DOMENICA «DEL COMANDAMENTO NUOVO»
Non appena Giuda ha abbandonato il cenacolo, nella notte, Gesù affida ai discepoli il suo testamento spirituale, annunciando così la sua partenza per la casa del Padre, condizione indispensabile per la glorificazione di Dio e del Figlio dell’Uomo. Rimaniamo sorpresi dai termini che scandiscono l’inizio di questo discorso d’addio: «Ora … subito … per poco». Di quale intervallo di tempo si tratta? Senza dubbio del tempo che segue la Pasqua, durante il quale Gesù, già nel pieno possesso della sua gloria nel seno del Padre, ne attende ancora, con la sua chiesa, la piena manifestazione. Parole inquietanti vengono pronunciate all’inizio di quest’attesa, che è anche la nostra: Gesù non sarà più con i discepoli. Non perché ha deciso di lasciarli soli, abbandonati a se stessi, ma perché devono passare dall’abitudine alla sua presenza fisica alla fede nella sua presenza invisibile, nel cuore stesso dell’assenza.
Sperimentare, per mezzo della fede, la sua presenza nell’assenza, è una delle caratteristiche fondamentali della vita cristiana fino alla parusia.
Ma c’è un altro aspetto, altrettanto essenziale: risuscitare la presenza del figlio dell’uomo attraverso la pratica del comandamento nuovo, amandoci gli uni gli altri come egli ci ha amati. Quest’amore reciproco è garanzia e manifestazione della presenza permanente del risorto in mezzo ai suoi. L’amore scambievole è dunque il comportamento specifico dei cristiani nel tempo che va dalla partenza di Gesù al suo ritorno definitivo. È la carità, frutto dell’amore di Gesù per i suoi, che rende i cristiani discepoli perfetti e rivela la presenza invisibile del Signore nella Chiesa. «Vedete come si amano»: insieme all’Eucaristia, non c’è altro segno distintivo, perché si tratta del nostro modo concreto, l’unico valido, di vivere la fede pasquale. La circolarità dell’amore che, attraverso un continuo scambio, stringe in unità il Padre, il Figlio, lo Spirito e la Comunità: ecco la realtà «nuova» che ci fa contemplare oggi la liturgia della Parola
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Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 97,1-2
Cantate al Signore un canto nuovo,
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perché ha compiuto prodigi;
a tutti i popoli ha rivelato la salvezza. Alleluia.
Con l’antifona d’ingresso l’assemblea liturgica è ancora concentrata sul suo Signore Risorto e invitata a disporsi alla divina Presenza cantando “il cantico nuovo”, la lode perenne sempre motivata dai “fatti mirabili” operati dal Signore. Invito frequente in tutta la Scrittura fino a scoprire il senso ultimo: in Ap 5,9 all’agnello, il servo sofferente ma Risorto i 4 Viventi e i 24 Anziani cantano il “cantico nuovo”. In Ap 14,3 i 144.00 redenti in Sion cantano ancora all’Agnello questo “cantico nuovo”.
In Ap 15,3 gli Angeli in una immensa liturgia cantano il “cantico di Mosè, il servo di Dio e il cantico dell’Agnello”, rivelando che il “cantico nuovo” significa “primo ed ultimo”. Quando il Signore con Mosè fece passare il Mar Rosso creando così il suo popolo diletto, questo cantò il canto della Vittoria divina (Es 15,1-18). Il Signore opera questo fatto sempre, così che l’esodo redentore diventa tipologico nella storia. Quel “cantico” celebra il Signore che in modo permanente riporta la vittoria sui nemici di tutti gli uomini: il Peccato, la Morte, il Diavolo. Con la Resurrezione del Figlio la Giustizia divina, l’infinita Misericordia ha redento tutta l’umanità dalla schiavitù del peccato: dalla Morte alla Vita e alla Libertà.
Canto all’Evangelo Gv 13,34
Alleluia, alleluia.
Vi dò un comandamento nuovo, dice il Signore:
come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Alleluia.
Il versetto è tratto dalla pericope evangelica di oggi e orienta l’assemblea liturgica verso il tema del giorno, il punto ritenuto centrale: il precetto nuovo, l’amore fraterno motivato però non dall’egoismo della carne o del gruppo, bensì dall’amore fontale e causale del Signore per i suoi.
I Colletta
O Padre, che ci hai donato
il Salvatore e lo Spirito Santo,
guarda con benevolenza i tuoi figli di adozione,
perché a tutti i credenti in Cristo
sia data la vera libertà e l’eredità eterna.
Per il nostro Signore…
Da questa Domenica fino alla VIIa i testi dell’Evangelo sono tratti dai grandi discorsi di Gesù durante la Cena (cc 13-17); essi contengono l’insegnamento privato di Gesù ai discepoli. Anche i sinottici contengono un insegnamento privato ma lo presentano in modo sparso, nel corso dell’Evangelo: per esempio la missione dei dodici e le istruzioni relative (Mt 9,35-10,15), gli annunci di persecuzioni (Mt 10,15-39) ecc..
C’è comunque anche nei sinottici una tendenza a intensificare e concentrare l’insegnamento all’avvicinarsi della passione (cfr. Lc 22,24-38 ultima cena), quasi a voler tirare le fila di un lungo discorso.
La scelta di questi brani per la liturgia delle ultime Domeniche di Pasqua non è casuale ma ha un preciso intento celebrativo. Come nei cc 13-17 il Signore promette lo Spirito Santo e prepara così i suoi discepoli, i teknía «figlioletti», così la Chiesa celebrando a sua volta Cristo Risorto si prepara in un certo senso alla Pentecoste.
Il contesto lo abbiamo evidenziato: lavanda dei piedi e imminente passione. Non abbiamo riferimenti con i sinottici.
I versetti dell’Evangelo ci parlano della glorificazione di Gesù da parte del Padre; anche il brano dell’Apocalisse ci descrive il momento della glorificazione definitiva di Cristo e degli eletti nelle nozze escatologiche.
I vv. 34-35, quelli del comandamento nuovo, ci insegnano come dobbiamo passare il tempo dell’attesa, che è il tempo della Chiesa: nell’amore reciproco.
I lettura: At 14,20b-27 (Rapporti fra le prime comunità cristiane)
Durante il primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba si delinea l’itinerario dei due apostoli da Derbe (14,19) verso luoghi già visitati con varie vicende, Listra e Iconio (13,51 – 14,18), per tornare poi alla base, la comunità inviante di Antiochia (v. 20b). Paolo dunque, terminato il suo primo viaggio missionario, sta per rientrare ad Antiochia, nella comunità da cui era partito per annunciare l’Evangelo ai pagani. Egli si preoccupa innanzitutto di rendere salde contro le persecuzioni le giovani comunità che ha fondato e di dare loro degli «anziani» che ne assicurino l’unità e la fedeltà all’Evangelo. Contrariamente alle comunità giudaiche, ripiegate su se stesse in attesa del gran giorno della ricomposizione dell’unità, le comunità cristiane sono essenzialmente aperte: vivono in relazione costante con l’apostolo, che le mette reciprocamente in contatto fra loro.
In questa sezione del viaggio, i due apostoli “confermano” nella fede i nuovi cristiani (15,32.41), come più volte Paolo stesso opererà (1 Tess 3,2.13; Rom 1,11), svolgendo come opera essenziale l’esortazione degli animi (11,23; e 6,7) nella fede nascente; già così Paolo aveva agito ad Antiochia di Pisidia, esortando a restare nella Grazia divina ricevuta ed accettata (13,43b). Il contenuto dell’esortazione è che nel Regno si entra solo con molte tribolazioni. Questo è un tratto caratteristico della predicazione del Signore stesso, ripreso da tutta la Tradizione apostolica del NT; e qui è difficile citare tutti i testi (Gv 15,20; 16,33; Mt 7,13-14; Lc 22,28.29; 1 Tess 3,2; 2 Tess 1,5; Rom 8,17; Fil 1,29; 2 Tim 2,12; 3,12; 1 Pt 5,10; Ap 1,9, ed altri). Paolo stesso diventa cristiano e apostolo sotto questo segno supremo (At 9,16) (v. 21).
I due apostoli poi procedono ad organizzare la vita cristiana, anzitutto quindi costituendo i Presbiteri o Vescovi della Chiesa locale, che dovranno esercitare il loro ufficio dopo che i fondatori partiranno (11,30; e Tit 1,5); ma questo avviene nella preghiera e nel digiuno, e, come si sa, il digiuno nella tradizione cristiana è interrotto sempre dalla gioia della celebrazione dei Misteri, anche se qui non se ne parla. E prima di partire essi raccomandano la comunità al Signore nel quale si era creduto (v. 22), come Paolo farà anche altre volte (20,32).
I vv. 23-25 descrivono quindi il viaggio di ritorno dalla zona visitata dell’Asia Minore, la Pisidia e la Panfilia (v. 23) verso Perge e Attalia, porto di mare (v. 24); da qui Paolo e Barnaba si imbarcano per Antiochia, dalla cui comunità erano stati deputati a compiere l’opera divina (v. 25; vedi 13,1-3). Ad Antiochia i due danno il resoconto del loro operato all’assemblea della Comunità, descrivendo le opere divine avvenute mediante essi e in essi (v. 26). Questo si ripeterà anche altre volte (15,4; 21,19), e segna il magnifico metodo delle Comunità primitive, l’informazione costante e lo scambio, e il giudizio finale sul da farsi in seguito e in conseguenza della situazione che si è verificata.
Il resoconto è qui compendiato in una frase straordinariamente efficace: Dio stesso operò mediante essi, e aprì alle nazioni pagane «la porta della fede» (v. 27). L’espressione è propriamente paolina, l’Apostolo la riferisce con gioia e con crudezza, in quanto tale apertura causa anche «molti nemici» della fede (1 Cor 16,9); lo ripete nella sintesi della sua vita presentata di nuovo ai Corinzi (2 Cor 2,12). Non solo, ma esorta le sue Comunità a pregare con insistenza, ininterrottamente, affinché questa porta si apra. È la «porta della Parola per parlare del Mistero di Cristo», per il quale in questo momento sta in catene (Col 4,3); ed insiste su questa richiesta di preghiera, «affinché sia donata [da Dio] a me la Parola con l’apertura della mia bocca con franchezza, per rendere noto il Mistero dell’Evangelo» (Ef 6,19). Solo Dio infatti può concedere questa «porta aperta», posta a disposizione dei suoi fedeli per la loro vita (Ap 3,8).
Esaminiamo il brano
31 – Giuda è appena uscito per consumare il tradimento, il momento è cupo, il v. 30 annota «era notte»; in parallelo Lc 22,53 «questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre». II momento è grave, decisivo, il Cristo Luce sembra destinato a spegnersi. Ma è in quest’ora di tenebre che la Luce risplende; la seconda parte del v. 31 è un grido di trionfo, di giubilo «Ora il Figlio dell’Uomo è stato glorificato». Nel momento in cui Gesù si consegna alle tenebre, la sua gloria esplode, appare in lui la gloria di Dio Padre.
Da notare come Gesù celebri il suo trionfo come già compiuto. Egli si esprime al passato (in greco l’aoristo traduce un tempo visto come già avvenuto) e qui indica (passivo della divinità) l’azione del Padre sul Figlio mediante lo Spirito.
Per «Figlio dell’Uomo» cfr. Dan 7,13-14, una figura divina sotto forma di un semplice uomo dotato di poteri (tutti) per la salvezza degli uomini. Una glorificazione annunciata varie volte: cfr. Gv 7,39; 11,4.40; 12,16. 23. Nell’Evangelo di Domenica scorsa Gesù aveva detto che con il Padre egli è «Uno», tale unità divina è anche unità della gloria. Nel v. 31b abbiamo ancora un aoristo passivo (azione di Dio vista ormai compiuta per sempre).
32 – È una spiegazione breve anche se complessa: cfr. Gv 17,4-5 ci aiuterà nel discorso. Si noti come il rimbalzare continuo del verbo «glorificare» (doxázō), ben 5 volte, fa sentire quasi fisicamente il senso di sollievo di Gesù per gli avvenimenti che si stanno compiendo decisamente (cf uscita di Giuda) e per il dono dello Spirito che si sta realizzando (cf 7,39).
Dio fu già glorificato nel Figlio e ancora lo glorificherà «in se stesso» riprendendoselo con la sua umanità risorta (cfr. Gv 20,17). E lo glorificherà «subito»; non ci sono due tappe ma una: croce e risurrezione. L’avverbio temporale indica l’evento che segue immediatamente la croce; per l’Evangelista Giovanni la passione è già la gloria, come la Risurrezione è già l’Ascensione.
Passione, Risurrezione e Ascensione sono insieme la glorificazione del Figlio da parte del Padre e la manifestazione della gloria di Dio nel Figlio.
33a – L’addio di Gesù ai suoi è tenero e solenne «Figlioli» (tekníon, lett. figlioletti); è un termine che troviamo solo qui negli Evangeli e sette volte nella 1 Gv 2,1. 12. 28; 4,4; 5,21 rivolta ai fedeli. Tekníon è la parola con la quale Giovanni esprime la tenerezza di Gesù verso i suoi; in aramaico il vocabolo usato da Giovanni non esiste non potendo distinguere tra tekna (figli) e teknía (figlioletti). Da parte di Gesù è quasi un voler addolcire lo choc della sua partenza, di cui ora non capiscono la portata, ma solo il dispiacere (dolore) dell’allontanamento.
«mi cercherete»: L’andarsene di Gesù è la cosa che più colpisce i discepoli e dunque la ricerca che dovranno fare ma la loro situazione tuttavia è migliore di quella dei giudei (8,21).
34 – A questo punto Gesù dà ai suoi il comandamento dell’amore, in nome e sul modello del suo stesso amore.
«Vi dò»: il comandamento è un dono. Nella tradizione biblica la Legge di Dio è dono perché il comandamento del Padre corrisponde alla nostra vocazione più profonda. La legge è per noi non per salvare i privilegi di Dio.
– «nuovo»: il comando di Gesù è definito nuovo. I greci avevano due aggettivi per esprimere la novità: néos e kainós.
- Néos: indica la novità nel tempo, ciò che avviene oggi e non avveniva ieri, lo possiamo tradurre con «recente».
- Kainós:è più ricco di significato, contiene una comparazione, indica una novità nella qualità (e non solo nel tempo), qualcosa di nuovo, di originale rispetto a ciò che è Indica una superiorità su ciò che precede. L’Evangelista Giovanni ha usato quest’ultimo termine.
È significativo che Giovanni usi questo aggettivo esclusivamente per indicare l’amore; egli è convinto che l’amore è la vera novità del Cristo. L’amore è il nocciolo dell’originalità cristiana. Si pensi tuttavia alle distorsioni di «senso e significato» che oggi vengono «presentate e comprese» come sinonimo di amore.
Diventa facile camuffare la scarsa qualità dei vari prodotti e il riciclaggio degli scarti (come ad esempio la maionese che nell’insalata russa dà sapore ma nasconde anche i sapori dei singoli elementi).
Nel corso dell’insegnamento pubblico Gesù ha parlato:
- dell’amore di Dio e del prossimo; da Dt 6,5: «Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’ anima e con tutte le forze» passiamo a 1 Gv 4,21 «chi ama Dio ami anche suo fratello»:
- come massimo comandamento cfr. Mt 22,36-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25
- aveva spiegato chi è il prossimo e che cosa significa amarlo: cfr. parabola del buon samaritano in opposizione a Lv 19,18
- come manifestazione di figli del Padre: cfr. Mt 5,43-48;
I testi citati ci danno delle tracce per comprendere la novità dell’amore cristiano:
- una pista è l’universalità dell’amore come elemento nuovo (Lv 19,18) rispetto all’AT, dove sembrava limitato al consanguineo e al correligionario. Nell’Evangelista Giovanni tuttavia si parla di amore reciproco, non universale;
- il comando diventa nuovo perché non è l’universalità a misurarlo, ma nuovo parametro è la profondità dell’amore. Gesù non dice «amate il prossimo come voi stessi», ma «come io vi ho amati». Il comandamento è nuovo perché stabilisce per l’uomo un «modo nuovo» di guardare all’uomo: con la stessa visuale dell’Uomo-Dio, quindi con gli stessi sentimenti;
- tuttavia, la novità dell’amore cristiano non si può ridurre al confronto tra comando dell’AT e comando del NT, piuttosto il paragone è da vedersi nel confronto tra le due alleanze. Il clima in cui si deve intendere il nuovo è quello dell’ultima cena (cfr. contesto del brano), nella quale si parla di alleanza nuova, cfr. Lc 22,20 (alleanza sancita con il sangue di Cristo).
«Come»: in greco kathṓs denota una stretta conformità, una esatta corrispondenza; si potrebbe anche tradurre con «poiché». Il vocabolo stabilisce non una semplice imitazione, ma un modo di guardare la realtà che corrisponde esattamente a quello di Gesù. In questo modo l’amore di Gesù diventa modello e motivo, norma e giustificazione del nostro amore fraterno.
Abbiamo già detto dell’insistenza di Giovanni sulla reciprocità dell’amore; «a vicenda» è ripetuto per ben tre volte. È chiaro che non si tratta di un amore egoistico e settario; l’amore reciproco, di cui scrive Giovanni è quello che ha come modello la croce: l’Evangelista sta parlando dunque di amore universale e gratuito.
Il verbo usato per indicare l’amore è «agapáō», il verbo dell’amore di Dio, l’amore che dona tutto di sé (cfr. Gv 21,15-17) Leggendo l’Evangelo della III Domenica di Pasqua C avevamo notato che nella domanda di Gesù per il verbo amare è usato il verbo «agapáō»; Pietro risponde usando il verbo «filéo». Il primo indica l’amore totale proprio di Dio, il secondo indica un attaccamento umano, affetto, amicizia. L’amore che Gesù esige è quello impegnato nel servizio di Dio e degli uomini, testimonianza data con l’offerta della vita, ricordiamo Gv 10,18 il pastore che dà la vita, ecc.).
«comandamento»: in greco “entolé” (ordine), è un termine caratteristico della letteratura biblica usato per indicare la manifestazione della volontà di Dio [cf Mt 22,36 (comandamento dell’AT); Gv 15,12 (comandamento di Cristo); Gv 10,18 (comandamento di Dio a Cristo); 2 Pt 2,21 (novità della condotta cristiana)]. È un vocabolo di rivelazione; di proposito Giovanni non usa “nómos” (legge), riservato alla legge di Mosè realtà positiva ma ora superata [cf, Mt 5,17 (la Legge dell’AT); Gal 3,10 (il Pentateuco); Gv 10,34 (la scrittura veterotestamentaria nel suo complesso)].
35 – Tale amore così profondo e concreto è il distintivo degli autentici discepoli di Cristo. I non credenti riconosceranno i veri seguaci di Gesù da questo contrassegno. È per questo amore che i discepoli di Cristo vivono nella luce (cfr. 1 Gv 2,10) e sono passati dalla morte alla vita (1 Gv 3,14). Questa comunione basata sull’amore fraterno è continuamente vivificata e sigillata dai divini e trasformanti Misteri:
Dopo la Comunione
Assisti, Signore, il tuo popolo,
che hai colmato della grazia di questi santi misteri,
e fa’ che passiamo dalla decadenza del peccato
alla pienezza della vita nuova.
Per Cristo nostro Signore.
Nella Parola di Vita, nella Mensa del Pane e della Coppa preziosa del Sangue del Signore, il Vino messianico del Convito della salvezza riceviamo la divina linfa e così dal culmine alla fonte della nostra Vita.
II Colletta
O Dio, che nel Cristo tuo Figlio
rinnovi gli uomini e le cose,
fa’ che accogliamo come statuto della nostra vita
il comandamento della carità,
per amare te e i fratelli come tu ci ami,
e così manifestare al mondo
la forza rinnovatrice del tuo Spirito.
Per il nostro Signore…