuole operare il miracolo della creazione del vino dal nulla. Vuole trasformare l’umile creatura acqua dal meno al massimo, che è il Vino messianico nuziale. Eseguendo l’ordine docilmente, gli inservienti riempiono «fino sopra», fino all’orlo (v. 7b), dimostrando la loro obbedienza docile di fede prima di quella dei discepoli.
«Riempite»: l’imperativo aoristo positivo ordina di dare inizio a un’azione nuova. I recipienti erano stati svuotati perché l’acqua era stata usata per le abluzioni sacre; tutti gli invitati avevano infatti osservato le regole di purità prima di prendere del cibo (cf Mt 15,1-20).
L’abluzione sacra aveva richiamato che si stava davanti alla Presenza; ora i medesimi recipienti sono riempiti dell’abbondanza messianica nuziale. Il vino è infatti segno della gioia messianica nuziale; i profeti avevano predetto che il popolo demoralizzato per i suoi peccati avrebbe «attinto con gioia alle sorgenti della salvezza» (Is 12,3 è il salmo responsoriale usato nella notte di Pasqua dopo Is 55,1-11 il canto del banchetto della nuova alleanza). Quella Fonte è Egli stesso (7,37-39); il Signore a Cana è lo Sposo regale messianico che dona il Vino nuziale gioioso e buono; Egli è il Salvatore che porta l’Acqua della Vita per distruggere i peccati (Zc 13,1).
8-10 Con l’esecuzione dell’ordine di Gesù di attingere l’acqua e di portarla al maestro di tavola, si compie il prodigio.
«portatene a colui che dirige il banchetto»: l’imperativo presente positivo ordina di continuare un’azione già iniziata. I servi forse pensarono a uno di quegli scherzi che si facevano (e si fanno ancora) per tenere allegra la brigata.
«non sapeva»: solo i servi sapevano la provenienza di quel vino il maestro di tavolo no. Il versetto è ancora un’insistenza di Giovanni sull’origine prodigiosa del vino buono.
Il maggiordomo, in genere l’amico dello sposo (cf. Gv 3,29), era spesso incaricato di badare al buon funzionamento delle nozze. Esprime la sua sorpresa quando gli fanno gustare il vino e riferisce il fatto allo sposo (2,9-10). Impariamo una cosa importante: che lo sposo era – come di solito, infatti – la persona incaricata di fornire il vino delle nozze. Sappiamo, noi lettori, con la madre di Gesù e i servitori, che il vino è venuto a mancare. Sappiamo anche chi ha fornito il vino. Non certamente lo sposo. Tutto si chiarisce a questo punto: chi ha fornito il vino, l’eccellente vino di Cana? E chi è il “vero” sposo in questo racconto?
È senza dubbio chi ha procurato il vino, e l’ha procurato in abbondanza.
Il vero sposo, tuttavia, rimane nascosto e incognito. Capiamo meglio, penso, perché gli invitati sono menzionati e gli sposini invece no. Chi, però, ha scoperto l’identità dello sposo? Vale la pena rileggere i vv. 9-10.
I servitori sapevano, lo sposo e il maggiordomo invece no. I servitori sanno perché hanno sudato abbastanza per attingere e trasportare l’acqua. E l’hanno fatto senza recriminare poiché le anfore erano “piene fino all’orlo” (v. 7). Possiamo trarre una conseguenza da quest’osservazione: chi rimane seduto nella sala di nozze non si accorge di niente. Chi sta vicino alle cucine o alla cantina e si preoccupa del buono svolgimento della festa, come Maria, o chi contribuisce a salvare la festa come i servitori ne ricava un grande vantaggio, quello di “sapere” chi è il vero sposo che dà il vino dell’età messianica. Il “sapere” è condizionato dalla partecipazione attiva al successo delle nozze.
«Tutti mettono in tavola…»: «L’architriclino», il sovrintendente del convito è il terzo personaggio che in questo racconta parla e ciò che pronuncia questo maggiordomo senza nome sono sapienti parole di rivelazione. Non si trova nell’antichità nessuna norma come quella ricordata dal direttore di mensa allo sposo. L’osservazione umoristica vuole solo esaltare (parla due volte del vino buono) la bontà del vino procurato prodigiosamente da Gesù.
Resta da notare che lo sposo si distingue da tutti gli uomini, perché ha conservato il vino buono sino alla fine: lo sposo è Gesù, non solo perché nel NT lo sposo è Gesù (Cfr. Mc 2,19ss; Mt 9,15; Lc 5,34; Ap 19,7.9), ma anche perché è lui che ha dato il vino buono sino alla fine. Nell’iconografia delle Nozze di Cana sia lo Sposo (anonimo nel racconto di Giovanni) che il Signore Gesù hanno molte somiglianze.
Per quale tempo era annunziata un’abbondanza di vino? Leggere, ad esempio Amos 9,13-15; Gioele 4,18; Isaia 25,6; cf. Isaia 62,8-9. In genere, si parla dell’abbondanza di vino per la fine dei tempi o per i tempi messianici. È abbastanza chiaro, quindi, che il vino di Cana abbia a che fare con l’inizio dell’era messianica. Sarà confermato dal v. 11.
11 – Questo versetto è il commento teologico del redattore, che fa risaltare il carattere cristologico dell’avveramento e che è l’inizio dei segni, la rivelazione della gloria, il motivo di fede dei discepoli. Le nozze di Cana sono realmente il capo di tutti e 7 i “segni” operati dal Signore, che vanno ricondotti al primo di essi e tutti insieme alla loro fonte inesauribile la Resurrezione al terzo giorno.
12 – È un sommario storico che fa da cerniera con l’episodio che segue. Qui, alla fine della pericope, possiamo porci una domanda difficile: Abbiamo parlato dello Sposo ma chi potrebbe essere la sposa? È un fatto ben noto che in tutti i racconti del Nuovo Testamento che parlano di nozze, in particolare le parabole evangeliche, la sposa non è menzionata. Unica eccezione in un altro tipo di letteratura, è Apocalisse 21,2, ove la Nuova Gerusalemme è paragonata a una giovane sposa.
Esiste però una possibilità di interpretazione interessante. Nell’Antico Testamento, lo sposo è il Dio d’Israele e la sposa è il popolo (cf. Ger 2,2-3; 11,15; Ez 16,1-63; Osea 2,16-17) oppure la città di Gerusalemme (Is 54,1-8; 62,1-5). Se torniamo al racconto di Gv 2,1-12, possiamo intravedere un elemento di risposta proprio negli ultimi versetti (vv. 11-12)
Un gruppo di discepoli “crede” come i servitori dei vv. 7-9 “sanno” e sta per formare il popolo della nuova alleanza. Il racconto, purtroppo, non fornisce altri elementi. La sposa, in questo caso, sarebbe il gruppo di discepoli che accompagna Gesù di Nazareth a Cafarnao e che impersona il futuro popolo di Dio. La parola di Giovanni Battista in Gv 3,29: “Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena”
La discussione, in questo passo, verte, in effetti, sul successo di Gesù di Nazareth: “Tutti lo seguono” (Gv 3,26).
II Colletta:
O Dio, che nell’ora della croce
hai chiamato l’umanità a unirsi in Cristo,
sposo e Signore,
fa’ che in questo convito domenicale
la santa Chiesa sperimenti
la forza trasformante del suo amore,
e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…