Commento al Vangelo del 9 novembre 2014 – Paolo Curtaz

Dedicazione della Basilica Lateranense

Ez 47, 1-2.8-9.12/Salmo 45/1Cor 3,9-11.16-17/Gv 2,13-22

Noi, pietre vive

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Sono d’accordo con voi, oggi è propria una strana festa.

In questo giorno la liturgia romana celebra la data della dedicazione della basilica di san Giovanni in Laterano, la Cattedrale di Roma che non è san Pietro, come quasi tutti pensano.

La Basilica Lateranense venne fondata da papa Melchiade (311-314) nelle proprietà donate a questo scopo dall’imperatore Costantino di fianco al Palazzo Lateranense, fino allora residenza imperiale e poi residenza pontificia. Sorgeva così la “chiesa-madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe”, distrutta e ricostruita molte volte.

Vennero celebrati in quel luogo, ora sede del Vicariato di Roma, ben cinque concili ecumenici.

Curioso: in tutto il mondo, oggi, i cristiani cattolici celebrano la dedicazione della Chiesa Cattedrale di Roma. È un segno che ci permette di riflettere sul senso del tempio all’interno della Chiesa, sul ruolo fondamentale della Chiesa madre di Roma e sul nostro essere “Chiesa”.

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Templi

Il cristianesimo porta alle estreme conseguenze l’intuizione che Israele ha maturato durante la sua travagliata storia e di cui troviamo tracce nella Scrittura: nessun tempio umano può contenere la presenza di Dio, non esistono luoghi “sacri” perché tutto appartiene al Creatore.

Gesù, attribuendosi addirittura la sacralità dell’appena ricostruito (e non ancora concluso) tempio di Gerusalemme, ammonisce la samaritana e noi: non a Gerusalemme né sul monte Garizim si adora Dio, ma nel proprio cuore (cfr. Gv. 4,21-24).

Gesù, vero tempio di Dio, consacra, rende sacro ogni uomo, ogni luogo, ogni tempo.

Incarnandosi, diventando uomo, Gesù annulla la divisione fra sacro e profano, restituisce armonia, ricostruisce l’unione che era all’origine della Creazione.

San Paolo e san Pietro continuano la riflessione: è la comunità dei credenti a “fare” il tempio, è l’assemblea dei cercatori di Dio a rendere presente il Signore, perché due o tre sono riuniti nel suo nome e nel suo amore. Siamo pietre vive, concittadini dei santi, costruiti sul fondamento che sono gli apostoli e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Signore.

Carino, no?

E allora a che ci servono le chiese fatte di pietra e mattoni?

A ospitare “la” Chiesa fatta da persone, da credenti.

Come riportato negli Atti del Martirio di S. Giustino e Compagni, alla domanda del prefetto Rustico: “Dove vi riunite?”. Giustino risponde: “Dove ciascuno può e preferisce; tu credi che tutti noi ci riuniamo in uno stesso luogo, ma non é cosi perché il Dio dei cristiani, che è invisibile, non si può circoscrivere in alcun luogo, ma riempie il cielo e la terra ed è venerato e glorificato ovunque dai suoi fedeli”.

In splendide basiliche romaniche o in anonimi chiesoni in cemento delle periferie degradate, sono i discepoli che fanno la Chiesa e non viceversa.

Al punto che il diritto canonico dice che se in una parrocchia non si celebra più l’eucarestia domenicale e non si raduna più una comunità, il vescovo ha il dovere di abolire la parrocchia.

Ma

Fantastico. Se fosse vero…

Questo era il sogno, questo era l’obiettivo. Quando, alla sera del sabato o della domenica, giorni lavorativi per gli schiavi!, ci si radunava in qualche casa spaziosa e lì, dopo la predicazione degli apostoli o degli immediati successori, si ripeteva il gesto della cena e i cuori vibravano all’unisono, i presenti sapevano che il luogo dell’accoglienza, dell’intimità, la domus, stava diventando altro, punto di riferimento clandestino, Cenacolo abusivo, grembo della comunità.

Vorrei che fosse ancora così.

Vorrei che tornassimo a considerare la comunità, più che le mura, l’armonia, più che l’architettura, il sogno, più che la prassi culturale, il restauro delle anime, assieme alla doverosa conservazione dei beni culturali.

Ho avuto la gioia, in questi anni, di conoscere preti che hanno costruito comunità nelle estreme periferie, in quartieri sorti dal nulla, celebrando per decenni in un garage prima di poter avere una chiesa che contenesse la Chiesa. E mi hanno raccontato l’esperienza di costruire una comunità, prima che un tempio che la contenesse.

La festa di oggi richiama tutti noi alla realtà che senza pietre vive, le nostre grandi cattedrali, fra cento anni, saranno splendide testimonianze storiche. Come le città sepolte dei Maya o degli Aztechi.

Belle come le piramidi.

Mirabolanti costruzioni atte a contenere cadaveri.

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La Cattedrale, luogo in cui si custodisce la cattedra, il luogo da cui il Vescovo annuncia la parola, è segno di unità per tutte le parrocchie di una Chiesa locale.

Nell’esperienza della Chiesa cattolica Roma, sede dell’apostolo Pietro e luogo di martirio suo e di Paolo, riveste una centralità spirituale e una vocazione particolare, la vocazione alla custodia del deposito della fede.

Di cosa si tratta? È il compito difficile affidato a Pietro e alla sua comunità: custodire la fede.

In parole semplici: amico, chi ti garantisce che la mia interpretazione della Parola sia quella vissuta da duemila anni di cristianesimo? Che io non sia uno dei tanti guru con una mia carismatica e personale interpretazione del Vangelo? Chi garantisce a me di essere nel solco scavato dall’esperienza delle comunità illuminate dallo Spirito dono del Risorto?

Semplice: la comunione con Pietro e la sua Chiesa. Guardare a quella Cattedra, a quell’insegnamento, diventa tutela e custodia della Parola, non la Parola influenzata dalle correnti di pensiero, interpretata a proprio comodo dall’ultima moda di turno, ma la Parola vera, quella pronunciata da Gesù e riecheggiata dai testimoni.

Oggi è la festa della cattolicità della Chiesa e della sua unità, della bellezza della diversità e della ricchezza dell’unione intorno al carisma di Pietro, rude pescatore chiamato ad essere roccia irremovibile nella custodia delle parole del Maestro.

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