«dell’amore del Padre per il mondo»
Antifona d’Ingresso Cf Is 66,10-11
Rallégrati, Gerusalemme,
e voi tutti che l’amate, riunitevi.
Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza:
saziatevi dell’abbondanza
della vostra consolazione.
Laetáre, Ierúsalem,
et convéntum fácite,
omnes qui dilígitis eam;
gaudéte cum laetítia, qui in tristítia fuístis,
ut exsultétis,
et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestrae.
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La celebrazione di questa domenica a metà del cammino quaresimale è pervasa da un contenuto senso di gioia; è la domenica di Laetare (rallegratevi), nome preso dalla prima parola dell’antifona d’ingresso della messa. Il sacerdote in questo giorno può sostituire con il colore rosa quello viola dei suoi paramenti, esprimendo così anche visivamente quella gioia dovuta alla pasqua ormai vicina (cfr. I coll[1]), all’incontro con Cristo luce che illumina ogni uomo. La citazione di Is 66,10-11 è adattato, il testo originale diceva «Gioite con Gerusalemme». Nell’adattamento oggi l’imperativo è rivolto a Gerusalemme stessa, la Chiesa che qui celebra. Intorno ad essa chiunque la ama deve fare adunanza, poiché dopo la tristezza dell’abbandono divino, causato dal peccato, essa si riscopre di nuovo come la Sposa amata, con cui si fa giubilo (Sal 121,6), anzi di cui esulta il Signore stesso (Is 63,19). Così la Sposa riceve dal Signore altri figli, e il Signore dichiara beati chi la amerà e gode della sua pace (Tob 13,18). Si avvicina il tempo della gioia, la consolazione che il Signore infonde sulla Sposa, e che i figli della Sposa succhieranno dalle mammelle di lei, nutriti amorevolmente. I Padri, approfondendo questo tema, spiegano che le due mammelle della Sposa che nutrono i figli per la Vita eterna sono le Scritture dell’A.T. e del N.T.
Canto all’Evangelo Cf Gv 3,16
Lode e onore a te, Signore Gesù!
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Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito;
chiunque crede in lui ha la vita eterna.
Lode e onore a te, Signore Gesù!
Si ripete la stessa proclamazione evangelica della III Dom. di Quaresima del ciclo B che orienta l’assemblea verso la rivelazione dell’amore infinito del Padre per il mondo: in suo favore il Padre donò l’Unico Amore suo, il Figlio Monogenito. Di tutte le parole umane, con le loro ricchezze e i loro limiti, è la parola «amore» quella scelta dalle Scritture, per farci intravvedere il mistero di Dio. Mentre nei rapporti umani, l’amore si definisce spesso come aspirazione del povero ad avere di più (amore, desiderio di possesso), la parola di Dio, rovesciando il movimento, ci insegna che l’amore vero, al contrario, è dono, comunicazione, espansione; proclama la sconvolgente verità che Dio stesso, per amore, si è abbassato verso gli uomini per servirli, e che l’uomo è tanto più vicino a lui, quanto più ispira a tale amore la sua azione e la sua vita. S. Paolo, nella lettura odierna, contempla questo amore divino, che si comunica a tutti gli uomini, come una ricchezza incontenibile, e che si manifesta soprattutto nel dono che Dio ha fatto del suo unico Figlio. Nell’opera di Gesù, tale amore si manifesta in modo più tangibile e concreto, col dono che Cristo fa di se stesso sulla croce. «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici» (Gv 15,13). Il sacrificio supremo è suprema donazione di sè alla volontà del Padre, è dono supremo di sé per amore. È per questo che Giovanni dice: Gesù «Avendo amato i suoi, che erano nel mondo, li amò fino al culmine» volendo indicare la perfezione dell’amore. Il donarsi di Cristo agli uomini è dettato dallo stesso movimento, per cui il Figlio si riferisce eternamente al Padre. Ma, in Cristo, sono gli uomini stessi, da lui salvati, che ritornano a Dio, in questo impulso ascensionale per cui tutto ritorna alla sua sorgente. L’amore del Padre si comunica al Figlio e lo costituisce tale. Dal Figlio la stessa pienezza d’amore si trasfonde nei credenti che, proprio in forza di questa corrente impetuosa, sono riportati anch’essi, in qualche modo, nel seno del Padre.
Tema dominante di questa IV Dom. di Quaresima è dunque l’amore di Dio. Amore dimostrato dall’inattesa liberazione, che egli promette imminente ad opera di Ciro (I lett.); pallida anticipazione questa del «grande amore» con il quale Dio ci ha amati in Cristo, poiché da morti che eravamo per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere in lui (II lett.). Egli «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita» (v. 16 dell’evangelo). Dio quindi è amore, noi lo ripetiamo spesso; ma occorre non fraintenderlo. Dio infatti è un amore «diverso» da tutto ciò che noi chiamiamo «amore»; a noi esso resterà sempre «incomprensibile», perché mai noi riusciremo a comprendere il senso di una fedeltà non ricambiata, il senso di un amore deciso a rischiare tutto, anche la vita, per la persona amata. Eppure, così è l’amore di Dio per noi. Verrebbe da commentare: ci avesse amati un pò meno! Ci sentiremmo più tranquilli, meno colpevoli; i nostri peccati non ci peserebbero tanto. Troveremmo almeno una parziale giustificazione per le nostre infedeltà. Il Dio che mette paura non è il Giudice severo; è, piuttosto, il Dio che ama in quella maniera «inesorabile». Dio non ci rimprovera sventolandoci davanti agli occhi un articolo della Legge: Dio ci accusa inchiodandoci a una storia di amore (cfr. l’intero libro delle Cronache).
I lettura: 2 Cron 36,14-23
I due libri delle Cronache, sono una meditazione religiosa sui fatti della monarchia d’Israele. La riflessione dell’agiografo si sofferma soprattutto a mettere in risalto il momento culminante di questa storia, quando Gerusalemme divenne la capitale del regno e il centro del culto, ad opera di Davide e di Salomone. Il popolo ebraico, ormai ridotto ad una povera e piccola comunità, perseguitata dai samaritani, dopo la deportazione in Babilonia, ripensa alla propria storia, per dimostrare ai suoi nemici, d’essere la «piccolissima chiesa» fondata da Dio, e che il tempio è l’unico luogo d’incontro con lui. I libri sono, in sostanza, un richiamo alla speranza per i tempi difficili, in cui i giudei sono venuti a trovarsi. Sono parole di consolazione per un popolo che vive in una situazione di minoranza e di povertà.
Le ragioni di questo misero stato di cose, secondo l’agiografo, sono da rintracciarsi nell’infedeltà del popolo e dei suoi capi, i quali nonostante i continui interventi di Dio, non si sono ravveduti e non hanno cambiato tenore di vita. E allora Dio ha forse dimenticato le promesse? Allora è tutto finito? Il «piccolo resto» ha coscienza della costante fedeltà di Dio, il quale, attraverso questa crisi dolorosa, lo prepara ad una alleanza più valida, più vera, più duratura. La riforma di Giosia infatti, non ha portato ad un cambiamento radicale: è stata solo un palliativo, un alibi per star tranquilli: occorre invece, un’autentica conversione, un balzo in avanti, occorre un cambiamento di rotta. Dunque, l’esilio, non è la rovina totale, diventa piuttosto uno strumento che aiuta a scoprire i veri valori religiosi, non certo legati ad una dinastia (sia pur davidica), ad un tempio, ad una città. Saranno piuttosto realtà valide per tutti gli uomini in tutti i tempi, secondo quanto Dio più volte aveva promesso. In tal modo, Iahvé non solo si mostra il Dio fedele, ma anche il «totalmente diverso» che porta a termine il suo disegno di salvezza nella maniera più imprevedibile e, umanamente parlando, contraria al nostro modo d’agire.
Il Cronista alla fine della sua narrazione della storia del popolo compendia la predicazione profetica rigettata dai peccati del popolo stesso, che in massa, dai re ai sacerdoti, deviò dai divini insegnamenti, e così suscitò l’ira punitrice del Signore, precipitò nella catastrofe nazionale e fu deportato nell’esilio babilonese (vv. 14-16). Fu distrutto il tempio e la città, come aveva predetto Geremia, pur annunciando che, scontata la punizione, il popolo avrebbe conosciuto la redenzione (Ger 25,1-14; 27,7) (vv. 17-19). La catastrofe avvenne nel 586 a. C. E infatti nel 538 a. C. il re persiano Ciro, per divina ispirazione, benché inconsapevolmente, realizza la profezia di Geremia emettendo un decreto, il cui testo è noto, e lo dirama per tutto il suo immenso impero (v. 22), e dispone che, avendo il Dio del cielo ordinato di costruirgli una casa a Gerusalemme (v. 23a), chi fa parte del suo popolo può partire per costruire quella casa (v. 23b).
Il dialogo di Gesù con Nicodemo è strettamente collegato con la pericope immediatamente precedente, che contiene il segno del tempio (v. Dom. scorsa). Tra questi due brani giovannei infatti notiamo unità di luogo e di tempo: nella nostra pericope dunque continuiamo a trovarci a Gerusalemme, durante la celebrazione della solennità pasquale. Il brano che la liturgia domenicale ci propone è la conclusione del discorso di Gesù con Nicodemo, un fariseo, un capo dei Giudei. L’intero episodio (2,23-3,21), per gli elementi letterari che contiene, in particolare la locuzione “in verità, in verità ti dico” che ricorre ai vv. 3.5.11, i parallelismi [cfr. “testimoniamo” di 3,11 con 2,25 e si noti che il verbo “martyréin” nel dialogo con Nicodemo si incontra solo qui; il parallelismo antitetico di «sappiamo che sei venuto da Dio»(3,2) con «noi parliamo di ciò che sappiamo»(3,11)] e le parole tematiche (ad esempio in 3,3-10 il verbo nascere ricorre otto volte, il termine spirito cinque volte; in 3,11-21 il termine credere s’incontra sette volte, i sostantivi mondo e luce cinque volte e i vocaboli giudicare–giudizio quattro volte), è divisibile in quattro sezioni: abbiamo un’introduzione (2,23-3,2) e tre rivelazioni di Gesù aperte dalla locuzione “in verità, in verità ti dico”, delle quali le prime due (3,3-10, che formano un dialogo vero e proprio) sono seguite dall’incomprensione dell’interlocutore, mentre la terza si risolve in un monologo (3,11-21).
Dietro lo schema si scopre un movimento, quindi un significato: il discorso inizia con un detto enigmatico di Gesù, e il seguito lo precisa, lo chiarisce prendendo occasione dalla domanda-incomprensione di Nicodemo. È una tecnica frequente nei discorsi dell’evangelista Giovanni; una tecnica letteraria, che serve a far progredire il discorso. Ma è anche molto di più, è rivelatrice di una situazione: l’uomo è incapace di capire, la sua comprensione resta carnale (cfr. parole che rivestono un doppio significato (dall’alto-di nuovo; nascere in senso spirituale-essere generato fisicamente; ecc.).
Esaminiamo il brano
vv. 14-15 si riferisce ad un episodio riportato in Nm 21,6-9. La base del confronto sta nel fatto che in entrambi i casi la salvezza si attua mediante «innalzamento». Il termine ha un duplice significato e allude sia all’innalzamento di Gesù sulla croce (cfr. 8,28) sia alla sua risurrezione e ascensione al Padre (cfr. v. 13). Questo riferimento all’AT, e soprattutto la visione della croce come innalzamento (e quindi glorificazione), è molto interessante per capire in Gv la concezione della passione (vista come rivelazione). È il tema centrale della fede di ogni cristiano: non solo credere in Gesù sulla Croce come dono, ma credere che la croce è gloria, è vittoria. Qui sta il punto;
«in lui abbia la vita eterna»: il “guardare” opera la salvezza; si deve realizzare la profezia di Zc 12,10.
Guardare = credere in lui, essere in comunione con lui; lo sguardo va spostato dal nostro peccato a Colui che lo toglie via. È la visione della purezza, non quella del peccato che ci eleva. Noi ci allontaniamo dal peccato, quando ci allontaniamo da noi stessi e ci lasciamo attrarre dalla sublimità di quell’amore.
«serpente»: è considerato un animale ambiguo: era visto come simbolo della fecondità e della vita (a causa della similitudine fallica) ma anche della morte e del male (a causa della sua velenosità e del ribrezzo che genera). Il racconto della Genesi al c. 3, col serpente che induce l’uomo a peccare, e quello del deserto a cui si è fatto cenno rappresentano i due estremi del simbolo. Anche se il serpente di bronzo correrà il rischio di diventare un idolo [il re Ezechia dovrà, nell’VIII sec. a.C. fare a pezzi una simile raffigurazione a cui gli Israeliti bruciavano incenso (2 Re 18,4)], esso rimarrà nella Bibbia soprattutto come un segno della salvezza e dell’amore divino. Si legga a proposito quello che è scritto in Sap 16,6-7.
Gesù continua su questa linea e annunzia a Nicodemo che la sua elevazione avrà lo stesso significato. Si opera, così, un confronto caro al 4° evangelo: i segni dell’antica alleanza (il tempio, l’esodo, il serpente, la manna, l’acqua, il mare e così via) sono attuati in pienezza nell’azione salvatrice del Cristo.
v.16 Nella incarnazione e nella Passione egli ha dato il Figlio suo unigenito per donare la vita eterna a chiunque crede in lui, e perciò non perisca (in senso escatologico). Sullo sfondo ricordiamo la figura di Isacco (Gen 22,2.8.12.16).
vv. 17-18 Questi due versetti sviluppano il v.16. Il giudizio di Dio non va concepito come una divisione fra gli uomini che si salvano e quelli che si perdono. La missione di Gesù è una missione solo di salvezza; Dio ha mandato il Figlio per salvare il mondo, non per giudicarlo. Ma ciò non toglie che la presenza del dono determini una crisi: il dono del Padre può essere accolto o rifiutato. Nel giudizio il 4 evangelista vede non tanto un evento futuro, rimandato alla fine, quanto una realtà attuale, già presente e operante dentro la storia e l’uomo (v. 18). La fede opera un giudizio, ed è l’uomo stesso che si giudica.
v. 19 Il giudizio di Dio sul piano storico è espresso in termini di luce-tenebre (cfr. Gv 1,5.9-11) interpretati come termini di confronto per una decisione radicale. La luce è Gesù e la sua rivelazione; le tenebre sono il distacco da Dio e la chiusura dell’uomo in sé. Il testo di Giovanni, letto con attenzione, offre alcune preziose precisazioni. L’evangelista definisce gli increduli: coloro che amano la tenebra; è il medesimo verbo (agapàn) che definisce, al contrario, il dono di Dio per l’uomo (v. 16): indica preferenza, attaccamento, scelta consapevole. Non è solo questione di fare il male (questo può accadere anche per debolezza, come un incidente che non rivela un orientamento di fondo), ma di amarlo.
v. 20 Giovanni è convinto che chi opera il male finisce necessariamente per odiare la luce; non vuole che le sue opere cattive vengano smascherate. L’agire condiziona il comprendere: libertà interiore, amore alla verità e alla giustizia, retta vita sono condizioni necessarie e indispensabili per «vedere». L’agire corretto non è solo un fatto di coerenza; è la condizione indispensabile per creare un luogo in cui il mistero di Dio possa svelarsi in tutta la sua forza di persuasione, un luogo in cui sia possibile intuire la verità, l’origine del Cristo e il suo dono di salvezza.
v. 21 «Chi opera la verità»: è un’espressione tipicamente semitica, usata solo dall’evangelista Giovanni nel NT (cfr. 1 Gv 1,6). Nell’AT significa «essere fedeli»; in Qumran indica un impegno totale di vita, come in Giovanni. Per l’evangelista infatti la verità non è una nozione da apprendere, e neppure semplicemente una realtà, seppure divina, da conoscere: è il piano salvifico di Dio da accogliere e da costruire.
Piccola conclusione
Le letture di questa domenica, ci invitano ancora una volta, a riflettere sul vero atteggiamento di Dio nei nostri confronti. Quest’amore di Dio che è totalmente spontaneo e generoso: ci ha amati per primo, creando egli stesso in noi i motivi di tale amore. Cristo, allora, non è solamente il termine dell’amore del Padre, ma diventa anche l’anello di mediazione e il suo centro di diffusione. In lui, come in un ambito esistenziale, viene inserito il cristiano, con il battesimo; in lui, l’essere umano viene ripreso da un nuovo principio vitale, e appositamente plasmato, per formare la «creatura nuova» (2 Cor. 5,17), l’uomo nuovo (Ef 2,15; 4,24). «Quanti foste battezzati in Cristo, rivestiste Cristo» scrive san Paolo, volendo significare che i battezzati, sono entrati nelle disposizioni d’animo di Qualcuno; in questo caso, di Cristo. Questa immersione in lui, rivela un realismo tale, da spingere la nostra unione a Cristo, fino all’identificazione nell’essere (Gal 3,28; Rom 12,5).
Cristo ci ha assunti in sé; la nostra presenza in lui è una identificazione sul piano dell’essere ed ha, come principale effetto, la comunanza di vita: «consideratevi come viventi per Iddio, nel Cristo Gesù» (Rom 6, 11). L’adesione a Cristo, mediante la fede e il battesimo, ci comunica la stessa sua vita (Gv 15,4). È ovvio perciò che il cristiano si debba assimilare a quella che è l’essenza stessa di Dio, o, comunque, la sua espressione più caratteristica, cioè l’amore = la sua vita non può che essere una vita nell’Amore (1 Gv 4,10). Amore che si traduce e si trascrive, in chiave di obbedienza e di sintonia di volontà.
Dalle letture odierne, possiamo rilevare un’altra caratteristica fondamentale dell’amore di Dio: la sua esigenza totale e senza riserve. La povera concezione che abbiamo noi dell’amore trova difficile conciliare le due qualità della gratuità e dell’esigenza, quasi fossero una contraddizione in termini.
In realtà, questa è una falsa alternativa, perché il vero amore comporta l’una e l’altra. Gratuito è l’amore di Dio, perché è creatore, nel senso che non aspetta di trovare in noi qualcosa che lo solleciti o lo richiami, ma resta puntualmente libero, senza precedenti perché senza debiti, e ogni volta riprende da capo l’iniziativa, senza condizionarla all’avvenuta o mancata risposta. Ma ancora: proprio perché è gratuito, cioè rivolto al nostro vero bene e al nostro perfezionamento, esige la nostra corrispondenza. La Scrittura ci descrive tale amore come qualcosa di terribile, che ha la potenza stessa di Dio, che crea e distrugge. L’esigenza di Dio, che strappa Abramo da tutto ciò che è terreno, per collocarlo sulla cima del Moria, solo davanti al mistero; la forza che solleva Mosè sul Sinai, a contemplare la gloria di Iahvé; il fuoco che brucia l’animo di Elia e lo rende sordo a ogni pietà; l’amore stesso che strappa Israele alla sua terra, lo spoglia di ogni presunzione, lo incalza in un cammino senza fine… così è l’amore di Dio. Egli non tempera la sua trascendenza; ma è piuttosto nell’amore, che questa trascendenza si rivela. Così, la minaccia e il castigo, di cui parla la prima lettura, anziché contraddire l’amore di Dio, ne sono invece la conferma più vera, perché il castigo mira alla redenzione e al ravvedimento, la punizione serve per purificare il popolo dal suo peccato. Israele, in fondo, è come una sposa infedele: ha, intorno a sé, tanti amanti compiacenti, che la vezzeggiano e la viziano; ma trova un solo amore autentico, un solo sposo: Iahvé che la riscatta, strappandola alla sua falsa pace, e risvegliandole un’inquietudine di redenzione. Allora, la distruzione del tempio, la dispersione fra le genti, l’esilio, non sono il segno di una rottura e di un abbandono, ma la rivelazione di un’amore tenero e tenace, che non sa rassegnarsi all’ingratitudine, e per questo, ripetutamente rinnova i suoi richiami…
Qualcosa di simile si verifica anche in ogni esperienza dolorosa della Chiesa, come di ogni cristiano. È un mistero, ma è così. Il dolore, la malattia, le prove, gli insuccessi, non sono mai un segno dell’abbandono di Dio. Sono invece un segno della sua presenza operativa, una purificazione dell’amore, perché lo rendono più vero e autentico. Quando il diluvio della sofferenza è passato, ciò che resta di vivo (a volte molto poco) può considerarsi autentico. Allora l’uomo è capace d’amore gratuito: è entrato finalmente nella logica di Dio, spesso paradossale all’uomo comune. Allora può entrare nel regno della gratuità, che è il regno del vero amore.
II Colletta
Dio buono e fedele,
che mai ti stanchi
di richiamare gli erranti a vera conversione
e nel tuo Figlio innalzato sulla croce
ci guarisci dai morsi del maligno,
donaci la ricchezza della tua grazia,
perché rinnovati nello spirito
possiamo corrispondere al tuo eterno e sconfinato amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
[1] I Colletta:
O Padre, che per mezzo del tuo Figlio
operi mirabilmente la nostra redenzione,
concedi al popolo cristiano di affrettarsi
con fede viva e generoso impegno
verso la Pasqua ormai vicina.
Per il nostro Signore…
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano