Domenica di «S. Tommaso»
Il racconto della gloria, meglio che della passione, culmina con gli eventi della risurrezione. Anche nell’evangelo di Giovanni, come negli altri evangeli, non abbiamo il racconto della risurrezione. Nessun accenno a descrivere l’evento, solo l’incontro con il risorto e, prima di tutto, con i segni dell’assenza del corpo. È molto importante questa fedeltà ai dati dell’esperienza apostolica. Gli apostoli non hanno visto risorgere il Cristo, hanno visto la tomba vuota e hanno incontrato il Cristo dopo la Pasqua e di questo parlano. Come è avvenuto l’evento lo lasciano nel segreto perché non è stata la loro esperienza e quindi di questo non danno testimonianza.
Questa pagina del quarto evangelo è sempre la narrazione ideale per celebrare la pasqua nella nostra storia: ci aiuta a vedere la gioia della vita nelle pieghe delle sofferenze che il mondo ci affligge e ci invita a parlare del nostro incontro con Cristo Risorto nella Parola, nella liturgia e nei fratelli. Giovanni ci racconta che quel mattino solo una donna audace osò recarsi al sepolcro alla ricerca dell’amato perduto, Maria Maddalena che prova anche a cingere Gesù con un abbraccio, ma lui si sottrae al contatto “non mi trattenere”. Poi l’annuncio della risurrezione: la tomba vuota, l’incontro con Maria che annuncia: “ho visto il Signore”. Echi lontani, ma a sera, i discepoli sono ancora spaventati, barricati in casa per tenere fuori il pericolo.
Sono arrivati ai discepoli gli echi di quella giornata concitata? È penetrata un po’ di luce nella disperazione per la morte del maestro? Non sembra. A fine giornata, i discepoli sono insieme, ma non per celebrare, piuttosto per nascondersi, per sottrarsi al pericolo. E così, più di duemila anni dopo, ci ritroviamo ancora nella stessa situazione: anche noi ieri chiusi in casa per paura del contagio, oggi impauriti dai venti di guerra e dalla sempre più difficile situazione sociale e morale delle nostre città, economia instabile, migrazione, povertà sempre più diffusa. Nostro malgrado, in questo disagio, con le nostre liturgie ancora confuse, scopriamo di essere ancora più vicini a quella prima pasqua ed abbiamo bisogno di sentire che una parola di speranza risorga dalle ceneri della paura. Il tempo pasquale è sempre il tempo privilegiato per l’esperienza della fede.
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Possiamo dividere il cap. 20 di Giovanni in tre grandi scene:
1. Prima scena: la visita la sepolcro il mattino di pasqua e la scoperta della tomba vuota;
2. seconda scena: l’incontro di Maria di Magdala con il Risorto davanti al sepolcro;
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3. terza scena, doppia, è il nostro brano: l’apparizione del Risorto nel cenacolo; una prima apparizione il giorno stesso di pasqua; una seconda apparizione otto giorni dopo.
Siamo dunque ad otto giorni dalla pasqua e Gesù risorto appare in mezzo ai suoi, riuniti nel cenacolo. Dopo altri otto giorni egli apparirà ancora. Questo fatto non è privo di significato e per la Chiesa è stato indicativo dell’importanza della Domenica come giorno della Pasqua e dell’assemblea. Ogni volta che la Chiesa si riunisce, Gesù risorto è in mezzo ai suoi, secondo la sua esplicita promessa, per comunicare loro il dono del suo Spirito e per portarli ad una visione di fede.
Le nostre assemblee domestiche e liturgiche non differiscono da quella degli apostoli nel cenacolo; sono anch’esse assemblee di fede. Anche noi siamo chiamati a credere, anzi «a credere senza vedere», cioè a saper cogliere i segni della presenza del Signore attraverso la vita di una Chiesa debole e spogliata negli “eventi” ma più forte nella fede vissuta con la sola forza del battesimo, della mensa della Parola e della preghiera. Gesù risorto non è conoscibile secondo la carne, cioè coi soli mezzi umani, come esigeva l’apostolo Tommaso, ma davvero col dono della fede. In questa luce comprendiamo davvero l’inestimabile ricchezza del battesimo che ci ha purificati dal peccato, del dono dello Spirito Santo che ci ha rigenerati alla nuova vita divina, del sangue di Cristo versato per la nostra redenzione (Colletta[1]).
Poiché i sacramenti pasquali del battesimo e dell’eucaristia ci hanno inseriti nel dinamismo della pasqua di Cristo, possiamo e dobbiamo oggi esprimere con la vita quanto abbiamo ricevuto mediante la fede.
L’azione di Cristo attraverso i sacramenti esige sempre la risposta della vita. In questo senso ogni singolo e la comunità cristiana possono essere «sacramento di Gesù risorto», cioè segno che deve lasciar trasparire che siamo stati riscattati da una vita vissuta egoisticamente per noi, per passare ad una vita vissuta per gli altri con lo stesso amore di Cristo. «Noi sappiamo — dice s. Giovanni — di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli» (1 Gv. 3, 14).
Questo significa aver fatto pasqua.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso 1 Pt 2,2
Come bambini appena nati,
bramate il puro latte spirituale,
che vi faccia crescere verso la salvezza. Alleluia.
L’Iniziazione della Notte santa è l’insistenza di questo tempo, e ciò sia per i neo-battezzati, sia per i fedeli veterani. Nell’antifona d’ingresso l’Apostolo Pietro esorta i suoi fedeli a restare nell’innocenza battesimale, a cercare il Cibo dello Spirito Santo, «il latte razionale», terminologia del Logos, il Verbo, e quindi anche dello Spirito Santo, e a crescere senza limiti verso la salvezza.
Anche nella I colletta l’Iniziazione ha un posto di rilievo nell’anamnesi della fede. Segue poi un’epiclesi per ottenere in aumento la Grazia divina, Grazia sapienziale che sola ci porta a comprendere a vivere l’immenso Dono divino dell’iniziazione, dello Spirito Santo e del Sangue prezioso del Signore Risorto.
I Colletta
Dio di eterna misericordia,
che nella ricorrenza pasquale
ravvivi la fede del tuo popolo,
accresci in noi la grazia che ci hai dato,
perché tutti comprendiamo
l’inestimabile ricchezza del Battesimo
che ci ha purificati,
dello Spirito che ci ha rigenerati,
del Sangue che ci ha redenti.
Per il nostro Signore…
Canto all’Evangelo Gv 20,29
Alleluia, alleluia.
Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto;
beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!
Alleluia.
Nel canto all’evangelo il v. 29 è desunto dalla pericope evangelica. L’accento è posto sui discepoli futuri, la cui fede non pone la condizione di vedere e provare, come i discepoli di allora.
Con la Dom. di Pasqua, Risurrezione del Signore, si è aperto un periodo festivo che dura 50 giorni: il tempo di Pasqua. Il tempo pasquale è un tempo forte dell’anno liturgico, importante come la quaresima, che supera non solo nella durata, ma anche nel simbolismo. Il numero 40 indica il tempo della prova, dell’attesa, mentre il numero 50 (7 x 7 = 49 + 1; dove il 7 indica la completezza, la pienezza) è l’eternità, la perfezione della meta. Il tempo di Pasqua è il tempo liturgico dedicato allo Spirito Santo.
Da questo momento, lo Spirito agisce personalmente nella vita di tutta la Chiesa e di ciascuno dei credenti e agisce in mille modi. Il tempo pasquale si presenta come il periodo simbolico per eccellenza della tappa attuale della storia della salvezza, quella che appartiene alla Chiesa e allo Spirito Santo.
La riforma liturgica ha restituito a questo tempo la dignità e continuità primitiva: «I 50 giorni che si succedono dalla dom. di Risurrezione alla dom. di Pentecoste si celebrano come un sol giorno di festa, anzi come “la grande domenica”» (S. Atanasio). Per questo le 8 domeniche (sino a Pentecoste) non si chiamano più come nel messale precedente Dom. I, II, … dopo Pasqua, bensì Dom di Pasqua.
I testi biblici sono d’una ricchezza e d’una tale varietà, che è impossibile toccare tutti i contenuti; tracceremo perciò soltanto uno schema, rinviando il resto alla riflessione e alla sensibilità di ciascuno di noi.
La II dom. di Pasqua è l’antica dom. detta “In deponendis albis“. per il fatto che coloro i quali erano stati battezzati nella veglia pasquale, deponevano i loro vestiti bianchi quando si concludeva la settimana della loro iniziazione sacramentale. Diventavano così fedeli a tutti gli effetti. L’evangelo è identico nei tre anni A. B e C.
Anche per l’Oriente la figura dell’apostolo riveste una grande importanza tanto da meritare componimenti raffinati sia per gusto artistico che per tenore teologico. La liturgia delle Chiese orientali titola infatti con il nome dell’apostolo la seconda Dom. di Pasqua:
- Domenica dell’Antipascha o la Psêláphêsis del S. Apostolo Tommaso. La singolare importanza di questa Domenica si rileva anche dai suoi nomi. Antipáscha infatti significa che esprime in qualche modo eguaglianza e somiglianza con la Domenica della Resurrezione. In essa avvenne infatti la Psêláphêsis dell’Apostolo Tommaso, in cui si afferma per sempre la fede nel “Signore e Dio” Risorto.
- Si dice anche “Domenica delle porte chiuse” per indicare l’irresistibile Venuta del Risorto ai suoi
- e da qualcuno si chiama infine “Domenica del rinnovamento”, come quella che chiude la gloriosa settimana che segue la Resurrezione.
La contiguità funzionale di questa Domenica con quella di Pasqua ha certamente un aggancio nella celebrazione solenne del “Vespro dell’agape” alla sera della Resurrezione dove l’Evangelo, ripetuto in varie lingue, narrava la venuta del Risorto ai discepoli chiusi dentro il cenacolo e il dono della Pace e dello Spirito Santo, con l’invio a portare la remissione dei peccati al mondo (Gv 20,19-23), e la dura presa di posizione di Tommaso, disposto a credere solo a condizione che il Signore venga da lui per farsi “palpare” (Psêlápháô, verbo però non usato da Giovanni), nulla contando la testimonianza dei Dieci Apostoli (Gv 20,24-25). Il Signore per solo amore di Tommaso sottostà a queste condizioni, perchè ha bisogno della fede anche dell’incredulo Tommaso reso poi fedele e credente.
II tema dominante di questa Domenica è dunque la fede nei segni della Risurrezione. L’incredulo Tommaso dovette «vedere» per credere; i cristiani che verranno dopo credono senza aver visto, sebbene Cristo si accosti a loro con segni diversi della sua presenza gloriosa. Non con segni fisici e corporali.
I segni con cui si manifesta sono i sacramenti: l’Eucaristia, il Battesimo, ecc. questi sacramenti pasquali, non dimentichiamoli, sono segni della fede.
Nel gruppo delle letture la preponderanza dei libri del NT appare al primo colpo d’occhio.
II libro degli Atti ha lo scopo di far vedere nei tre anni, in una maniera parallela e progressiva, le prospettive di vita e la testimonianza della Chiesa primitiva. La selezione, quindi, permette di rivedere i passi più significativi del libro, ma in modo che la tematica di ciascuna delle Domeniche sia parallela a quella della stessa Domenica degli altri due anni.
Ecco i temi che comprendono le letture degli Atti nel corso delle Domeniche:
II Dom. di Pasqua: Sommari della vita della comunità.
III Dom. di Pasqua: Discorsi missionari di S. Pietro.
IV Dom. di Pasqua: Discorsi di Pietro e Paolo.
V Dom. di Pasqua: I ministeri nella Chiesa.
- Dom. di Pasqua: Manifestazioni dello Spirito Santo.
- Dom. di Pasqua: Nell’attesa dello Spirito.
Per la seconda lettura sono stati scelti tre libri del N.T.:
- nell’anno A si legge la prima lettera di S. Pietro, di evidente contenuto battesimale;
- nell’anno B si legge la prima lettera di S. Giovanni, che parla della fede e dell’amore come conseguenza del riconoscimento della manifestazione del Verbo eterno di Dio nell’uomo Gesù;
- nell’anno C si legge l’Apocalisse, coi suoi bellissimi temi dell’Agnello assiso sul trono e delle nozze di Cristo con la Chiesa. Libro poco usato nella liturgia e poco commentato anche dai Padri della chiesa è il libro della storia della Chiesa, vista nella storia di salvezza universale; a torto è considerato misterioso e cabalistico.
Le letture di ogni Dom. sono in armonia fra loro intorno a determinati aspetti del mistero pasquale:
- Dom. di Pasqua: La fede in Gesù risuscitato.
- Dom. di Pasqua: Apparizioni.
- Dom. di Pasqua: Il Buon Pastore.
- Dom. di Pasqua: Annunzio della dipartita e del ritorno.
- Dom. di Pasqua: Promesse dello Spirito Santo.
- Dom. di Pasqua: Assenza che è presenza.
Questi sono i grandi temi che orientano la celebrazione delle Dom. di Pasqua; ognuna di esse suppone un passo in più e un aspetto diverso dell’unico mistero pasquale di Cristo, che risuscita, si manifesta, è pastore della Chiesa, sale al cielo, ma resta coi suoi per mezzo dello Spirito Santo promesso e inviato.
I lettura: At 2,42-47
Mentre per 50 giorni ininterrotti la Chiesa e le Chiese celebrano Cristo Risorto che dona in modo perenne il suo Spirito Santo, lo sguardo è come attratto dalla Comunità primitiva, la prima recettrice del «Dono del Padre», lo Spirito Santo che crea la Chiesa. Il testo di oggi è di singolare importanza per comprendere alcuni dei principali effetti che provoca lo Spirito Santo in chi Lo riceve. Luca offre qui come uno spaccato della vita della Comunità apostolica, in uno dei tratti che la critica usa chiamare “sommari”, una sintesi di come viveva la Chiesa, di quale coscienza avesse al suo sorgere. I sommari costellano la prima parte degli Atti, in posizione strategica, ossia, per così dire, nei momenti d’avanzamento della Comunità. Se ne possono indicare alcuni: 1,14; 2,1; 2,41-47, in pratica il testo di oggi; 4,4; 4,32-34; 5,1246; 6,7; 9,31; 11,21; 12,24. Testi preziosi, che dovrebbero servire meglio oggi per fondare l’ecclesiologia di comunione, e per controllare le teorie e ipotesi di studio.
La pericope dei vv. 42-47 si trova in situazione strategica singolare, giungendo a concludere il capitolo fatidico della Pentecoste, che le fa da contesto. Dopo l’evento trinitario fondamentale dello Spirito Santo del Padre e del Figlio, «la Pentecoste» (2,1-13), segue la prima predicazione pubblica della Comunità adesso nata, da parte degli Apostoli ma per bocca di Pietro. E una sintesi mirabile del kèrygma della Chiesa, l’annuncio iniziale ed essenziale, incentrato su Cristo Risorto che dona lo Spirito Santo (2,14-36). In questo Tempo, tale grande discorso è distribuito così:
- anzitutto mancano nel Lezionario domenicale e festivo i vv. 15-21 e 34-35;
- i vv. 14,22-33 si leggono alla Domenica III di questo Tempo;
- i vv. 14a.36-41 alla Domenica IV, e contengono le reazioni salutari dei primi ascoltatori della mattina di Pentecoste.
Già fortificati dalla Parola potente del Risorto (Lc 24,29), i discepoli stavano sempre insieme (At 1,4.14), soprattutto nella preghiera prima di ricevere lo Spirito Santo. Dopo questo Dono divino, la loro unità è ancora più rafforzata, come non si stancheranno di esortare gli Apostoli (Eb 10,23). Il primo elemento di coesione è sempre la Parola divina, che li rende assidui (proskarteréô) alla «didachê tôn Apostólôn, la dottrina degli Apostoli», l’insegnamento affidato a essi dal Signore già nella sua Vita terrena, e che nella Chiesa deve essere l’anima di qualunque riflessione e speranza; con quel nome sarà intitolato qualche anno dopo il celebre scritto noto come Didaché, e che riporta preziosi elementi della più alta antichità ebraica e cristiana. Gli altri due elementi sono lo «spezzare il Pane» (qui, anche v. 46; e 20,7, di Domenica!), termine tecnico, anche se perdutosi, per indicare la celebrazione della Cena del Signore. Lo aveva insegnato il Signore stesso, sia quando aveva moltiplicato i pani e pesci (Mt 14,19), sia alla Cena (Mt 26,26), sia a Emmaus (Lc 24,30), gesto tanto fatidico da rendere il Signore riconoscibile ai due discepoli (Lc 24,35). Il gesto in sé spetta al capo di famiglia, e già per questo è altamente simbolico. Esso indica l’unità, significata dal pane unico, moltiplicato per così dire nei partecipanti che ne ricevono il pezzo dalle mani del padre, e mangiandone sono ancora più stretti all’unità. Lo spiega Paolo nella sua dottrina della partecipazione al Corpo del Signore (1 Cor 10,16-17). Ma la dottrina degli Apostoli e la celebrazione della Cena nel Segno del Pane (e della Coppa, 1 Cor 12,13), sono come vivificate dalle preghiere (v. 42). Con questo termine globale, che viene dall’A. T., si intende sia la vita di preghiera intensa e ininterrotta della Comunità, sia «la Preghiera» tipica, con i Salmi e il «Padre nostro», ossia la preghiera eucaristica. Così si avrebbero i 3 elementi della celebrazione del Signore Risorto: la Liturgia della Parola, la Prece eucaristica e la comunione, che sono fissate per sempre dalla Tradizione delle Chiese fino a oggi.
Un primo effetto che questa Comunità visibile esercita «su ogni anima» è il santo timore del Signore, la consapevolezza che “lì”, in essi, sta presente lo Spirito messianico del Signore, atteso, operatore con il suo Re Unto, di «prodigi e segni». E questo avviene per mano degli Apostoli (v. 43). Si realizza così in potenza la promessa del Signore Risorto, che invia i suoi discepoli ad annunciare l’Evangelo «all’intera creazione», a ogni anima (Mc 16,15), e dando a essi la facoltà a di essere accompagnati da grandi segni (Mc 16,17-18). Non solo, ma mentre i discepoli eseguono la missione del loro Signore glorioso, questi stesso collabora con essi, e «conferma la loro Parola con i segni che seguono» (Mc 16,20). Così, come è regola nella Rivelazione biblica, la Parola ascoltata è connessa e confermata dalla visione dei segni operati nella Potenza dello Spirito Santo (v. 43).
Prosegue il sommario sulla Comunità primitiva. Anzitutto è evidenziata l’unità, i credenti, ossia gli Apostoli e i primi battezzati, «stavano insieme», formavano un gruppo compatto nella fede e nelle decisioni operative, non solo, ma possedevano tutto in comune, come sarà ripetuto diverse altre volte (4,22.34.35). Si tratta di esperimenti di comunismo», come l’antichità vide diverse volte, e codificò ad esempio con Platone, e come la storia annota fino a oggi di tali esperimenti, gli entusiasmi ardenti dell’inizio e i tristi fallimenti della fine, quasi sempre rovinosa? No. Quelle esperienze contavano sull’ingenua «solidarietà umana», senza mai fare i conti con la «legge del peccato», che è scisma ed egoismo irreprimibili, che prima o poi riemergono. Qui invece insorge il principale motivo della storia della salvezza, la «legge della carità» (v. 44). In realtà l’annotazione qui laconica di Luca sarà spiegata a lungo da Paolo, quando ricorderà alle sue Comunità e soprattutto ai benestanti delle medesime, che questa messa in comune dei beni è «opera della carità» (2 Cor 8,6.7.19), è «opera di bontà» (2 Cor 9,8), è una vera «liturgia e diaconia» (2 Cor 9,12) che provoca azioni di grazie al Signore. La partenza è proprio il Signore, «che pur essendo ricco, si fece povero per voi, per arricchire voi con la sua povertà» (2 Cor 8,9). E poiché «Dio ama il donatore gioioso» (2 Cor 9,7, che cita Pr 22,8), avverrà che i poveri, nel caso concreto, le Comunità apostoliche povere per definizione, già arricchirono i ricchi con i doni spirituali, e quindi i ricchi adesso dovrebbero dimostrare la loro gratitudine ponendo a disposizione i loro beni, in modo che la ricomunicazione con i poveri sia completa. È abolita la barriera più ostinata della divisione tra gli uomini, i beni materiali (2 Cor 9,12-15).
Il v. 45 prosegue mostrando come questo avveniva. I fedeli si vendevano i beni (ktêmata, può significare terreni e anche animali) e le sostanze, e donavano il ricavato a tutti secondo le necessità di ciascuno. Questo è il preciso comandamento del Signore, dettato nell’incontro difficile con il misterioso «giovane ricco», uomo dalla vita spirituale in apparenza sana. Significativamente il Signore l’avverte che gli manca «l’unico», la realtà più importante, e l’investe con la raffica di 6 imperativi: va’, vendi tutto, dona ai poveri, vieni, seguimi, accetta la Croce (Mc 10,17-22, spec. v. 21; Mt 19,21, testo molto meno duro).
In conclusione, la prima preoccupazione della Comunità apostolica sono i poveri, che sono presi a carico, e diventano «i suoi» poveri.
Il sommario prosegue. I fedeli giorno per giorno «erano perseveranti unanimemente» (espressione ripresa da 1,14, il verbo dal v. 42; l’avverbio homothymadón alla lettera significa «eguale respiro»). Il luogo visibile di questo stare uniti insieme è il tempio (v. 46a). Ed il motivo è chiaro, nel tempio si procedeva al sacrificio e alla preghiera del mattino e della sera, con la lettura delle Scritture e il canto dei Salmi, e le benedizioni al Signore. La Chiesa apostolica sa bene di essere anch’essa l’Israele di Dio, non un «nuovo Israele», che di fatto è rovinosamente inteso come un «altro Israele», come se il Signore potesse avere due Disegni e crearsi due popoli differenti. Il culto dell’unico Israele è ancora unito, verrà poi il momento tragico della divisione, di due assemblee liturgiche dell’unico popolo di Dio fino a oggi.
Ma il culto della Comunità è più complesso e differenziato. Esso prosegue casa per casa dei fedeli con la «frazione del pane» (v. 42), che fa di essi «l’unico Pane» (1 Cor 10,16-17). Poi termina con un altro atto cultuale tipico, il «mangiare insieme», che comincia con la benedizione al Signore, e termina con un’altra benedizione per significare che è tutta liturgia. Questo avviene «con gioia e semplicità di cuore» (anche 16,34), la gioia promessa dal Signore dopo la sua Gloria (Gv 16,22) e adesso inaugurata dal Regno venuto, il Convito. Luca, discepolo di Paolo, pone in rilievo la semplicità del cuore. Paolo ne parla proprio a proposito delle «collette per i poveri», nei testi visti appena qui sopra. Le Chiese di Macedonia, anche se composte in fondo di poveri, tuttavia si sono quotate generosamente «con gioia e semplicità» per sovvenire i poveri di Gerusalemme (2 Cor 8,2), e anche i Corinzi, se faranno il medesimo, si arricchiranno «abbondando di tutta la semplicità», e chi fa la carità glorifica Dio per l’obbedienza all’Evangelo e per la semplicità con cui spartisce i beni con i poveri (2 Cor 9,11 e 13). La semplicità in realtà è dote eminente di Cristo stesso (2 Cor 11,3). Per cui si aborre ogni sfarzo, ogni ostentazione, ogni successo esterno. È un discorso a cui i cristiani dovrebbero essere richiamati sempre (v. 46). Il sigillo del sommario che adesso termina è la lode continua a Dio, la vita diventata una liturgia laudativa, che nella sorpresa rinnovata, nella gioia, contempla Lui, i suoi titoli, le sue opere sempre mirabili, e sale all’unione personale; nella lode scompare ogni egoismo, anche il ringraziamento per i benefici ricevuti, e si tende solo a «Lui perché è Lui». La Comunità è visibile, ma non ostenta in nulla le sue qualità. La sua visibilità operante le procura la grazia, il favore permanente presso «l’intero popolo», come avverrà ancora (4,21; 5,13). E questo non è altro che la migliore presentazione. Si aprono le vie per la diffusione dell’Evangelo. E di fatto il Signore, che qui è sia il Padre, sia il Risorto, operava il prodigio ultimo, di accrescere come comunione (epì tó autò, sul medesimo [fatto]) i salvati, giorno per giorno (v. 47). Il movimento irresistibile è cominciato con il battesimo (v. 41). Proseguirà ancora (5,14, 11,24, etc).
Evangelo
Una rapida lettura del contesto della pericope evangelica fa subito risaltare come il c. 20 ruoti attorno alle apparizioni di Gesù risorto a Maria Maddalena e a Tommaso. Mentre gli eventi che hanno come protagonista questa discepola, si verificano il mattino di pasqua, le apparizioni ai discepoli avvengono la sera di questo giorno e una settimana dopo.
Dal punto di vista topografico rileviamo che gli eventi della prima sezione (Gv 20,1-18) si verificano presso la tomba di Gesù o hanno per oggetto questo sepolcro; invece nella seconda parte (Gv 20,19-29) ci troviamo nel cenacolo.
Il nostro brano è incentrato nella figura di Tommaso: dopo la descrizione della prima apparizione del risorto ai discepoli è riportata la reazione negativa di questo apostolo all’annuncio strabiliante della risurrezione del Maestro. Nel brano finale è narrata la seconda apparizione di Gesù ai discepoli, presente Tommaso, con il quale il risorto dialoga, per proclamare beati coloro che credono senza aver visto. L’unità dell’intero capitolo è data dalla presenza di Gesù: il Risorto appare a Maria Maddalena e poi al gruppo dei discepoli. L’evangelista, prendendo lo spunto dalle ultime espressioni del Risorto a Tommaso, conclude l’evangelo, dichiarando che lo scopo della sua opera è suscitare la fede nella messianicità e nella divinità di Gesù.
Le scene descritte in Gv 20 appaiono nella loro originalità drammatica, propria del 4° evangelista: gli incontri di Gesù con Maria Maddalena e con Tommaso sono creazioni letterarie di un artista molto fine.
Anche qui però il 4° evangelista non inventa, ma tramanda notizie redazionali riscontrabili negli altri scritti del NT; lo scrittore sacro rielabora questi dati storici, presentandoli in modo personale.
In Gv 20 sono riportati tre fatti fondamentali:
- la constatazione del sepolcro vuoto da parte di Maria Maddalena e di alcuni discepoli;
- l’apparizione del Cristo risorto a questa donna;
- le apparizioni di Gesù ai discepoli.
Questo triplice elemento è tramandato anche dai sinottici.
Esaminiamo il brano
v. 19: È la sera di “quel giorno”, il 1° della settimana che apre il tempo nuovo di Dio. La sera di pasqua, il giorno che noi chiamiamo domenica, Gesù si rende presente in mezzo ai discepoli. Tradizionalmente il luogo di questo incontro è chiamato il cenacolo, cioè la sala da pranzo, quella stanza in casa di ospiti, di persone, cioè che avevano accolto i discepoli a Gerusalemme. Erano andati a Gerusalemme per la festa, non risiedevano infatti nella città, ma erano ospiti di qualcuno, quindi il cenacolo è una sala da pranzo prestata da qualche ricca persona di Gerusalemme che ha una casa molto spaziosa e può permettersi di accogliere questo gruppo di persone. Si sono chiusi dentro perché hanno paura e, mentre le porte sono chiuse da di dentro, il Cristo si rende presente. Non c’è in greco propriamente il verbo venire, ma il verbo stare: stette in mezzo a loro, è la presenza; e la sottolineatura delle porte chiuse vuole indicare come non è passato attraverso i comuni accessi, ma ormai il suo corpo è completamente diverso dal corpo umano, non è più soggetto alle leggi fisiche.
I discepoli sono spaventati, quasi ossessionati dalla paura dei Giudei e l’evangelista Giovani annota come le porte siano chiuse. Lc 24,36-49 è molto vicino al racconto di Giovanni. I discepoli spaventati sono rassicurati da Gesù; non come un tempo «Sono io» (Gv 6,20), perché la sua presenza è ormai di un altro ordine, ma «Pace a voi» che non si tratta del consueto saluto ebraico (cf. Gdc 6,23; 19,20; Lc 10,5), ma è l’adempimento della promessa fatta all’ultima cena (cf. Gv 14,27).
È la pace che li renderà capaci di superare lo scandalo della croce e ottenere la liberazione nella loro vita. Il saluto è ripetuto due volte.
v. 20 : «Mostrò loro…»: Mostra i segni della morte, le ferite per cui è morto, queste ferite che non uccidono più; i segni ci sono ancora, è il morto, eppure è lì, è vivo…
E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
È il momento centrale dell’esperienza, quello della gioia, della presenza dell’amato.
Giovanni sottolinea con forza che il Cristo che appare e che sta in mezzo ai discepoli è un essere reale, è lo stesso Gesù appeso sulla croce, per questo mostra i segni del suo martirio. Giovanni è il solo a dare rilievo alla piaga del costato; già nella crocifissione l’aveva menzionata come densa di significato per il sangue e acqua che ne uscirono (Gv 19,34-35). Luca non parla di costato perché nel racconto della passione questo episodio non è citato. Ma con tutto questo, fra il modo di essere del Gesù di prima e del Cristo di ora, c’è una profonda differenza: egli entra improvvisamente, a porte chiuse.
L’umanità del Cristo è stata trasfigurata radicalmente, per cui non appare più soggetta alle leggi fìsiche; perciò il Risorto può penetrare in ambienti chiusi, a porte serrate, comparendo ai discepoli come d’incanto (vv. 19 e 26).
vv. 21-23: Questi versetti ci mostrano il compimento di altre due promesse:
- la missione;
- il dono dello Spirito.
Gesù manda i discepoli e non si precisa dove e a chi sono mandati.
Mt 28,18 dice a «tutti i popoli»; Mc 16,15 parla di «estremità della terra».
L’indeterminazione che c’è nel testo di Giovanni è più eloquente, è di un’apertura senza confini. Il quarto evangelo non si dilunga nel descrivere la missione, nè indica l’aspetto centrale: il perdono dei peccati. Tutto è detto in quel «come il Padre ha mandato me». È un invito a rileggere i numerosi passi dell’evangelo in cui è descritta la missione che Gesù ha ricevuto dal Padre (3,17.34; 5;36.38; 6,57;…).
Gesù «alitò su di loro»: è solo di Giovanni in Luca è una promessa che si verificherà a Pentecoste (At 2,1-4). Il gesto è un simbolismo conosciuto nell’antico Testamento ed esprime l’idea di una creazione rinnovata. Gen 2,7 creazione di Adamo; vedi anche la grande visione di Ezechiele (37,9). Soltanto lo Spirito di Dio è capace di ricreare l’uomo e strapparlo al peccato (Ez 36,26-27; Sal 50,12-13; 1 Re 17,21). Lo Spirito è il dono del Cristo, viene dal «soffio» del Cristo Risorto; in ebraico il termine «spirito» e «soffio» coincidono, ricordiamo Gv 19,30. Quello che era stato detto per il momento della Croce: “parédoke to pneuma” = consegnò lo spirito, adesso viene ripetuto per il giorno di pasqua.
Alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; cioè il respiro di Dio. Santo è tutto ciò che appartiene a Dio; Spirito è il respiro, il principio vitale, il soffio della vita, quindi: ricevete la vita di Dio. Vi è comunicata la vita di Dio, ecco la rivelazione.
Finalmente abbiamo capito che cosa vuol dire che il Cristo è rivelatore di Dio, perché comunica la vita di Dio e ha creato l’uomo nuovo. E a questi uomini nuovi, che sono i suoi discepoli, viene affidata la continuazione dell’opera di Gesù, quella di liberare l’uomo dal peccato. La missione, il dono dello Spirito, il potere di rimettere i peccati sono dati all’intera comunità, che però si esprime attraverso coloro che detengono il ministero apostolico.
vv.24-25: Siamo davanti alla prima testimonianza ecclesiale e al suo primo insuccesso; Tommaso non crede (per conoscere la personalità di questo apostolo si legga 14,5; 11,16), questo apostolo è un uomo concreto che vuol vedere con i suoi occhi e toccare con le proprie mani. Il dubbio dei discepoli in Giovanni è affrontato nella cruda realtà, mentre in Mt 28,16-20 e Lc 24,34-43 è affrontato in maniera solo enunciata ed anonima.
«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo»: In greco “Didimo”, così come l’aramaico “Toma” vuol dire quello che in italiano si dice gemello. Quindi Didimo non è il soprannome, è la traduzione greca dell’aramaico Tommaso e allora noi traduciamo in italiano perché non tutti capiscono Didimo e allora Tommaso, cioè il gemello. Quello che non capiamo è perché a Giovanni interessi spiegare al suo uditorio greco il significato del nome di questo discepolo. Le interpretazioni sono molteplici, ve ne propongo due; voi potete trovarne una terza, quella migliore:
- L’idea del gemello richiama alla duplicità e allora Giovanni vorrebbe dire che Tommaso è l’immagine dell’uomo diviso, delle due figure che ha dentro, dell’uomo che crede e che non crede, dell’uomo entusiasta e dell’incredulo. Aveva detto nell’evangelo: andiamo a morire con lui, e adesso non vuole credere che è risorto. È l’uomo che trova in sé la difficoltà e si trova diviso.
- L’idea di gemello richiama anche la somiglianza, il gemello è simile al gemello, allora Giovanni vorrebbe vedere in Tommaso il doppio di Gesù, l’alter ego, il gemello di Gesù, cioè il discepolo che assomiglia al maestro e che tende a diventare simile in tutto al suo maestro.
Di fatto Giovanni traduce il nome, per qualche motivo che non ci è ancora chiaro del tutto. Tommaso, comunque non era presente quella sera di pasqua.
«uno dei dodici»: Nel 4° evangelo, come presso i sinottici, i «dodici» indicano gli apostoli. Il brano della vocazione di questi discepoli più intimi appare significativo: dal gruppo dei suoi seguaci il Maestro ne sceglie dodici per inviarli a proclamare l’evangelo (Mc 3,13ss e par.).
Anche in Giovanni troviamo una netta distinzione tra i discepoli in genere e il gruppo dei «dodici»: il brano che descrive la defezione dei primi e l’adesione dei secondi a Gesù, è molto chiara in merito (Gv 6,66ss).
Ora, in Gv 20,24 siamo informati che Tommaso era uno dei «dodici» cioè uno dei dodici apostoli; questo è l’unico passo di Gv 20, nel quale si fa riferimento al gruppo dei «dodici»; nei restanti versetti si parla sempre dei discepoli (cf. Gv 20,18ss.25s), perciò si tratta di tutti i seguaci di Gesù presenti nel cenacolo e non dei soli apostoli, anche se i «dodici» occupano un posto di preminenza. In base a questo dato esegetico si deve concludere che non solo i dodici apostoli, ma tutta la comunità dei discepoli ricevette il dono dello Spirito, per essere abilitata alla missione. In realtà, come abbiamo or ora costatato, lo Spirito Santo crea il nuovo popolo di Dio, formato non di soli apostoli, ma di tutti i seguaci del Cristo.
«Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»: Tommaso, ragionando semplicemente con le sue capacità umane, non può ammettere il fatto della risurrezione e vuole delle prove concrete.
vv. 26-27: «Otto giorni dopo…»: Il rituale è lo stesso della prima apparizione, Gesù è sempre lui. Senza attendere risposte và da Tommaso e gli fa constatare la sua identità, calma le sue apprensioni e lo invita a non comportarsi da incredulo. Lo chiama ad approfondire la sua fede di prima, a rafforzarla, a farla crescere. Egli non deve limitarsi alla fede nel messia deve credere al Figlio dell’uomo glorificato nella sua morte.
È molto importante questa sottolineatura; la seconda apparizione del Risorto avviene di nuovo di domenica, di nuovo nell’incontro con i discepoli dove sono riuniti. Dove c’è la comunità, riunita nel ricordo del Risorto, è presente il Risorto e questa volta Tommaso è con loro. È importante notare ancora come Tommaso incontra il Risorto non per conto suo, ma quando è con la comunità. Non viene gratificato da Gesù con una apparizione privata, il Cristo risorto è di nuovo presente in mezzo alla comunità nel momento dell’incontro comune e Tommaso, essendo con gli altri, incontra il Risorto. Quando era fuori dalla comunità non lo ha incontrato.
Antifona alla Comunione Cf Gv 20,27
«Accosta la tua mano, tocca le cicatrici dei chiodi
e non essere incredulo, ma credente». Alleluia.
L’invito del Signore a Tommaso è «per i fedeli oggi qui». Essi stesero la mano supplichevole. Dal «luogo dei chiodi» hanno ricevuto il Dono dello Spirito Santo nella Parola e nella Mensa. E, non increduli ma credenti, e riuniti dallo Spirito Santo nel Cenacolo divino che è la Chiesa, sono saziati dall’esuberanza dei Beni divini scaturiti dalle Sante Piaghe. Perciò ricevono e godono del Giubileo divino dello Spirito Santo.
v. 28 «Mio Signore e mio Dio»: Tommaso perde ogni freno, quasi esagera nella sua professione di fede. In nessun punto del 4° evangelo c’è una professione di fede così decisa e chiara. Tra la prima professione del discepolo Natanaele (1,49) all’ultima di Tommaso è contenuto il viaggio di fede della comunità. S Gregorio Magno diceva:«Ci ha giovato più l’infedeltà di Tommaso che la fede dei discepoli credenti», perché questi ha vissuto il dramma di molti di noi, ha parlato per noi e per noi ha avuto la risposta.
Così anche la liturgia bizantina con i suoi tropari:
O straordinario prodigio! L’incredulità ha generato ferma fede. Tommaso infatti che aveva detto: Se non vedo, non credo; dopo aver palpato il costato, proclamava la divinità di colui che si era incarnato, il Figlio stesso di Dio. Ha fatto conoscere colui che nella carne ha patito: ha annunciato il Dio che è risorto, e a chiara voce ha gridato: O mio Signore e mio Dio, gloria a te.
O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato il fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato igneo di Gesù Cristo Dio, e non è stato bruciato da questo contatto; con ardore ha infatti mutato in bella fede l’incertezza dell’anima, e dal profondo dell’anima ha gridato: Tu sei il mio Sovrano e Dio, risorto dai morti. Gloria a te.
O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci all’economia, perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione, esclamando: O mio Signore e mio Dio, gloria a te.
Con la sua destra indiscreta Tommaso ha esaminato, o Cristo Dio, il tuo vivificante costato: e giacché tu eri entrato a porte chiuse, insieme agli altri apostoli esclamava: Tu sei mio Signore e mio Dio (Kondakion).
Giovanni all’inizio della sua lettera dirà: «1Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – 2la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, 3quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. 4Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena». E Tommaso incontra il corpo del Risorto, un corpo che è presente nonostante le porte chiuse ed è un corpo reale. E Tommaso riconosce in quell’uomo, in quelle ferite la divinità. Vede un corpo piagato, un costato trafitto e riconosce Dio, riconosce la divinità. È la frase più solenne di tutti gli evangeli in cui Gesù viene riconosciuto esplicitamente come Dio.
Non potrebbe proprio alla luce di questo perfetto riconoscimento di Dio in Gesù che Giovanni abbia voluto esprimere la uguaglianza del discepolo con il Signore? Tommaso–gemello di Gesù in quanto, riconoscendolo pienamente come Dio, è come entrato in lui, è ormai parte di lui e ne condivide la umanità e la divinità.
vv. 28-29 «Beati…»: L’assicurazione accordata a Tommaso è in via eccezionale, la normalità riposa sul fondamento dell’ascolto. Il segno che conduce alla fede si è trasformato: non è più oggetto di visione diretta ma di testimonianza. Ecco l’apertura a tutta la chiesa, a tutta la comunità; é l’apostolo testimone che si fa interprete di questa esperienza. La beatitudine è di tutti i cristiani, anche se non hanno avuto questa esperienza forte, esclusiva, degli apostoli perché la beatitudine sta nella fede: «Beata colei che ha creduto»: Maria; beati quelli che crederanno. La beatitudine è nella adesione personale, filiale, affettiva al Cristo, anche senza questa esperienza forte che è stata degli apostoli.
vv. 30-31: «credendo, abbiate la vita nel suo nome»: pur essendo la conclusione dell’intero evangelo sono particolarmente collegati al racconto dell’apparizione Tommaso e alla beatitudine della fede.
Le Parole e i molti altri segni di Gesù oggi raggiungono ognuno di noi nel chiuso delle nostre case. La speranza pasquale non teme le chiusure. Gesù oggi, come ieri, viene in mezzo a noi e ci annuncia la pace: Pace a voi. Abbiamo bisogno di pace in questo assedio non è vero? La sua pace non nega la difficoltà della situazione: Gesù mostra i segni della crocifissione ai suoi per farsi riconoscere, ma anche per non far finta che nulla sia accaduto. E poi soffia, soffia il suo Spirito. In quel soffio si rigenera la speranza, nasce e vive la Chiesa. I paurosi, gli sconfitti, ricevono lo Spirito di Cristo per ritornare a vivere. Il primo vagito di questa nuova umanità è stato ed è ancora il perdono. Perdonarsi a vicenda. Siamo creature fragili, codarde, incoerenti. Sbagliamo, ci feriamo, ma se impariamo a perdonarci reciprocamente e a perdonare noi stessi saremo davvero persone pasquali, rimodellate dal Risorto. Oggi, nel chiuso delle nostre case è entrato Dio, il Risorto. Ha soffiato su ciascuno di noi, ci ha chiesto di far pace con i nostri errori e ci affida il ministero della riconciliazione. Lasciamoci perdonare, perdoniamo a nostra volta; amiamo e sarà Pasqua tutti i giorni, vita ritrovata.
II Colletta
Signore Dio nostro,
che nella tua grande misericordia
ci hai rigenerati a una speranza viva
mediante la risurrezione del tuo Figlio,
accresci in noi,
sulla testimonianza degli Apostoli,
la fede pasquale,
perché aderendo a lui pur senza averlo visto
riceviamo il frutto della vita nuova. Per il nostro Signore…
[1] – Colletta: Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza pasquale ravvivi la fede del tuo popolo, accresci in noi la grazia che ci hai dato, perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti. Per il nostro Signore…
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano