Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 12 Febbraio 2023

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Domenica «della giustizia nuova»

VI Domenica Tempo Ordinario A

Mt 5,17-37; Sir 15,15-20; Sal 118,1-2.4-5.17-18.33.34; 1 Cor 2,6-10

L’evangelo è chiaro: esiste una legge del Cristo e questa legge è nuova. Gesù non è venuto ad abolire la legge, ma a portarla a compimento, a darle quel «di più» che la fa superare come legge e la fa accettare come scelta interiore. A giudicare dalla prima lettura, sembra che il compimento del comandamento di Dio riposi tutto sulla buona volontà dell’uomo. L’accostamento della prima lettura all’evangelo potrebbe far pensare che il senso «nuovo» del messaggio morale evangelico sia tutto e unicamente nel fare appello a una più intransigente e ferrea forza di volontà dell’uomo. Senza dubbio è chiesto all’uomo un impegno senza mezze misure, una tensione senza cedimenti, un’onestà che incessantemente cerca di snidarsi dai nascondigli.

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Questa è la decisione seria richiesta all’uomo; per il resto, la parola evangelica non domanda altro che aprirsi verso una giustizia sempre più grande, una continua rinuncia alle mete raggiunte, una incessante scoperta di non essere nella giustizia piena. Cristo stabilisce un nuovo criterio di valutazione morale: l’intenzione personale. La giustizia del cristiano non dipende dalla semplice osservanza della legge, ma dal fatto che gli ultimi tempi sono compiuti in Gesù e che Gesù per primo è giunto ad obbedire alla legge in comunione con il Padre. È nel cuore che si decide l’atteggiamento più vero e più radicale dell’uomo, è lì che bisogna portare l’attenzione e la scelta: questa è la superiore esigenza della legge, il «di più» con cui Cristo la porta a compimento e a perfezione. Non basta non uccidere, bisogna non adirarsi (Mt 5,21s). Non basta non commettere adulterio, bisogna non desiderare la donna degli altri (Mt 5,27s). Non basta lavarsi le mani prima dei pasti, bisogna «purificare» l’interiore dell’uomo (Mc 7,1-23).

Non basta erigere monumenti ai profeti, bisogna non farli tacere uccidendoli (Mt 23,29ss). Non basta dire: «Signore, Signore», ma bisogna «fare la volontà del Padre che è nei cieli» (Mt 7,21). Non basta dire parole senza fine nella preghiera, bisogna aver fede nella bontà di Dio (Mt 6,7). Non basta il sacrificio, non serve a niente l’atto di culto e l’osservanza dei precetti minori se non si pongono al primo posto nella propria vita morale la giustizia, la misericordia e la fede (Mt 9,13; 12,7; 23,23). La legge viene imposta all’uomo dall’esterno. Se Gesù si limitasse soltanto a spiritualizzare la legge, il suo sarebbe un perfezionamento incompleto. Egli punta alla volontà, al cuore. Il «nuovo» apportato da Cristo è altrove: se Gesù esige un di più, la motivazione è in quel «ma io vi dico».

Chi impone è Cristo, il quale ne ha dato per primo l’esempio. L’amore ai nemici, la sopportazione della sofferenza e della persecuzione sono resi possibili al cristiano perché è sollecitato e realmente aiutato dall’esemplare che ha davanti. Il cristiano non obbedisce soltanto a una legge, ma si mette sulla scia di Cristo che lo precede e che diventa per lui modello-legge-istanza suprema-forza interiore per il dono dello Spirito (Mt 3,11), premio-amore beatificante. Le parole di Gesù invitano il cristiano a qualcosa «di più», a fare un passo avanti nella fraternità. Non basta non uccidere il fratello, occorre rispettarlo, non prenderlo alla leggera, non sentirsi superiore a lui. Si può uccidere con le parole, con un giudizio duro, con un atteggiamento sprezzante. Si può uccidere il fratello relegandolo nell’isolamento, spegnendo il suo entusiasmo e i suoi progetti di bene, non permettendogli di esprimersi liberamente.

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Gli emarginati, gli anziani dei ricoveri, i deboli mentali, «i lontani» sono uccisi dal nostro crudele disinteresse, dal nostro isolamento, dal nostro dito puntato… Non si può onorare Dio se il fratello è disonorato, perché Dio è in ogni fratello che incontriamo, specialmente nei poveri, nei piccoli, negli umili, nei disprezzati, in quelli che noi, a volte, chiamiamo stupidi (cf «rakà» lett. straccio) . L’amore dell’uomo e della donna non è desiderio e ricerca egoistica della propria soddisfazione. L’amore è volere il bene dell’amato, è incontro libero e liberante. L’attrazione fisica senza amore è segno di una alienazione e immaturità profonda, è la negazione della liberta e della dignità della persona, è un tentativo di distruggere l’altro per fame una cosa, un oggetto.

Un amore vero radicato nella totalità della persona si inserisce nell’unica corrente d’amore che è Dio, un Amore che dona il Figlio: un dono totale, perché Cristo ha dato la sua vita per noi; un Amore che ha «promesso di essere presente in coloro che lo amano e con cuore retto e sincero custodiscono la sua parola» (colletta[1]). L’amore nel matrimonio o è cosi o non è nulla. Totale fino a darsi, a sacrificarsi completamente. Quello che l’uomo concretamente debba fare per essere nella «giustizia più grande», fin dove debba arrivare per essere dei «grandi del regno dei cieli», Gesù non dice. Delinea solo un limite inferiore; per il resto, la curva non ha massimi: la tangenza con la giustizia di Dio è all’infinito.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 30,3-4

Sii per me difesa, o Dio, rocca e fortezza che mi salva,

perché tu sei mio baluardo e mio rifugio;

guidami per amore del tuo nome.

Nel Signore l’Orante trova l’Aiuto, la Fortezza inespugnabile, la sua sola salvezza (v. 3b). Solo il Signore è invocato quale Forza e Rifugio (Is 25,4; Ger 16,19), in virtù dell’alleanza fedele. Così il Signore per amore del Nome suo (Sal 22,3) è il sicuro e stabile Condottiero dell’Orante e di noi oggi che lo invochiamo, l’unico da cui l’umanità trae la sussistenza vitale, il cibo (v. 4).

Canto all’Evangelo Cf Mt 11,25

Alleluia, alleluia.

Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra,

perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli.

Alleluia.

Prima della proclamazione della pericope evangelica sale ora al Padre con il Figlio la benedizione festevole. Il testo del canto all’evangelo fa parte del «giubilo messianico», o «comma giovanneo» (Mt 11,25-30), di cui è l’esordio solenne, gioioso, gridato nello Spirito Santo (così nel parallelo, Lc 10,21 e 21-24). Il Figlio a nome di tutti i fedeli fa salire la sua benedizione al Padre, perché il Padre rivelò i Misteri del Regno solo ai piccoli ed umili, quindi anzitutto al Figlio che piccolo ed umile si è fatto volontariamente. Prosegue poi il «discorso della montagna» in cui mentre Cristo proclama di essere venuto a confermare la Legge santa del Signore, la Legge antica, in tutto il suo rigore letterale, chiede d’altra parte di viverla diventando «perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto» (cfr. v. 48) che rimanda a Lv 19,2: «Siate santi, poiché Santo sono Io!». Dentro questi due estremi mentre i vv. 17-20 costituiscono una sorta di dichiarazione di principio, i vv. 21-48 rappresentano l’applicazione pratica, la concretizzazione della stessa. In questo brano, proprio di Matteo, si susseguono i cinque blocchi delle antitesi, in cui ognuno è introdotto con la formula: «Avete udito che fu detto» (21.27.33.38.43); mentre subito dopo viene contrapposta l’altra formula costante: «Ma io vi dico» (22.28.34.39.44). Qualche perplessità sorge ai vv. 31-32, dove compaiono formule simili, al punto che alcuni esegeti parlano di sei antitesi; altri invece ritengono meglio considerare questi versetti come un ampliamento della seconda antitesi relativa all’adulterio. Il numero cinque è più consono ai gusti di Matteo e soprattutto è molto significativo come riferimento alla Torah (in cinque libri, appunto: Pentateuco; vedi anche i 5 o 6 grandi discorsi?). Ognuno si senta comunque libero di seguire uno schema oppure l’altro senza che la passione ideologica prevalga al punto da rigettare quello che non rientra nel nostro schema preferito.

Il blocco delle antitesi è così costituito:

  1. il rapporto tra gli uomini nell’antico e nel nuovo patto (cfr. vv. 21-26);
  2. il nuovo rapporto fra i sessi confrontato con quello presentato dall’interpretazione rabbinica (vv. 27-30);
  3. il matrimonio (vv. 31-32);
  4. il superamento dell’ambiguità del linguaggio (vv. 33-37);
  5. la legge del taglione e la radicale bontà del cristiano (vv. 38-44);
  6. estensione dell’amore ai nemici (vv. 45-48).

La liturgia permette anche la lettura di una forma breve del brano: in questo caso vengono proclamati, oltre al v. 20 introduttivo, soltanto i nuclei centrali di ciascuna delle tre antitesi. Che dire? Forse un modo per mettere a fuoco subito i temi trattati, evitando le numerose aggiunte esplicative presenti nel testo completo oppure un invito non necessario a seguire la vituperata ‘legge’ del minimo impegno! Quello che il Signore non ha abolito noi ci permettiamo di suggerirlo diabolicamente! Ricordiamo qui come anche l’apostolo Pietro si meritò dal Signore l’appellativo di Satana e l’invito a seguirlo (cfr Mc 8,33).

Il testo della nostra pericope si ferma al v. 37 (le prime 4 antitesi), ma è importante prendere in considerazione brevemente l’insieme di queste sei antitesi (che saranno proclamate nella Dom. VII del tempo ordinario). Queste antitesi, che costituiscono uno dei cardini importanti del discorso della montagna dell’evangelista Matteo, provengono in parte dalla tradizione e in parte sono opera dello stesso scrittore sacro. La novità di questa legge non è solo nei suoi contenuti rispetto a quelli dell’AT, che vengono portati alla loro perfezione, realizzando il progetto di Dio per l’uomo. La novità è data soprattutto dalla presenza dello stesso legislatore Gesù all’interno della comunità cristiana, che ora sostituisce l’antica assemblea del Sinai.

L’intima comunione di Cristo con i suoi fa sì che queste leggi non siano più scritte su pietre esterne, come un modello irraggiungibile, ma si presentino invece come uno specchio di quello che avviene e potrà avvenire nella vita concreta di ogni comunità cristiana. Se pur con una struttura artisticamente equilibrata non si può fare a meno di notare, nel brano in esame, un certo ‘contrasto’ tra le varie antitesi, che rende vano ogni tentativo di armonizzazione.

Il tono velatamente polemico delle affermazioni di Gesù lascia intravedere il grosso problema che tenne occupata l’intera generazione apostolica riguardante il passaggio dal giudaismo al cristianesimo, dalla vecchia alla nuova economia. La prima generazione cristiana visse in modo drammatico questo dilemma: doveva sentirsi vincolata alla legge mosaica, oppure godere della «libertà» procuratale da Cristo? (cfr Gal 4,31).

Cade, come è giusto che avvenga, la nostra visione idilliaca della comunità cristiana primitiva come una società dove tutti i problemi teologici erano ormai risolti o del tutto appianati. Queste considerazioni rendono la pericope di sommo interesse dal punto di vista storico-teologico.

La Nuova Legge non era una ripetizione dell’Antica: conteneva dei fermenti destinati a portare un nuovo soffio vivificatore che doveva tutto trasformare.

Il giudaismo non poteva non avvertire la minacciosa realtà: l’indefettibilità (l’eternità) della Legge costituiva il dogma basilare della fede giudaica. Toccare la Legge o dichiarare scaduta anche la più piccola parte di essa («un iota, o un apice », cfr. v. 18) significava senz’altro la rottura.

Per questo il messaggio di Gesù fu rigettato, i suoi seguaci anatematizzati, fatti fuori implacabilmente dalla comunione sinagogale (cfr. Stefano in At 7,58; Paolo in At 21,30; ecc.). Ora Gesù proclama con forza che il suo non è un atteggiamento di rottura con il vecchio ordinamento, che pure esprime la volontà salvifica di Dio: non è un ‘abrogare’. Ma neanche è quello della incondizionata accettazione alla maniera degli scribi; Gesù è venuto a ‘compiere’ cioè ad affinare, approfondire, perfezionare. Il nuovo si inserisce volutamente nel vecchio; il vecchio può conservare il suo vigore soltanto a patto che ‘riviva’ nel nuovo.  L’intervento di Dio non porta ad una riforma legislativa, per cui si cambiano le norme, ma poi tutto resta come prima; il problema è l’uomo, non le leggi. L’antica legge è buona e resta valida (v. 18), per cui è bene che anche un cristiano la osservi e la insegni (v. 19). Ma se l’uomo non è reso capace di applicare la legge, nessuna riforma, per intelligente che sia, avrà mai successo. Dio dunque interviene per trasformare il cuore dell’uomo, per renderlo capace di accogliere pienamente il dono di Dio, per abilitarlo ad una vita nuova. Questa è una buona notizia! Se l’Evangelo invece è solo una legge più severa e restrittiva, non può essere una buona notizia.

Con il c. 6 inizia poi una nuova trattazione di alcuni temi fondamentali, non più in forma di antitesi con la legge antica, ma come contrapposto al singolo atteggiamento ipocrita dell’uomo. Abbiamo quindi un brano riguardante l’elemosina (6,1-4) e uno che tratta la preghiera (6,5-15), dove è collocata la famosa preghiera della comunità, il «Padre nostro»(6,9-13). La divisione dell’intero brano 5,17-48 in due parti è solo in funzione della lunghezza della pericope.

I lettura: Sir 15,16-21

“Se vuoi tu puoi osservare i comandamenti”. È l’affermazione netta della libera volontà dell’uomo. Raramente nel vecchio testamento possiamo trovare un’affermazione così esplicita su tale argomento come questa fornitaci dal libro sapienziale del Siracide (o Ecclesiastico).

Se gli uomini di questo mondo sono divisi in due campi, sapienti e peccatori, non è ad opera di Dio ma dell’uomo stesso che sceglie di porsi in un campo o nell’altro. In tutti i tempi un certo fatalismo religioso ha tentato di rendere Dio stesso responsabile del peccato umano. Contro questo fatalismo l’autore, che peraltro non si preoccupa di conciliare la sua posizione con l’idea che Dio è causa di ogni attività, pone l’accento sulla libera volontà dell’uomo.

Il cap. 15 del Siracide è dunque dedicato a tratteggiare la sapienza e felicità di chi opera il bene, e l’insipienza e infelicità del malvagio. Si tratta non di un caso, ma del disposto dal divino Disegno, che lascia la libertà all’uomo. All’inizio il Signore creò l’uomo, e l’affidò a se stesso, al suo intendimento (v. 14), tuttavia non lo fece restare solo e abbandonato a se stesso, bensì gli propose i suoi divini comandamenti (v. 15), avvertendolo in modo anticipato e chiaro che i precetti osservati sono la custodia salutare per lui, nell’elezione della sua buona volontà (v. 16). Fin dall’inizio perciò il Signore davanti all’uomo, affinché toccasse con mano e scegliesse, pose l’acqua e il fuoco (v. 17), la vita e la morte, il bene e il male (Sir 17,6; Gen 2,17; Dt 11,26; 30,15 19; Ger 21,8; Gios 24,15; Rm 2,7-8). Nel dirigersi verso l’uno o l’altro di questi due estremi inconciliabili, l’uomo deve decidersi e deve determinarsi in modo drammatico, poiché dipende solo da lui scegliere in modo consapevole, e irreversibile (v. 18). Sta in questo non il fato, non l’insensibilità del Signore, che invece ama l’uomo, sua creatura diletta. Dio non propone un tiro di dadi. Nella sua infinita Sapienza e nella sua Onnipotenza, il Signore vede tutto nell’eterno presente, e concede all’uomo tutto quello che gli serve per indirizzarsi verso il meglio della salvezza (v. 19).

Il Signore sta con gli occhi fissi su chi lo teme (17,16; 34,19; Sal 33,16; 32,18), e scruta ogni opera dell’uomo (17,13; 23,27.28; 39,24; Giob 34,21). Esiste qui, certo, la predestinazione divina, tuttavia mai al male, bensì sempre al bene (come ribadisce Paolo, Rm 8,28-30). Di fatto, seguendo il Signore, l’uomo può conseguire il bene e astenersi sempre dal male (v. 20). Di fatto il Signore propone solo il bene. Di nessuno Egli è stato mai suasore al male (v. 12). A nessuno concede il permesso di peccare (v. 21). Se il peccato avviene, è sempre contro l’esplicita divina Volontà di bene.

Il Salmo responsoriale: 118,1-2.4-5.17-18.33.34, DSap

Con il Versetto responsorio: «Beato chi cammina nella legge del Signore» v. 1b, i fedeli ripetono con il Salmista la loro beatitudine se procedono nella Legge del Signore, quella confermata e attuata da Cristo unico Maestro.

Il più esteso Salmo del Salterio è il più splendido «elogio della Parola» divina dell’intera Scrittura (vedi qui i Sal 1 e 18), ed è anche la più intensa sua contemplazione. Va detto che l’elogio della Parola si trova presente a tratti anche in molti altri Salmi. Una caratteristica del Sal 118 è che procede per via delle lettere dell’alfabeto. Come si sa, le lettere dell’alfabeto ebraico sono 22; ora, ogni lettera qui è usata in modo che una stanza o strofa di 8 versetti cominci sempre con quella, e così fino alla fine. Inoltre, gli 8 versetti riportano a loro volta quasi di regola 8 sinonimi per Parola o Legge, ossia 7+1, la pienezza; essi sono (non tenendo conto delle varianti delle traduzioni moderne): Legge, testimonianze, vie, comandi, statuti, precetti, decreti, Parola.

Ora, se con 8 si indica la pienezza, anche con 22 viene fuori questo concetto. Il ragionamento del Salmista (anche negli altri Salmi «alfabetici», molto più concisi) è questo: io vorrei, Signore, esprimere davanti a Te tutto quello che sento; ma il mio vocabolario è esiguo e inespressivo per un compito così grande. Allora io Ti dono tutta la mia lingua, che è la combinazione dell’alfabeto, e Te la presento nel simbolo delle 22 lettere. Il resto, devi compierlo Tu.

Il testo proposto oggi è desunto dalle «stanze»: I) Alef, i vv. 1-2,4-5; III) Gimel, i vv. 1748; V) He, vv. 33-34.

L’esordio è una beatitudine. L’Orante, che medita profondamente, proclama beato chi è senza macchia (100,2.6; Pr 11,20; 13,6), grande tema sapienziale, poiché lo è chi procede sicuro secondo la Legge divina (127,1), come mostrarono i grandi giusti dell’A. T., ad esempio il loro tipo universale, Abramo (Gen 17,1). Il v. 1 con l’accenno al procedere richiama come immensa inclusione letteraria il v. 176, che chiude il poema. Qui l’Orante inopinatamente si dichiara una pecora errante del gregge divino, e con epiclesi chiede al suo Signore di cercarlo, come il Pastore che lascia le 99 pecore per l’unica smarrita (Lc 15,4; Mt 18,12). Ma così, a causa di questa figura letteraria dell’inclusione, tutto il Salmo indica che il Signore è il divino Pastore, che pascola e nutre con la sua Parola il suo gregge amato. La beatitudine è ripetuta per i fedeli, che stanno sempre a scrutare le “testimonianze”, le rivelazioni certe fatte conoscere dal Signore, come fa l’uomo del Sal 1,2; questo significa darsi alla lettura della Parola giorno per giorno, porre ogni diletto in essa (v. 2). Anche il Signore Risorto rimanda i suoi discepoli a scrutare le Scritture (Lc 24,25-27.44-45), e riconosce che anche gli Ebrei del suo tempo lo facevano nell’attesa del Messia (Gv 5,39). È la prima e più salutare pratica per il fedele, poiché le “testimonianze” si possono comprendere solo così (18,8; 77,5), ponendovi il cuore, ossia tutto lo spirito (vv. 10.34; Dt 4,29; 2 Cron 15,2). Il Signore stesso però dà l’ordine salutare di custodire i suoi comandamenti, con tutta la cura (v. 4), e l’Orante sospira perché vuole che le proprie “vie”, o comportamenti, siano sempre diretti a custodire le “giustificazioni” divine, i benefici e imperscrutabili Decreti divini che a suo tempo diventano interventi soccorritori, generosi e gratuiti (v. 5; 36,23). Perciò adesso l’Orante rivolge la sua epiclesi al Signore, per chiedergli di ottenere il bene, la grazia, in quanto è servo suo, vincolato dall’alleanza nel culto fedele (12,6); solo allora avrà la vita vera, e potrà custodire nel cuore le Parole del Signore, che portano a Lui (v. 17). Con un’altra epiclesi, di tipo “sapienziale”, chiede la luce degli occhi al fine di contemplare le meraviglie nascoste nella Legge del Signore, e appropriarsene (v. 18). E insiste, ancora con epiclesi, a chiedere al Signore che gli doni la sua Legge, quale via per apprendere le “giustificazioni” divine (v. 33).

Segue un’altra epiclesi sapienziale, che ricorre spesso nel Salmo (vv. 73.125.144.169; e 31,8; Giob 32,8; Pr 2,6; Sap 7,7; Giac 1,5): solo se il Signore concede l’intelligenza profonda, il suo servo potrà custodire la Legge divina, con tutto il cuore (v. 2), con tutta la sua esistenza santificata (v. 34).

Esaminiamo il brano

v. 17 «Non pensate…» (non crediate) l’imperativo aoristo negativo ordina di non dare inizio a un’azione nuova. La prima dichiarazione netta del Signore è dunque un’assicurazione: egli venne per adempiere «la Legge ed i Profeti»,ossia tutto l’A.T. «la Legge ed i Profeti» è l’espressione usuale ai tempi di Gesù per designare le sacre Scritture. Più esattamente: la «Legge» (in ebraico: tòrah ) comprendeva i primi cinque libri della Bibbia, detti anche, con parola greca, «Pentateuco»; mentre i «Profeti» abbracciavano non solo i libri profetici propriamente detti, ma anche i libri storici (detti anche «Profeti anteriori») e, in senso largo, gli altri «scritti» sacri. La «Legge ed i Profeti», come risulta da altri passi dell’Evangelo (cfr. 7,12; 11,13), esprimono, nel pensiero di Gesù, la volontà divina rivelatasi nell’antica Alleanza.

«dare pieno compimento»: Non c’è nessun parallelo diretto con altri testi sinottici (vedi Lc 16,16-17 per un detto vagamente simile) il significato del verbo gr. plerosai è molteplice e variamente usato nel N.T.; vuol dire:

a) mettere in pratica i precetti della Legge;

b) adempiere le antiche profezie (come spesso in Matteo);

c) portare alla perfezione, completare.

Sebbene i primi due sensi non siano estranei alla mente di Gesù, in questa celebre affermazione è prevalente l’ultimo significato: Gesù è venuto a portare a compimento la rivelazione della divina volontà espressa nell’antica Legge. Di tale perfezionamento e ‘superamento’ , che non è ‘abrogazione’, Gesù darà vari esempi a cominciare dal v. 21.

In che senso Gesù adempie pienamente la Legge e i Profeti? Potrebbe trattarsi di un riferimento:

1) alla sua osservanza di tutti i precetti durante la sua vita terrena;

2) al suo ruolo nell’adempimento delle Scritture messo in evidenza in Matteo 1-2 e in altri passi dell’Evangelo;

3) alla portata del suo insegnamento come espresso nel suo comandamento dell’amore (22,40) dal quale tutti gli altri comandamenti traggono il loro significato e la loro forza.

Il compimento portato e realizzato da Gesù è anche il perfezionamento dell’uomo, il suo coinvolgimento totale nel progetto divino. L’evangelista Matteo indica abitualmente questa realtà con il termine «giustizia»: in questo senso dunque la giustizia dei cristiani supera quella dei farisei (v. 20).

I religiosissimi farisei mettevano tutto il loro impegno nella minuziosa applicazione della legge per raggiungere davanti a Dio uno stato di onesta autosufficienza, per cui al termine della giornata potevano dire: «Sono a posto, ho fatto il mio dovere; sono in credito con Dio». Questa ‘giustizia’ consiste quindi nel dare a Dio una parte di attenzione e in un’appagante osservanza delle norme, per lo più negative: «Non uccidere, non commettere adulterio, non spergiurare…»; così un fariseo, facendo l’esame di coscienza, può dire: «Non ho ucciso, non ho commesso adulterio, non ho spergiurato; quindi sono a posto». Ma non è ancora il nostro modo di pensare la religione?

Secondo Gesù, la fede di un cristiano non può ragionare così, perché l’incontro con il Cristo ha portato la pienezza nella sua vita e tutto il suo essere, tutto quello che fa e tutto quello che pensa è diventato di Cristo ed è nuovo. Non esiste più una divisione fra impegni religiosi e vita normale: tutta la vita è piena di Cristo. La ‘giustizia’ cristiana è dunque una nuova relazione con Dio, resa possibile e donata dal Signore Gesù, per cui il cristiano si affida con gioia al Padre convinto che «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

«In verità…» il testo greco riporta la parola originale ebraico-aramaica amen. Nell’uso del giudaismo e della Chiesa si riferisce a ciò che precede (è posto alla fine di un discorso o di una preghiera); nelle parole di Gesù si riferisce sempre a quanto segue (è posto al principio), conferendo solennità alla formula. Quindi con essa Gesù è come se affermasse: «Io vi dico…», al contrario dei profeti che usavano le parole: «Dice il Signore…». Il suo insegnamento è impartito con autorità e autonomia. Mc lo usa 12 volte; Mt 30; Lc 5; Gv 25 ma nella forma raddoppiata: «Amen, Amen…».

«finché non siano passati» in questa frase non si vuole accennare alla fine del mondo visibile; è una locuzione di tipo popolare che è l’equivalente di «giammai»(cfr. Gb 14,12).

«un iota o un segno»: lo jota (ebraico: jod), che come forma aveva una minuscola L rovesciata di 180°, è la lettera più piccola della scrittura quadrata ebraica, mentre l’apice (o virgola) è un segno ornamentale che si accompagnava ad alcune lettere. Lo jota e l’apice sono immagini che rappresentano i comandamenti più piccoli o secondari della Legge.

«tutto sia compiuto» la frase può essere intesa nel senso che tutte le cose create giungano alla fine, e allora riprenderebbe il pensiero del ‘passaggio del cielo e della terra’. Più verosimilmente Gesù intende parlare del ‘compimento’, ossia del perfezionamento della Legge.

v. 19 – «chi trasgredirà» in gr. luo significa sciogliere e in ambiente giudaico è un termine giuridico che vuol dire: dichiarare scaduta, priva di vigore, non obbligante una disposizione legale.

«minimi precetti»: Era prassi normale per i rabbini distinguere tra i comandamenti gravi, più importanti, quali l’onorare i genitori (Dt 5,16), e i comandamenti più leggeri come il precetto riguardo ai nidi degli uccelli (Dt 22,6-7), anche se la ricompensa è la stessa in entrambi i casi: «perché tu possa essere felice e godere lunga vita».

«Chi li osserverà e li insegnerà»: Matteo riconosce la distinzione tra comandamenti gravi e comandamenti leggeri ma esorta alla pratica di tutti quanti. Lo stretto legame tra l’insegnamento e la pratica è uno dei temi preferiti di Matteo. Rabbi Judah in m. ‘Abot 2,1 insegna: «Stà attento a un precetto leggero quanto a un precetto grave».

«minimo nel regno dei cieli» la concezione del tempo ammetteva diversità di posti nel regno di Dio; l’infimo si riteneva riservato a chi avesse trascurato i piccoli precetti della Legge. Per la logica orientale che non distingue fra contrario (+ e -) e contraddittorio (si – no) e viceversa, essere ‘minimo’ nel regno dei cieli può anche significare esserne escluso del tutto (cfr. il versetto seguente).

v. 20 «se la vostra giustizia… degli scribi e dei farisei» La dichiarazione prelude alla condanna degli scribi e dei farisei in Matteo 23 dove l’accusa principale mossa contro di loro è di non mettere in pratica ciò che predicano (23,3), in netto contrasto con l’ideale del praticare ciò che si insegna enunciato in 5,19. La «giustizia» riguarda la fedeltà alla volontà di Dio rivelata nella Torah e l’interpretazione datane da Gesù mentre la giustizia degli scribi e dei farisei, molto preoccupata della lettera della Legge, spesso mancava di spirito, per questo Gesù ripropone la volontà originaria di Dio esplicitando lo spirito dei suoi precetti. Il termine giustizia come sappiamo indica i rapporti con Dio e il modo di intendere la sua Legge (ricorda Mt 1,19: «Giuseppe, che era uomo giusto….»; il sacerdote Simeone, ecc).

vv. 21-37 Ecco le prime quattro antitesi tra il vecchio e il nuovo. In quadri ben specificati dalla formula introduttiva «Avete udito che fu detto» e l’energica espressione: «Io, invece, vi dico», Gesù propone degli esempi della sua opera di ‘compimento’ dell’antica Legge.

v. 21 «Avete inteso»: siamo davanti a un passivo teologico, si chiama così infatti il modo con cui si evita di chiamare direttamente Dio, collocando il verbo al passivo, in forma impersonale. Si comprende facilmente che l’ascolto delle sacre Scritture e dell’interpretazione fatta di esse dagli scribi nelle sinagoghe, era il modo usuale con cui l’uomo comune, per lo più ignaro delle lettere, apprendeva le divine disposizioni.

«non uccidere»: il primo tema è il 5° comandamento (cfr. Es 20,13; 21,12).

«è sottoposto a giudizio» il ‘giudizio’ quando vi sono le prove è quello dei tribunali umani; in mancanza di prove resta quello divino degli ultimi tempi.

v. 22 – «Ma io vi dico…»: l’espressione risuona per la prima volta nella storia ebraica con un’autorità superiore anche a quella dello stesso Mose. Con questo Gesù si proclama nuovo legislatore. Qui il Signore non innova come lettera, ma come spirito.

«si adira… dice stupido… dice pazzo» avvenimenti e parole di uso quotidiano, quasi innocenti, arrecano offese così gravi che portano alla condanna, anzi alla Geenna. La parola autorevole di Gesù (v. 22) non cambia la norma né la contesta, semplicemente l’approfondisce o, meglio, la porta a compimento: precisa cioè che la relazione affettuosa con il fratello è questione molto seria e una cattiva relazione merita il giudizio negativo di Dio. Dato che Gesù inaugura la nuova vita e porta a compimento le possibilità umane, colui che accoglie la parola di Gesù diventa capace di una giustizia superiore, ovvero di un amore grande e generoso. Nella sua visione dunque la violazione del precetto dell’omicidio viene esemplificata con il primo passo verso la violenza assassina, quando cioè uno si arrabbia con qualcuno, o lo chiama rakà (il testo greco di Matteo ha conservato questa espressione aramaica che significa “straccio” ed era usata come insulto) o gli dà il titolo di «stupido»:

«giudizio Sinedrio Geenna»: per simili reati vengono comminate pene in crescendo, da un tribunale locale al tribunale supremo del sinedrio fino al massimo della condanna al fuoco della Geenna (valle di Gerusalemme adoperata come immondezzaio, quindi metafora per indicare l’inferno). Gli esempi sono paradossali e volutamente provocatori, per far intendere che il rapporto con il fratello ha una tale serietà da determinare il destino finale di un uomo. Un’idea analoga si trova in 1Gv 3,15: «Chiunque odia il proprio fratello è un omicida».

vv. 23-26 «Se dunque… » si indica il rimedio alle offese. Nel culto del Signore, basta che il fratello sia stato offeso, «abbia qualcosa contro di te» (v. 23), occorre lasciare (abbiamo infatti un imperativo aoristo positivo, che ci ordina di compiere un’ azione nuova) il sacrifìcio iniziato, correre a riconciliarsi con il fratello (cfr. Mc 11,25), e poi tornare ad offrire (abbiamo qui un imperativo presente, che ci ordina di continuare un’azione già iniziata) al Signore. Il culto non può assolutamente prescindere dal rapporto con il fratello e tale relazione è più importante delle offerte portate all’altare.

v. 26 «fino all’ultimo spicciolo»: Il termine greco kodrantes è una parola del linguaggio finanziario derivata dal latino quadrans, che era la più piccola monetina della valuta romana. L’ultima frase fa supporre che la lite riguardi il pagamento di debiti. L’arresto per il mancato pagamento di debiti non era la prassi normale tra i Giudei; perciò l’esempio presuppone l’applicazione della legge romana. Il secondo esempio riprende il tema della disponibilità alla riconciliazione già presentato nel primo esempio.

vv. 27-30 «Non commettere adulterio» il secondo tema è il 6° comandamento (cfr. Es 20,14), che richiama anche il 9°. «guarda una donna per desiderarla»il desiderio non denota tanto un vago sentimento o un semplice pensiero, ma comporta un proposito peccaminoso. Esempi di tali «sguardi» peccaminosi condannati severamente dalla Bibbia non mancano (cfr. 2 Sam 11,2; Dn 13,20).

«cava il tuo occhio … taglia la tua mano»: Gesù usa un linguaggio particolarmente forte per sottolineare la gravità del pericolo costituito dallo sguardo peccaminoso.

vv. 31-32 «Chi ripudia la propria moglie…» è il terzo tema di confronto: in antico il divorzio era normale per varie cause, il Signore esclude per sempre ogni forma di divorzio. Questo è adulterio per entrambi i separati, se si risposassero, e anche per i loro nuovi sposi. La prescrizione è netta e non ammette eccezioni

«eccetto il caso di concubinato»: con questo inciso sembra che Gesù voglia introdurre un’eccezione alla regola generale, da lui sancita, della indissolubilità del matrimonio. Il termine gr. pornéia per sé indica la prostituzione, sia come idolatria, sia come la pratica di vendere il proprio corpo.

In ebraico il termine corrispondente è zenût (impudicizia, fornicazione), un termine dispregiativo con cui i rabbini chiamavano i matrimoni non validi, come quelli contratti fra parenti, proibiti dalla legge mosaica (cfr. Lv 18), ammessi però nel diritto greco-romano.

La clausola, propria dell’evangelo di Matteo, interessava quindi solo l’ambiente giudaico e per questo non figura in nessun altro passo neotestamentario riguardante lo stesso problema (cfr. Mc 10,1-12; Lc 16,18 e 1 Cor 7,10-11).

La legge dell’indissolubilità, dunque, secondo Matteo, non deve estendersi ai casi di pseudomatrimonio, cioè alle unioni non «legate da Dio».

33-37 «Non spergiurare…» siamo al quarto tema di confronto (8° comandamento; Es 20,7); Gesù si riferisce ai vari passi del Pentateuco in cui si danno le norme per la disciplina del giuramento (cfr. Lv 19,12; Nm 30,2 ecc.). La pratica del giuramento, comune a tutti i popoli, aveva lo scopo di chiamare Dio a garanzia della verità. Ma poiché le circostanze della vita davano mille occasioni di ricorrere al giuramento, facile ne era l’abuso o per leggerezza o inadempimento. Adesso Gesù prescrive che ogni giuramento è escluso del tutto (già in Sir 23,9).

«né per il cielo… la terra… Gerusalemme» al tempo di Gesù gli Ebrei, per evitare di pronunziare il nome di Dio, ricorrevano a formule e circonlocuzioni in cui si sottintendeva la divinità.

«sì, sì; no, no»: qui il Signore insegna la ‘semplicità’ cristiana. La formula, che proviene dall’ambiente forense, è il solo ‘giuramento’’ consentito nella società cristiana che si regge soprattutto sulla sincerità e sulla verità.

L’ultimo detto ha la forma del consiglio morale, ma anche in questo caso va al cuore del problema: la parola che esce all’esterno dell’uomo deve corrispondere al sentimento e al pensiero che sono dentro l’uomo. Voler aggiungere un giuramento per coprire la falsità e l’incoerenza, lungi dall’essere religioso, è piuttosto un evidente influsso diabolico. All’insegnamento di Gesù fa eco l’avvertimento dell’apostolo Giacomo (leggi Gc 5,12).

Dunque prima ancora di essere un imperativo a fare, l’evangelo di Gesù si presenta come un imperativo ad accogliere. E prima ancora di essere giustizia interumana, la giustizia evangelica è un avvenimento di salvezza che viene da Dio. Perché il « ma io vi dico » si è prima detto nell’incarnazione del Dio compassionevole, nell’uomo Gesù — nel samaritano la cui giustizia è stata maggiore di quella degli scribi e dei farisei (cf. Lc 10,29 ss.); nel buon pastore che ha dato la vita e che come agnello innocente si è sottoposto al giudizio pur di non accusare; nel nuovo sommo sacerdote che ha lasciato il tempio per riconciliare, fuori delle mura (cf. Ebr. 15,12), gli uomini tra di loro e quindi con Dio —, proprio per questo il « ma io vi dico » diventa un imperativo per l’uomo: e non un comandamento astratto, teorico, ma — in fondo — il comandamento unico di « conoscere Cristo e la potenza della sua risurrezione, e la comu­nione ai suoi patimenti, essendomi reso conforme alla sua morte, se mai io possa in qualche modo giungere alla risurrezione » (Fil. 3, 10). La giustizia sempre più grande, la novità di vita, non è allora null’altro che la ricerca continuamente attualizzabile di confronto con la esistenza di Cristo, di cui si potè dire in verità «davvero questo era un uomo giusto » (Lc 23,47). Se è così, allora nel rapporto interumano deve riflettersi qualche cosa della giustizia di Dio, della sua gratuità, della sua creatività. Dio si è manifestato giusto nel render l’uomo giusto, nonostante la paralisi del peccato: gli uomini, sono pertanto chiamati e resi liberi per trasmettersi reciprocamente questa liberazione, sono chiamati alla giustizia che non giudica, ma lascia sempre aperto, anzi crea, per l’altro uno spazio di possibile ritorno alla propria autenticità.

Una giustizia che non si limita a rimediare il proprio male fatto, ma percorre anche il difficile cammino di andare incontro a chi « ha qualcosa contro di te » (cf. evangelo). Una giustizia che non si fa padrona della verità, e dunque non pretende di asservirla alle proprie sicurezze — non « giura » —, ma senza difese si pone a servizio della verità, fidando unicamente della forza di lei.

È solo così che la « legge » evangelica non si risolve in un ulteriore e più grave peso, ma in uno stupendo evento di salvezza « ecco, dice il Signore, io faccio nuove tutte le cose » (Ap. 21, 5)

II Colletta:

O Dio, che riveli la pienezza della legge

nella giustizia nuova fondata sull’amore,

fa’ che il popolo cristiano,

radunato per offrirti il sacrificio perfetto,

sia coerente con le esigenze dell’Evangelo,

e diventi per ogni uomo

segno di riconciliazione e di pace.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…


[1]    – O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora. Per il nostro Signore …

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano