Commento Teologico-Pastorale alla XXXII Giornata Mondiale del Malato

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«Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina» (Gv 5,7)

L’universalità e il diritto di accesso alle cure

a cura per la vita umana a tutti i livelli è uno dei tratti caratteristici del ministero di Gesù. Questa cura è estesa a tutti, a chiunque Egli incontri e, direttamente o indirettamente, chieda il suo intervento, senza preclusioni dettate dalle barriere sociali, culturali o religiose. È proprio tale cura – attuata nell’azione terapeutica di Gesù – il segno visibile che il tempo messianico della salvezza è presente. Alla domanda “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”, Gesù risponde rimandando ai segni di questa cura di Dio per la vita: “Andate e riferite…ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella” (cfr. Lc 7,20-22). Dentro questo orizzonte ampio, può essere riletto anche Gv 5,1-18, che – in uno stile tipico dell’evangelista – congiunge un racconto di guarigione e la disputa che da esso scaturisce, con la finalità di rivelare l’identità misteriosa di Gesù e suscitare la fede in Lui.

1. Il racconto di guarigione (vv. 1-9)

La collocazione temporale è generica: si tratta di una, non meglio precisata, “festa dei giudei” che giustifica la presenza di Gesù a Gerusalemme. In seguito, diventerà rilevante il fatto che essa “è di sabato”. Più dettagliata è l’ambientazione topografica. Il narratore allude ad una zona di Gerusalemme, in prossimità della “porta delle pecore”, che avrebbe dato il nome alla piscina (chiamata in ebraico Betzatà) alimentata periodicamente da una corrente d’acqua proveniente o da una sorgente ad intermittenza o da acqua ferma, che in certi momenti veniva spinta dentro la vasca, al fine di aumentarne il valore curativo.

Questo fatto spiega la delusione del malato che non è aiutato a scendere nella piscina “quando l’acqua si agita” e, pertanto, non può beneficiare della sua capacità terapeutica. Nell’insieme, l’ambientazione sembra manifestare l’intenzione del narratore di evocare i santuari sincretistici dell’ellenismo, dove le divinità guaritrici attiravano folle di malati in attesa di essere sanati, per contrapporvi l’azione di Gesù che guarisce con la sola potenza della sua parola. È una chiara traccia dell’opposizione condotta dalla Chiesa delle origini contro i culti e le superstizioni pagane che allora, come in ogni epoca, tentano di infiltrarsi nella prassi cristiana. Sotto i portici della piscina – come in un grande ambulatorio a cielo aperto – staziona un grande numero di malati di ogni genere – “ciechi, zoppi e paralitici” – che sperano di poter essere toccati dalla potenza risanatrice dell’acqua agitata: tutti ritengono di essere degni di cura. Tra essi il fuoco si appunta sulla situazione disperata di un uomo che da trentotto anni è paralizzato.

A metterlo al centro dell’attenzione è Gesù, con quello sguardo attento, che si sofferma sulla sua condizione di immobilità (“vedendolo giacere”), e con quella conoscenza singolare, che gli permette di intuire il perdurare nel tempo della sua situazione di sofferenza (“conoscendo che da molto tempo era così”). Quell’uomo malato è “unico” davanti a Lui e non “uno tra i tanti”. Questa unicità è sottolineata dal fatto che Gesù non interviene subito con la sua potenza terapeutica, ma gli rivolge una parola interrogativa, tesa a fargli esprimere la sua interiorità: “vuoi guarire?”. Di fronte a Lui non c’è solo un ammalato da curare, c’è un’umanità a cui va ridata la parola e a cui dev’essere permesso di esprimere le tensioni interiori che l’abitano.

Restituito alla sua dignità, l’uomo è ora in grado di esternare sia il desiderio, che non è venuto meno, sia la frustrazione, che lo minaccia. Quell’appellativo “Signore” – che ha il sapore di un’invocazione – dice la densità del desiderio di guarigione, al contempo lascia trapelare la delusione per l’assenza di qualcuno che si prenda cura di lui (“non ho nessuno che mi immerga nella piscina…”), assieme alla coscienza che per le sue sole forze la guarigione diventa impossibile (“mentre sto per andarvi, un altro scende prima di me”). È di fronte al desiderio di vita di quest’uomo e alla constatazione della non-curanza e dell’impotenza umana che Gesù decide di intervenire con la sua parola potente e autoritativa: “Alzati, prendi la tua barella e cammina”; e questa parola ottiene un effetto immediato.

Al cuore del racconto resta una domanda: c’è solo “un’acqua curativa” a cui solo alcuni possono accedere per caso o per fortuna o c’è bisogno di un “guaritore” autorevole che consapevolmente e per decisione personale si prende cura di tutti e di ciascuno in modo pienamente umano e solleciti, quindi, ad allargare questa cura “integrale” all’universalità?

2. La disputa e la rivelazione (vv. 10-18)

Il tono del testo cambia. L’annotazione “quel giorno era di sabato” – che dà inizio al nuovo sviluppo – lascia intendere che l’attenzione si sposta ora sul comandamento sacro del riposo sabbatico. Gli oppositori increduli di Gesù notificano subito al paralitico guarito che non gli è lecito portare la sua barella. A costoro non genera meraviglia e non suscita interrogativo la cura prodigiosa dedicata da Gesù a quest’uomo disperato: per essi l’unica preoccupazione è l’osservanza scrupolosa del precetto del riposo.

Di fatto Gesù è preoccupato di aprire alla riflessione religiosa quest’uomo, partendo da un’esperienza di felicità semplicemente umana; la guarigione è segno di una salvezza che si dà pienamente nella riconciliazione e in una conseguente vita nuova, libera dal peccato e dal giudizio divino: “non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”. San Francesco espliciterà l’effettiva preoccupazione non per la morte fisica, ma per quella al di fuori della salvezza annunciata dal Cristo1.

Per Gesù la cura della vita – di ogni vita umana sofferente e bisognosa – è al di sopra del sacro precetto del riposo. La sua parola di difesa giunge a rivelare il mistero profondo che sta all’origine di quella sua attività terapeutica che mette in questione il comandamento sabbatico: “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco”. Se Dio si riposa di sabato dalla sua attività creatrice, Egli però non cessa, anche di sabato, di esercitare la sua azione salvifica, e giudiziale, sul mondo intero a favore del suo popolo Israele. E se l’agire salvifico di Dio non è sottoposto al precetto del riposo sabatico, allora anche l’azione del Cristo, per rendere umanamente visibile e portare a compimento la sua opera, non è legata al precetto sabatico: Egli può proclamarsi “Signore del sabato” che è fatto a favore dell’uomo e della sua vita. È la rivelazione del mistero di Gesù: Egli opera come il Padre suo opera e il fondamento di questa identità funzionale sta nel rapporto singolare e unico con Dio. Lo affermano, nella forma di un’accusa, i suoi stessi avversari quando gli imputano di “chiamare Dio il suo proprio Padre” e di farsi “uguale a Dio”.

3.  Il riflesso umano del volto di Dio

Alla luce di questa straordinaria rivelazione, il racconto della guarigione del paralitico acquista una densità nuova. L’attenzione e la cura che Gesù ha riservato a quest’uomo disperato e frustrato, la restituzione di dignità, di parola, di possibilità di esprimere la propria interiorità, l’assoluta gratuità del suo agire, il dono di una vita risanata e riportata a quella bontà che esclude il peccato, con il suo carico di egoismi e di male: tutto questo è il riflesso umano del volto di Dio che si fa carico della cura integrale della vita di ciascuno e di tutti coloro che ai suoi occhi hanno la dignità di figli.

Quanti si affidano all’agire di Dio, rivelato in Gesù, non possono non accogliere con gioia e valorizzare, come segno, ogni gesto che esprime questa cura divina per la vita umana, da chiunque provenga. Non possono non farsi promotori – con la motivazione profonda a loro fornita dalla fede – di una cura della vita che diventi accessibile a tutti, in particolare ai più poveri e disperati. Non possono non impegnarsi perché questa cura per la vita arrivi a toccare non solo la dimensione della salute fisica, ma anche la restituzione della dignità umana e la relazione fondamentale di ogni uomo con il mistero di Dio.

In questa figliolanza totale e universale si radica il diritto alla cura di ogni persona umana: in ciascuno è il volto di chi è raggiunto dalla originaria forza creatrice di Dio e nessuno può chiamarsi fuori, né nella malattia, né come chiamato a prendersi cura. È la condizione umana la scaturigine del diritto alla cura: una condizione che comporta una doppia responsabilità: una cura rivolta a tutti, in qualsiasi Paese si abiti, perché ciascuno potrebbe dire quella parola “non ho nessuno che…”, e la responsabilità, dapprima personale e poi sociale e pubblica, che nasce dalla constatazione che l’opera della salvezza iniziata da Gesù ininterrottamente prosegue con le mani, sempre e ovunque contemporanee, di ciascun battezzato, di ciascun membro della Chiesa.

1 «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male» (San Francesco, Cantico delle creature).

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