Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 10 Luglio 2022

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DOMENICA «DEL BUON SAMARITANO»

Nella pagina evangelica un episodio molto noto, tutto sommato, abbastanza banale. Drammaticamente banale. Gesù lo racconta per rispondere alla domanda di un dottore della legge: «Chi è il mio prossimo?». L’interlocutore di Gesù sa che il cammino verso la vita si svolge nel concreto di un’esistenza animata dall’amore di Dio e del prossimo. Ma per identificare quest’ultimo vuole una regola chiara e sicura. L’aneddoto di Gesù è rivolto a far esplodere la ristrettezza di questa preoccupazione.

Un viaggiatore anonimo, selvaggiamente assalito e rapinato da alcuni banditi, viene abbandonato come morto sul bordo della strada. Uno dopo l’altro, passano due rappresentanti qualificati della religione giudaica. Si ponevano il problema teorico di chi fosse il loro prossimo? Fatto sta che nessuno dei due assiste il ferito. Chi si ferma, è un uomo che apparentemente non si preoccupa molto di morale e di religione: un samaritano. L’incontro col malcapitato non rappresenta per lui una questione di casistica, ma una realtà che gli colpisce il cuore. Ascoltando soltanto la propria compassione, tratta la vittima come vorrebbe essere trattato egli stesso se si trovasse al suo posto. Il dottore della legge riconosce che il samaritano è stato «il prossimo di colui che è incappato nei briganti».

Definizione sorprendente di prossimo! Per comprenderla, bisogna rifarsi a ciò che è stato detto poco prima: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Non si tratta più di definire il prossimo a partire da se stessi, come se si fosse il centro di tutto; si tratta piuttosto di collocare se stessi a partire dall’altro.

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Questo è il capovolgimento operato dall’Evangelo, la «grande inversione di marcia», che sola può dare inizio al cammino dell’uomo verso Dio. Quando il Cristo è venuto sulla terra, si è identificato con l’umanità ferita: come un buon samaritano, ne ha avuto compassione. «Va’ e anche tu fa’ lo stesso», diventando il prossimo di chiunque ha bisogno di te.

Cristo si comporta con l’umanità come il samaritano del racconto evangelico verso lo sconosciuto: come il buon pastore viene a salvare le pecore spogliate, battute e messe a morte (Gv 10,10), come il figlio del padrone della vigna si presenta dopo i profeti mandati invano (Gv 10; Lc 20,9-18), così il samaritano arriva dopo i sacerdoti e i leviti che non hanno voluto e non hanno potuto salvare l’uomo ferito.

È riflessa qui la storia della salvezza in cui Gesù viene sotto l’aspetto di un samaritano disprezzato, rivela ciò che le altre tecniche della salvezza hanno dimenticato, costruisce proprio là dove queste tecniche hanno fallito. In Cristo Dio si è avvicinato all’uomo con una figura semplice ed umana. Il Dio che ora conosciamo «non è troppo alto né troppo lontano» da noi e la sua legge è molto vicina a noi; è nella nostra bocca e nel nostro cuore perché la mettiamo in pratica (prima lettura). Solo facendo quello che anche Cristo ha fatto incontriamo veramente Dio.

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Il segreto è nel grande comandamento della carità che, con Cristo, reca nuove esigenze. Non basta più amare il prossimo come se stessi; occorre domandarsi come essere prossimo per l’altro e amarlo come Dio l’ama. Dopo la Cena, Cristo darà un comandamento nuovo: amare gli altri come si è stati amati (Gv 13,34). Bisogna prendere coscienza dell’appartenenza a questa umanità ferita, abbandonata mezzo morta sul ciglio della strada, che il Cristo è venuto a salvare.

Seguiamo dunque il cammino che la Parola oggi ci invita a fare nella proclamazione liturgica.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 16,15

Nella giustizia contemplerò il tuo volto,
al mio risveglio mi sazierò della tua presenza.

L’antifona d’ingresso è il Sal 16,15, SI. L’Orante dal Signore ha ricevuto la sorte d’essere giusto e adesso vuole «comparire davanti al Volto», espressione che indica la volontà di visitare il Signore nel santuario, dove dimora in modo invisibile, imperscrutabile, misterioso sull’arca tra i Cherubini (62,3; Gb 19,25; 33,25). Egli sa che dal Volto della divina Bontà emana la Luce trasformante (1 Gv 3,1-2). Questa proviene dalla teofania, la manifestazione divina mediata dall’insegnamento della Parola e dal sacrificio seguito dal convito, unico cibo, unica sazietà meravigliosa per il fedele (15,11; Is 26,19; Dan 12,2).

La lettura dell’Evangelo è orientata come sappiamo dalle parole del canto all’Evangelo che qui sono quelle che provengono come conseguenza del discorso eucaristico (Gv 6,22-58):

Canto all’Evangelo Gv 6,63b.68b

Alleluia, alleluia.
Le tue parole, Signore, sono spirito e vita;
tu hai parole di vita eterna.
Alleluia.

Queste sono parole che ricorrono spesso nel Lezionario. Nella prima Gesù stesso ha rivelato che le sue Parole sono Spirito divino e Vita divina (v. 63b) e nella seconda Pietro nella fede riconosce che il Signore ha Parole di Vita eterna, e solo Lui (v. 68b).

Ascoltare la voce di Dio dunque. Finché Dio tace, dovunque sia, nei cieli o al di là dei mari, sarà sempre fuori della nostra portata. Ma ecco che Dio parla. Una parola pronunciata nel vuoto non è una parola; la parola diventa tale solo nel momento in cui colpisce un orecchio e penetra in un cuore. La parola di Dio si realizza solo quando la si accoglie. Grandezza della nostra sottomissione, che dona alla voce di Dio tutta la sua potenza!

Nella I lettura il terzo e ultimo grande discorso mistagogico di Mosè al popolo radunato nelle steppe di Moab, prima del rinnovamento dell’alleanza e del successivo l’ingresso nella terra promessa (Dt 29,1 – 30,20), viene la grande esposizione sulla misericordia del Signore. Che resta sempre in funzione, anche e soprattutto nel caso della possibile infrazione infedele dell’alleanza da parte del popolo, come poi largamente si verificò.

Il Signore, se il popolo prevaricatore a suo tempo si convertirà, lo ricondurrà anche dall’esilio. Tutto dipende dalla scelta che Israele farà, della vita e del bene, o della morte e del male (Dt 30,15).

In sostanza, Israele deve sempre e solo ascoltare il Signore che gli parla. Esso deve custodire i suoi santi precetti e i suoi riti santificanti contenuti nella Legge che Egli con infinita misericordia ha donato al suo popolo. Israele deve di continuo convertirsi al suo Signore, il Dio dell’alleanza, con tutto il cuore e con l’anima indivisa (v. 10). Tale precetto globale è dato “oggi”, che è l’«oggi del Signore», in cui Egli si fa presente per salvare, a cominciare dall’alleanza con tutti i suoi effetti adesso visibili. Per donare un oggi perenne. Il cap. 30 di fatto insiste su questo “oggi” ai vv. 2.8.11.15.18.19, ossia 6 volte in soli 20 versetti, dove di continuo è ribadita e riaffermata la formula salvifica «oggi Io a te do precetto», fino a quella finale: «Oggi Io invoco a testimoni il cielo e la terra», le creature più fedeli del Signore, quelle che non prevaricano mai contro di Lui (v. 19).

Perciò “oggi” il Signore fa il dono del suo precetto. E avverte altresì, che questo è un precetto accessibile, che non sta in alto e che non sta lontano (Is 45,19; 48,16) (v. 11). Non sta nel cielo, poiché il Signore nella sua condiscendenza misericordiosa ha anche previsto che l’uomo colpevole poi avrebbe detto: E chi lo può raggiungere e portarcelo, così che lo ascoltiamo e lo pratichiamo? (v. 12; questo diventa poi anche tema della riflessione sapienziale, Bar 3,29-30). Notevole è la sua citazione in Rom 10,6-8. E il precetto non sta neppure dopo i mari lontani, per cui Israele, qui interpellato con il tu come una persona, possa avanzare il medesimo pretesto che avanzerebbe per l’irraggiungibilità del cielo (v. 13). In effetti, il Signore stesso pose la sua Parola nel cuore e sulla bocca del suo popolo, pronta da essere praticata (v. 14).

Quindi la natura stessa dell’amore di Dio che dona il precetto, e la costituzione intrinseca del precetto donato, hanno fatto del tutto per favorire l’umanità così torpida e tarda del popolo di Dio, quello di ieri. E quello di oggi è meno torpido e tardo?

Una volta donato, il precetto diventa il Pane che si mangia (Dt 8,1-3), la Parola più nutriente di qualsiasi cibo, che deve essere sempre tenuta sulla bocca, amata, ruminata, assimilata, ripetuta, cantata, celebrata, spiegata, lodata, e deve essere conservata nel cuore.

Infatti biblicamente il cuore significa l’intelligenza, che riceve la Parola del precetto come Luce divina. Cuore che significa recettività, che deve attuare la Parola del precetto nella sua radicalità. La Parola del precetto è donata per questo. È stata reso facile per questo. Ossia per il solo bene del popolo amato. E proprio per questo Gesù esorta e invia il legista a metterla in pratica (Lc 10,37b).

Nel Salmo Responsoriale (Sal 18, I) come assemblea preghiamo; «I precetti del Signore fanno gioire il cuore». Con il salmista l’assemblea vuole esprimere la sua fede, la sua certezza fiduciosa di Orante ascoltato e gradito. Con la vita di santità tutta dedita all’ascolto ed al vissuto che ha come riferimento la Parola divina, il suo parlare, “le parole della bocca”, che indicano l’autenticità e la responsabilità dell’esistenza totale; la bocca è la metafora per indicare la persona in quanto si esprime. Il fedele con la sua intelligenza e volontà e cuore sarà tutto e per intero secondo questa Eudokía (la benevolenza divina), poiché la sua vita si nutre della Parola santificante, il contenuto di tutta la sua esistenza. Egli vuole vivere dunque nella trasparenza davanti alla Presenza divina per sempre. Meditare la Parola è questo vivere.

La fede e la fiducia, con stupendo atto ennesimo di adesione al Signore, assumono la forma di un’invocazione, che è acclamazione, proclamazione, professione, celebrazione, lode: «I precetti del Signore fanno gioire il cuore».

Nella Domenica «Del Buon Samaritano», Gesù seguita a pensare alla comunità futura, che dopo di Lui dovrà proseguire la sua opera. Egli ha già scelto i Dodici tra tanti discepoli che lo seguono, ha rifinito la compagine scegliendo altri 72 discepoli, ora ci rivela che cosa dobbiamo fare: amare il Signore ed il prossimo con l’infinita misericordia del Padre. Tenendo conto del «continuo celebrativo» e dunque della «linea degli Evangeli» delle Domeniche occorre qui ripetere con pazienza ciò che è ovvio, ma che spesso è trascurato colpevolmente e immancabilmente!

Nel corso di queste 34 Domeniche del Tempo Ordinario, la Chiesa Sposa, la Madre, l’Orante celebra il suo Signore e Sposo Risorto, e solo come Risorto, mentre Lo contempla in un episodio della sua Vita tra gli uomini.

Dopo questo indefettibile, ostinato recupero quotidiano inquadriamo in breve il contesto della nostra pericope: il cap.10 di Luca segue la ferma decisione di Gesù dì compiere il grande viaggio verso Gerusalemme, dove deve compiersi la volontà divina della Croce con la Resurrezione. Il discorso di Gesù prosegue con un incontro importante: un legista, un esperto della Legge di Mosè, lo esamina sulla bontà del suo insegnamento e gli pone la domanda fondamentale per ogni uomo di ieri come di oggi: «Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».

È la tipica domanda di quei credenti che credono di meritare a partire dalle loro opere. Gesù chiede cosa è scritto nella Legge santa, che lui esperto conoscitore studia ogni giorno (il verbo anaginóskó = indica la lettura liturgica). Segue la parabola del «Buon Samaritano», l’insegnamento simbolico di Gesù più efficace.

Il cammino verso Gerusalemme prosegue poi attraverso un villaggio (di cui Luca non ci dice il nome) con una sosta nella casa di Marta, che ha una sorella di nome Maria. L’accoglienza riservata al Signore è molto calorosa e (lo vedremo Domenica prossima, nell’Evangelo della XVI Dom.) si riferisce non solo all’amico che viene in visita ma soprattutto al Signore che porta ed insegna realtà grandi da cui derivano tutte le altre iniziative pur buone ed utili.

Nella lettura della pericope recuperiamo dunque il nostro incontro con il Signore:

  1. stiamo davanti al Signore Risorto;
  2. siamo da Lui invitati a camminare, come suoi discepoli, seguendolo nella sua Vita storica;
  3. lo contempliamo Battezzato dal Padre con lo Spirito Santo per il suo ministero messianico, mentre sale a Gerusalemme, fino alla Croce e alla sepoltura;
  4. in questo, come in ogni altro episodio annuncia l’Evangelo, ne insegna i misteri, opera la Carità del Regno (miracoli, guarigioni), prega e riporta tutto al

L’insegnamento di Gesù scuote coloro che sono alla ricerca sincera di Dio; mette a nudo le nostre vere intenzioni, scrolla come foglie secche le nostre presunte certezze e ci mette a contatto con la Verità: l’amore di Dio, che è il Figlio suo donato a noi.

Ad un primo contatto la parabola sembra condita di una forte critica anticlericale, ma va letta bene. Un sacerdote ed un levita camminano per la loro strada senza curarsi del ferito che giace come morto, mancando così gravemente alla carità fraterna.

Il sacerdote e subordinatamente il levita, per statuto originario erano i detentori, proclamatori, interpreti e attuatori della Legge santa. Questa Legge proclama altamente la carità verso il Signore (Dt 6,4-5) e verso il prossimo (Lv 19,18); cose che erano conosciute come il comandamento più grande (cf Lc 10,25-28) e già comprese molto prima del tempo di Gesù. Per scrupolo, ossia per un esagerato e malinteso amore verso il Signore, i due uomini pii non vogliono contaminarsi con il ferito che giace a terra sanguinante.

Essi hanno terminato il loro turno di servizio al Tempio e tornavano a casa volendo restare nello stato di purità legale fino al prossimo turno. Il contatto con un uomo che credono morto, li porterebbe alla massima impurità levitica e al complicato rito per rientrare nella purità legale (cf Num 18,1-19,22; per il rito di purificazione dell’impurità derivata dal contatto con un cadavere cf Nm 19,11-22).

Il samaritano è invece considerato impuro per la sua stessa condizione di nascita come eretico rispetto all’Israele di Dio, che ha conservato la purità della fede dei Padri. Egli che non ha obblighi di carità, considerato straniero e peccatore, ha tuttavia il moto della divina misericordia (verbo splanchnízomai, cf Mc 6,34) ed interviene prontamente: fa éleos, opera la misericordia.

La parabola è molto famosa e molti commentatori si sono purtroppo affannati in ricercate applicazioni morali e teologiche che si fissano in particolari che vengono isolati dal complesso.

Noi vogliamo ricordare solo che, come allora, Gesù continua ancora oggi ad esortare ciascuno di noi a diventare come il «buon samaritano» non curandoci di altre minuzie che ci distraggono dalla carità vissuta; noi dobbiamo prestare i nostri servizi a chiunque ne abbia bisogno, senza guardare ai meriti o alle condizioni di chi è nel bisogno.

A questa disponibilità ci richiama la preghiera di II colletta:

Padre misericordioso,

che nel comandamento dell’amore

hai posto il compendio e l’anima di tutta la legge,

donaci un cuore attento e generoso

verso le sofferenze e le miserie dei fratelli,

per essere simili a Cristo,

buon samaritano del mondo.

Egli è Dio, e vive e regna con te..,

Esaminiamo il brano

25- «Un dottore della legge»: un esperto della Legge di Mosè «interroga» Gesù sulla bontà dell’insegnamento che sta diffondendo ponendogli quella che è la domanda principale per ogni uomo religioso che ritiene di meritare a partire dalle sue opere: «che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (cf ricco in 18,18).

«per metterlo alla prova»: se la domanda in sè mostra che «l’esperto» della legge ignora che la Grazia divina è prima di tutto e che all’uomo è richiesto “soltanto” di accettarla e corrispondervi, ora l’Evangelista ci svela un particolare inquietante: Gesù è messo alla «prova».

Luca scrive «ekpeirázō» che traduce anche il verbo “tentare”; lo stesso accade nel brano parallelo di Mt 22,34-40 (che alcuni traducono: gli domandò insidiosamente). Il richiamo immediato è a Lc 4,2, le tentazioni di Gesù nel deserto; stesso vocabolo ma chi pone le domande è il diavolo. Ora diábolos (dia + ballo = interporre, inserire in mezzo) è tradotto con accusatore, colui che divide, perché davanti a Dio mette in luce reali o supposte colpe (cf Gb 1,6-12; 2,1-6).

Per l’Evangelista questo dottore della legge non è in buona fede perché pur sapendo cosa fare non compie il bene, è infatti «diviso» dalla comunità. È colpevole di omissione mancando gravemente alla carità fraterna, ma è soprattutto in grave pericolo perché dove non dimora la comunione con il Signore e con i fratelli nella fede e nella carità rischia di essere spietatamente divorato dall’«avversario nostro» che: «come leone ruggente gira intorno» (cf 1 Pt 5,8). Quindi procede così ancora con uno, e poi con uno e con uno, e poi, se può, con tutti. Pazientemente il Signore lo chiama ad imitare Lui.

«Maestro, che devo fare…»: è l’interrogativo di sempre e di ogni uomo (cf anche 18,18) che ritiene di meritare a partire dalle sue opere (cf preghiera del fariseo in 18,9-14).

Da notare che in greco il verbo “fare” è al participio aoristo che non per sua natura ma nell’uso sottolinea una priorità rispetto all’azione del verbo principale. L’aoristo implica che l’azione da fare è decisiva per l’acquisto della vita eterna.

  1. 26 – «Gesù gli disse»: Riconosciuto come Maestro Gesù compie l’opera di Misericordia del Padre e annuncia la Salvezza. La risposta è una vera lezione di catechesi:
  2. dalla Scrittura viene enunciato un principio dottrinale (il primato dell’amore);
  3. sono suggeriti coinvolgimenti pratici (non c’è amor di Dio senza le opere di misericordia),
  4. Gesù accetta la discussione e intreccia un dialogo con il suo interlocutore: da buon maestro Gesù lo guida e lo sollecita a cercare, lo loda per l’esattezza delle risposte, lo esorta a fare ciò che ha

«Cosa sta scritto nella Legge»: Con una formula che nelle scuole rabbiniche precede le citazioni bibliche Gesù sollecita a cercare nelle Scritture la risposta desiderata.

«Come leggi»: il verbo anaginṓskō (= leggere, conoscere bene, riconoscere, recitare) indica anche la lettura liturgica, con riferimento alla recita quotidiana dello «Shema’», la preghiera che esprime il credo giudaico che ogni ebreo recitava due volte al giorno (cf Dt 6,4ss). Il tempo presente invece indica un’azione che si sta svolgendo ora, in questo momento, con tendenza a durare verso un immediato futuro.

27 – «Quell’uomo disse…»: La risposta rivela lo specialista, che in modo esatto rimanda ai due precetti principali della Legge del Signore: amare Lui (Dt 6,5) e il prossimo come se stesso (Lv 19,18). La citazione è di grande importanza perché combina l’amore di Dio (agapáō = l’amore che dona tutto di sé) all’amore del prossimo.

In Matteo (22,34-40) e Marco (12,28-31) questa combinazione viene fatta da Gesù e lodata dall’interlocutore. Luca ci da notizia dell’origine precristiana del comandamento più grande ; ancora prima del tempo di Gesù gli Ebrei avevano compreso e insegnavano quelli che erano i due massimi precetti divini che determinavano la loro esistenza. Anche se poi nella Legge individuavano molti altri precetti positivi e negativi, il centro restava sempre l’amore per il Signore e per il prossimo.

28 – «Fà questo e vivrai»: Gesù impiega lo stesso verbo (poiéō) usato dallo scriba nel porre la questione, ma mentre questi usa il participio aoristo Gesù usa l’imperativo presente per indicare la continuità e la lunga durata del precetto, da osservare non sporadicamente ma sempre. L’esortazione di Gesù cita ancora la Legge (cf Lv 18,5). Anche i profeti insistevano su questo agire (cf Ez 20,11 ; Is 58) come poi faranno i discepoli (cf Rm 10,5; Gal 3,12 ecc.).

29 – «volendo giustificarsi»: il desiderio che muove lo scriba è quello di chi cerca “sicurezze”: conosce la risposta alla sua domanda ma vuole “garanzie” sul secondo precetto, quello che è molto più difficile da attuare. A quel tempo nelle scuole rabbiniche si discuteva quale fosse l’estensione del termine prossimo: solo i vicini, i connazionali, o anche altri? Il desiderio di perfezione, se vero e profondo difficilmente può accettare che ci siano limiti etnici o religiosi nell’amore che si deve a creature di Dio, come sono tutti gli uomini (cf 18,18-23).

«e chi è il mio prossimo?»: il termine plēsíon traduce l’ebraico rea’ che pur significando letteralmente ”amico, compagno”, designa normalmente il compatriota, il correligionario. L’interpretazione ordinaria della Legge limitava la categoria di coloro che avevano diritto all’amore all’Israelita. Ricordiamo anche che Lv 19,34 estendeva l’applicazione del comandamento allo straniero residente. Esodo 23,3-4 l’obbligo dell’assistenza è esteso persino al nemico. Il dottore della Legge invita Gesù a delimitare la definizione di “prossimo”. In definitiva: chi rientra nella categoria di coloro che devo amare?

Chi merita di essere amato da me?

30 – «Gesù riprese»: Gesù risponde con una parabola, l’insegnamento simbolico più efficace. Il racconto, proprio di Luca, è in grande armonia con lo spirito del terzo Evangelo: perfezione e salvezza non sono patrimonio esclusivo di alcuni contro altri, ma di tutti coloro che lo desiderano. Il Maestro Gesù risponde alla seconda questione non in maniera teorica ed astratta, come accadeva nelle scuole del tempo e di oggi, ma mostrando fino a quale limite insospettato debba arrivare l’attuazione pratica di un comando, che non conosce distinzione fra gli uomini.

«un uomo»: indeterminato, ma con molta probabilità un ebreo e forse un giudeo, abitante della regione in cui si svolge il fatto.

«scendeva da Gerusalemme a Gerico»: una strada tortuosa, aspra, in una regione semidesertica che conduceva dai 750 m. di altitudine di Gerusalemme ai 350 m. sotto il livello del mare, della valle del Giordano.

«cadde nelle mani dei briganti…»: rapinato, percosso forse per una sua reazione, abbandonato più morto che vivo. Accade ancora oggi e non più solo nei luoghi deserti.

31 32 «un sacerdote»: la scelta è dettata dallo scopo della parabola; il sacerdote infatti, più che il fariseo e lo scriba, era colui che per istituzione e tradizione doveva insegnare la compassione e metterla in pratica (Os 4,1-10). Anche senza un comando specifico nella Legge, presso tutti i popoli questo è il compito attribuito ai sacerdoti.

«un levita»: questi era l’incaricato delle sante liturgie in cui la Legge era proclamata al popolo e dirigeva i canti che l’acclamavano. Era costume nominare sacerdoti e leviti sempre insieme; anche qui l’uno segue all’altro per esaurire la possibilità di compassione che l’intera categoria (sacerdoti e leviti) avrebbe dovuto esemplarmente praticare. Entrambi vengono meno alla carità fraterna per scrupolo, ossia per un esagerato e malinteso amore verso il Signore, non vogliono contaminarsi con quell’uomo che giace a terra. Terminato il turno di servizio al tempio vogliono restare in una situazione di purità legale. Forse credono morto quell’uomo e il contatto con lui li porterebbe alla massima impurità (Lv 21,1-4) e al complicato rito per rientrare nella purità legale (Lv 4,1-12; Nm 8,5-22).

33 – «Un samaritano»: posto in grande evidenza all’inizio del periodo non è scelto a caso: egli apparteneva al popolo che i Giudei detestavano più di ogni altro (cf Sir 50, 25-26). Il Samaritano è considerato impuro per la sua stessa condizione di nascita come un eretico rispetto all’Israele di Dio, che invece conserva la purità della fede dei Padri.

Si tratta dunque di un caso in cui l’esercizio dell’amore è di estrema difficoltà più che si fosse trattato di un pagano: senza l’obbligo della carità e senza il diritto di ricevere la carità.

«ebbe compassione»: lett. «fu mosso a pietà» passivo indicativo aoristo. L’aoristo indica l’immediatezza della reazione: appena lo vide, subito ebbe compassione. Il verbo splanchnízomai che richiama le viscere di misericordia, quelle materne che generano alla vita (cf Mc 6,34) è la parola fondamentale di tutta la parabola ed indica già che l’egoismo è stato superato: egli ha il moto divino della misericordia (il verbo è al passivo: fu mosso). La grazia della carità lo ha visitato.

34 – «si fece vicino»: in greco pros+érchomai. Non è tanto l’avvicinarsi materiale quanto il venire vicino intenzionalmente per vedere se c’è ancora qualche cosa da fare, per aiutare. Il Cristo, lo Sposo, il Salvatore è chiamato l’ho erchómenos “Colui che viene” (titolo del Messia; cf Lc 19,38 e paralleli) e noi, la Chiesa Sua, la Sposa quando Lo invochiamo nello Spirito Santo diciamo: « Maràna tha» (1 Cor 16,22), «Vieni, Signore!» (Ap 22,17) con la risposta forte del Signore: «Sì, vengo presto», ossia: «Sì, sto già qui!» (Ap 22,20).

«fasciò le ferite versandovi olio e vino»: medicalmente parlando, prima si deve lavare ed ungere, poi fasciare. L’interesse è nel presentare l’atto di soccorrere che nel caso concreto doveva essere di fasciare, per evitare che il ferito morisse dissanguato. Olio e vino erano il pronto soccorso del tempo: mescolati insieme erano usati per le ferite aperte, come disinfettanti e lenimento; l’olio era usato da solo per le lividure e le ustioni; il vino da solo per le irritazioni della pelle.

«lo portò ad una locanda»: lett. il greco pandocheîon indica un recinto, più per animali che per uomini, i quali vi sostavano lo stretto necessario: di giorno per rifocillarsi un momento e di notte per non correre pericoli sulla strada. Il Samaritano senza nome assiste il ferito, per lui sconosciuto, per tutta la notte.

35 – «due denari»: era il valore di due giorni di lavoro (cf Mt 20,2) certo più di quanto in realtà avrebbe dovuto spendere o pretendere lo stalliere.

«albergatore»: il greco pandocheús indica colui che presiede e sorveglia il recinto, per cui sarebbe meglio dire stalliere che albergatore.

«Abbi cura»: epimelḗthēti passivo imperativo aoristo. L’imperativo aoristo ordina di dare inizio ad un’azione nuova; fino a quel momento il samaritano ha curato personalmente il ferito, ma ora che deve lasciarlo si preoccupa che uno sul posto lo sostituisca, avvolga il ferito con tutte le attenzioni possibili. Nella trad. in lingua inglese è usato il verbo to care che richiama la passione, l’interesse profondo che don Milani voleva avessero gli scolari di Barbiana.

«ciò che spenderai in più...»: il samaritano non fa l’ipotesi (se spenderai di più) ma già enuncia una realtà: quello che spenderai. Egli sa bene che non ci saranno altre cure oltre a quelle da lui già somministrate, ma la certezza della ricompensa renderà lo stalliere più sollecito ed attento.

36 – «sia stato il prossimo»: Gesù giustamente cambia la domanda: Chi è il mio prossimo? in: Verso chi devo sentirmi prossimo? Questa risposta pratica risolve tutti i casi teorici, senza prestare il fianco a nessuna discussione. Dall’oggetto dell’amore Gesù è passato ad indicare il soggetto.

37- «Chi ha avuto compassione»: la risposta è ovvia ma: colui che si fece éleos (misericordioso è un titolo divino, cf Dt 34,6); che operò la misericordia verso il povero ferito.

«Và»: medio imperativo presente. La forma media del verbo indica che il soggetto deve compiere l’azione per uno speciale interesse nei propri riguardi.

«e anche tu fà lo stesso»: attivo imperativo presente. Gesù riprende il verbo della domanda iniziale e il presente indica che il nuovo modo di agire deve sempre accompagnare lo scriba in ogni sua azione. È l’esortazione che serve per la vita (cf 7,47), la vera beatitudine del cristiano (cf 11,28.46).

Oggi l’uomo è in molti ambienti depredato, messo a morte, insidiato, dimenticato e trascurato. C’è una scelta precisa da fare: scegliere l’uomo sopra tutto, sopra il denaro, la carriera, le strutture… Scegliere la sua liberazione… Ci chiediamo come intervenire: sia a livello di situazioni particolari (dare il pesce o insegnare a pescare?), sia a livello generale di strutture (perché chi sa pescare non sia derubato e messo in condizione di soffrire la fame).

Se Dio è amore, se Cristo è la rivelazione di Dio perché si è donato fino alla morte per l’uomo, il cristiano rivelerà al mondo Dio con il suo amare concretamente il prossimo.

È l’esortazione per la nostra vita.

Così infatti è stata ed è ancora oggi la vita del Cristo:

Nella sua vita mortale

egli passò beneficando

e sanando tutti coloro

che erano prigionieri del male.

 

Ancor oggi come buon samaritano

viene accanto ad ogni uomo

piagato nel corpo e nello spirito

e versa sulle sue ferite

l’olio della consolazione

e il vino della speranza.

(Prefazio comune VIII)

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano