Commento alle letture di domenica 7 Novembre 2021 – Carlo Miglietta

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LA VERA FEDE

Contro una religiosità formale

Questo brano è una dura requisitoria contro i pastori di Israele, sulla linea dei profeti, di Amos, Michea, Geremia, Isaia, ma è anche un grave ammonimento per tutti coloro che nella Chiesa hanno obblighi e responsabilità.

“La prima critica è diretta all’ambizione che si esprime nella ricerca di riconoscimento pubblico. È controverso se gli scribi utilizzassero un vestito lungo che li distinguesse (tallith). Forse il loro distintivo erano le frange vistose (cicith) che ornavano le estremità della veste. Si suppone che il primo seggio nella sinagoga fosse un posto di fronte agli reliquiari della Torah e riservato a personalità eminenti e ufficiali. Il posto d’onore al banchetto va cercato a tavola accanto al padrone di casa o all’ospitante (Lc 14,7-10). Più pungente è la seconda critica che stigmatizza l’avidità degli scribi. Non si capisce bene in che modo essi si appropriano dei beni delle vedove. Offrivano la loro consulenza giuridica ed esigevano in cambio un compenso esorbitante? Ancora più corrotta sarebbe la loro condotta se all’atto di sfruttamento si collega la loro lunga e ipocrita preghiera. Di Rabbi Aqiba (morto verso il 135) si diceva che quando pregava con la comunità lo faceva brevemente: quando pregava da solo per conto suo vi dedicava molto tempo…

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Gesù si siede di fronte al gazaphylakion, espressione derivata dal persiano gaza, cioè tesoro. Il termine può indicare sia la stanza del tesoro, che si trovava nella parte interna del tempio, precisamente nell’atrio delle donne, come pure le cassette delle offerte. Nella stanza del tesoro erano infatti disposte 13 cassette per le offerte, dalla forma di tromboni, una delle quali era destinata alle offerte volontarie. Queste ultime servivano soprattutto per l’allestimento degli olocausti che, in quanto sacrifici totali, erano quasi esclusivamente a beneficio di Dio… Molti ricchi offrono molto. Il termine chalcos deve essere riferito pertanto in senso generale al denaro, non soltanto alla moneta di rame. Il lepton, che corrisponde alla perutha giudaica, è la più piccola delle monete di rame. La vedova offre due lepta. L’equivalenza col quadrante traduce il valore di questa moneta trasportandola nel sistema monetario romano… Quel “due” non è casuale: avrebbe potuto dare una moneta sola, tenendo l’altra per sé. Una parallela storia rabbinica che viene continuamente citata narra di una povera donna che viene schernita dal sacerdote per la povertà della sua offerta, una manciata di farina. Al sacerdote viene detto da Dio nel sogno: «Non disprezzarla, perché è come una che ha sacrificato se stessa». Il parallelo è in grado di far luce sullo sfondo psicologico della situazione del povero. Del resto il giudaismo rabbinico giudica come Gesù nella nostra storia” (J. Gnilka).

Eppure queste parole noi le abbiamo prese un po’ per scherzo, perché anche noi nella chiesa abbiamo i nostri Pastori spesso che portano vesti speciali, che si fanno chiamare reverendo, monsignori, eccellenza, eminenza, che vengono portati ai posti di onore.

Gesù invece non faceva così: Gesù era un laico, banchettava con i peccatori e i pubblicani, opera in incognito, rifiuta una rivelazione come Messia potente, sfugge l’applauso delle folle: allora guai (v. 40) a quelli che hanno una religiosità formale, a quelli che pregano, che si dicono Chiesa, e poi non praticano la giustizia, non praticano il soccorso agli ultimi, di cui la vedova, donna senza marito, è il prototipo.

Anche la religione può diventare peccato, anche la preghiera può diventare ostentazione: c’è il continuo richiamo all’interiorità, alla semplicità, ma soprattutto alla “kenosis”, allo svuotamento, allo scegliere l’ultimo posto sull’esempio del Maestro.

“Il brano evangelico ci testimonia un attacco molto duro di Gesù verso gli scribi e i farisei, diventati nel mondo cristiano figure tipologiche, che incarnano perfidia, ipocrisia, orgoglio. Attenzione però, perché qui si richiede da parte nostra un esercizio ermeneutico sapiente, che sappia anche essere «giusto».

Gli scribi erano gli esperti delle sante Scritture, uomini che fin dall’infanzia si dedicavano alla lettura e allo studio della tradizione di Israele; giunti poi all’età matura, diventavano persone autorevoli, rabbini, «maestri», dotati di poteri giuridici nelle diverse istituzioni giudaiche. I farisei – l’abbiamo sottolineato altre volte – erano invece un «movimento ecclesiale», un gruppo che con zelo cercava di vivere la Legge di Mosè e la precettistica elaborata dai padri rabbinici. Erano semplici fedeli, appartenenti al popolo, e rappresentavano una componente forte, molto presente e anche missionaria all’interno di Israele. Certamente gli scribi e anche alcuni farisei furono avversari di Gesù, ma la polemica di Gesù, riattualizzata dagli evangelisti in un contesto di aspro confronto e di persecuzione dei cristiani, ritenuti dai farisei una setta eterodossa, riguardava soprattutto la loro postura di «persone religiose». Nel riprendere questa polemica gli evangelisti intendevano inoltre denunciare quelli che nella chiesa cristiana avevano ormai assunto lo stesso stile. Si faccia dunque attenzione a non finire per leggere i vangeli in modo antigiudaico: non tutti gli scribi erano arroganti, non tutti i farisei erano ipocriti, anzi a volte i vangeli testimoniano di scribi vicini al regno di Dio (cfr  Mc 12,34) e di farisei retti e giusti che sono stati ben disposti verso Gesù (cfr Lc 13,31).

Sì, c’è stato un conflitto aspro, ma Gesù oggi potrebbe rivolgere gli stessi duri avvertimenti a tanti ecclesiastici… Basta leggere con attenzione le parole rivolte da Gesù alla folla, che si potrebbero così parafrasare e attualizzare: «Diffidate degli scribi, degli esperti di Bibbia e di teologia! Quando escono, appaiono con vesti lunghe, filettate, addirittura colorate, indossano abiti sgargianti, si ornano di catene, di croci gemmate e preziose, cercano i volti di chi passa per essere salutati e riveriti, senza discernere le persone nel loro bisogno e nella loro sofferenza: volti che non sono guardati, ma chiamati a guardare! Nelle assemblee liturgiche hanno posti eminenti, cattedre e troni simili a quelli dei faraoni e dei re, e sono sempre invitati ai banchetti di potenti». Davvero queste invettive di Gesù sono più che mai attuali: sono parole che dovrebbero farci arrossire e spingerci a interrogarci nel cuore su dove siamo finiti…

Quando si adotta questa postura di arroganza, si assume inevitabilmente uno stile che chiede ammirazione, che desidera adepti, che esige applausi da parte di persone devote. Per mantenere un tale atteggiamento occorre poi avere molto denaro, e così si finisce per divorare le case delle vedove ed esigere soldi proprio da parte dei più poveri, soldi derubati! È stato così ed è ancora così qua e là nella chiesa, e ognuno di noi in cuor suo conosce in quali modi, magari diversi da quelli stigmatizzati da Gesù, è tentato di apparire, di mostrarsi, di ricevere riconoscimenti e applausi anche nella vita ecclesiale! Non possiamo qui non rendere testimonianza a papa Francesco per i suoi richiami e i suoi sforzi in vista di una chiesa povera, nella quale «i primi», quelli che governano o presiedano, non ricadano nei vizi degli uomini religiosi, che chiedono agli altri di dare gloria a Dio dando gloria proprio a loro, che si pensano suoi rappresentanti…

Gesù fa questi discorsi nel tempio, di fronte alla sala del tesoro, dove i fedeli, i pellegrini saliti a Gerusalemme, mettono le loro monete in «cassette per le offerte». Come sempre, Gesù osserva, vede, comprende e discerne: sa cosa accade accanto a sé, è vigilante e trae dalla concreta realtà lezioni di vita. Qui che cosa vede? Nota che ci sono alcuni che mettono grandi somme di denaro: sono i ricchi, quelli che senza grande fatica e senza privarsi di qualcosa di essenziale, nella loro devozione possono mettere anche molto denaro nel tesoro del tempio. Anche di questo abbiamo avuto e abbiamo esperienza nella chiesa. Solo cinquant’anni fa i primi banchi in chiesa avevano la targa in ottone con incisi i nomi dei ricchi che avevano fatto grandi offerte, e quei banchi erano loro riservati. E i poveri? In fondo alla chiesa, in piedi, perché anche le sedie messe a disposizione erano a pagamento. Nulla di nuovo dunque!” (E. Bianchi).

La Chiesa “casta meretrix”

La Chiesa è “casta meretrix”, come dicevano i Padri, santa e peccatrice: è santa perché Cristo l’ha “purificata per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola” (Ef 5,26-27): ma in essa c’è “chi si dice fratello, ed è impudico o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro” (1 Cor 5,9-13).

A questa Chiesa Gesù chiede che nessuno in essa si faccia chiamare “Rabbi” (letteralmente: “mio grande”, “Magno”), né “Padre”, né “Maestro” (“katheghetès” riflette il rabbinico “moreh”), perché Gesù è l’unico Signore e “voi siete tutti fratelli” (Mt 23,9-10).

Una delle caratteristiche degli ultimi Papi è la loro costante predicazione contro i peccati della Chiesa. Diceva già Benedetto XVI: “Sul volto di questa Chiesa non mancano purtroppo delle rughe, delle ombre che ne offuscano lo splendore” (Colonia, Giornata Mondiale della Gioventù); “Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza…! Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore… Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano… Abbi pietà della tua Chiesa!” (“Via crucis” del Venerdì Santo).

Scrive Papa Francesco nell’“Evangelii gaudium”: “Paolo VI invitò ad ampliare l’appello al rin­novamento, per esprimere con forza che non si rivolgeva solo ai singoli individui, ma alla Chie­sa intera. Ricordiamo questo testo memorabile che non ha perso la sua forza interpellante: «La Chiesa deve approfondire la coscienza di se stes­sa, meditare sul mistero che le è proprio… De­riva da questa illuminata ed operante coscienza uno spontaneo desiderio di confrontare l’imma­gine ideale della Chiesa, quale Cristo vide, volle ed amò, come sua Sposa santa ed immacolata (Ef 5,27), e il volto reale, quale oggi la Chiesa presenta… Deriva perciò un bisogno generoso e quasi impaziente di rinnovamento, di emenda­mento cioè dei difetti, che quella coscienza, qua­si un esame interiore allo specchio del modello che Cristo di sé ci lasciò, denuncia e rigetta» (Ecclesiam suam, n. 10). Il Concilio Vaticano II ha presentato la conversio­ne ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo: «Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzial­mente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazio­ne… La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (Unita­tis redintegratio, 6)” (Evangelii gaudium, n. 27).

Radicalità nella sequela

E infine c’è il bellissimo brano della piccola offerta di una povera vedova (vedi Lc 21,14). La vedova è il resto di Israele: la vedova è l’Israele fedele, cui sarà tolto lo Sposo (2,20) e il Tempio (Lam 1,1), ma che dà a Dio tutto (v. 44: hólon tòn bíon autês; letteralmente: “Tutta la sua vita”); dai poveri, dagli ultimi, dobbiamo prendere lezione per entrare nel Regno di Dio; e la povertà è condizione indispensabile per dare a Dio “tutta la nostra vita”.

Questo racconto è strettamente collegato al precedente: il comportamento degli scribi e dei dottori della legge e il comportamento della vedova povera. I discepoli sono invitati a confrontarsi e a riconoscersi. È su di lei che Gesù richiama l’attenzione dei discepoli con parole che il Vangelo riserva per gli insegnamenti più importanti: “In verità vi dico…”. Gesù ha trovato un gesto autentico e vuole che i discepoli lo imparino. Ciò che l’ha colpito non è soltanto l’assenza di ostentazione, ma soprattutto la totalità del dono: non ha dato il superfluo, ma “tutta la sua vita”.

Questa vedova è l’esempio della vera religiosità giudaica, che Gesù aveva cercato invano nel tempio, è il frutto buono che Gesù aveva cercato invano sul fico da lui definito fico secco. 

Ella dà a Dio tutto quello che ha, tutti i suoi spiccioli, non ne tiene neanche uno per sé. La Parola nel testo Biblico è veramente forte: “dà tutta la sua vita”! Il racconto dell’obolo della vedova non è la parabola del “basta poco”: è la parabola del “dare tutto”, del dare tutta la propria vita. La povertà è ancora una volta la condizione indispensabile per dare a Dio tutta la nostra vita, mentre noi invece che siamo ricchi, che magari diamo a Dio molte cose, in realtà diamo a Dio il superfluo, e non tutta la nostra vita. Dio, amante geloso ed insaziabile, ci indica che ci vuole tutti per sé, e indica la strada della povertà, delle rinunce alle sicurezze economiche, come la via obbligata per seguirlo.

Questa donna è il vero scriba saggio del Nuovo Testamento: essa ha tutto e dà tutto per entrare nel Regno. Al giovane ricco Gesù aveva detto: “Bravo, hai osservato i comandamenti sin dalla nascita; una sola cosa ti manca; va’, vendi tutto” (Mc 10,17-21); precedentemente abbiamo visto il comandamento più grande: anche lì mancava ancora qualche cosa (Mc 12,34). A questa donna invece non manca più niente, è oramai vicina al Regno di Dio, è colei che ha gettato tutto, è colei che ha dato tutta la sua vita per Dio.

“Beati i poveri, perché di essi è il Regno di Dio”

C’è qui un richiamo forte alla totalità della sequela dei Signore, ancora una volta la radicalità del seguire Cristo, ma c’è anche un altro richiamo: Dio, dirà Paolo in 1 Cor 1,27-28, “ha scelto ciò che è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto quelli che gli uomini considerano ignoranti, per coprire di vergogna i sapienti, ha scelto quelli che gli uomini considerano deboli, per distruggere quelli che si credono forti. Dio ha scelto quelli che, nel mondo, non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa”.

“Gesù però vede e discerne tra tutti una donna – per di più vedova –, cioè una persona che non conta nulla in un mondo dominato da uomini, che sentono anche il tempio come qualcosa che appartiene a loro: le donne, infatti, non facevano assemblea davanti a Dio come loro e con loro. Questa povera donna avanza tra molti altri, nella sua umiltà, e sembra che nessuno possa notarla. Gesù invece la nota e la addita tra tutti come «la vera offerente», la vera persona capace di fare un dono, di dare gloria al Signore. Costei getta solo due spiccioli, due piccole monete, ma ecco che Gesù commenta il suo gesto. E lo fa in modo solenne, introducendo le sue parole con: «Amen», cioè: «È così, è la verità e io ve la dico». «Amen, io vi dico: questa povera vedova ha gettato nella cassetta delle offerte più di tutti gli altri. Tutti, infatti, hanno preso dal loro superfluo; lei, invece, nella sua povertà, ha dato tutto quello che aveva, tutto quello che aveva per vivere (hólon tòn bíon autês; alla lettera, ‘tutta la sua vita’)». Questa vedova non dà, come gli altri, briciole di ciò che possiede; non dà l’offerta senza che ne consegua per lei una sofferenza; non offre denaro di cui non ha affatto bisogno, perché ne ha tanto in più: no, questa donna si spoglia di ciò che le era necessario per vivere, di tutto ciò che aveva, non di una sua porzione minima. Questa donna è per Gesù un’immagine dell’amore che sa rinunciare anche a ciò che è necessario: ecco una donna anonima, ma una vera discepola di Gesù. In questa pagina del vangelo il contrasto diventa ancora più forte: scribi che divorano le case delle vedove perché donne (non divorano le case dei vedovi!), perché povere, non difese da nessuno; e, al contrario, una di queste che dà in sacrificio al Signore ciò di cui lei ha bisogno per vivere, spogliandosi oltre misura.

Oggi quando parliamo di «chiesa dei poveri» dovremmo fare memoriale di questa donna, discepola di Gesù nella chiesa dei poveri da lei inaugurata, e dovremmo interrogarci su cosa diamo a quelli meno muniti di noi, ai più poveri. Noi che facilmente buttiamo via il cibo, qualche volta diamo ai poveri qualcosa che ci costringe a sentire un bisogno, a fare a meno di ciò che ci piacerebbe possedere o consumare? Si fa troppo presto a dire «chiesa povera» o «di poveri»: ne facciamo parte o ne siamo esclusi?” (E. Bianchi).

I poveri ci evangelizzano

Questa donna, nella sua povertà, dà un esempio di radicalità nel dono al Signore. Gesù chiama a sé i discepoli per imitare questa povera donna, per indicarci che è dai poveri, dagli umili, dagli ultimi che dobbiamo prendere lezione per entrare nel Regno dei Cieli.

Anche noi siamo in questo momento convocati da Dio che ci indica questa donna che ha dato tutta la sua vita come esempio per staccarci dai nostri beni, dalle nostre posizioni, dalle nostre reticenze, per dire totalmente “sì” nell’amore a questo Dio che chiede a noi un amore totale.

Rispondere alla chiamata alla condivisione con i poveri apparentemente sembra un dono fatto a loro. Ma in realtà sono i poveri che colmano i credenti di una ricchezza ben più profonda e piena di quella che questi con essi spartiscono. Se il regno di Dio è dei poveri (Lc 6,20), è alla loro scuola che bisogna mettersi per potervi accedere. Non dimentichiamo mai questo mistero: sono essi i maestri per entrare in quella beatitudine che è “loro” (Lc 6,20). “La storia dei poveri sembra rovesciarsi…  I senza voce parlano e mettono in discussione la maniera di essere cristiani, di essere sacerdoti o vescovi… I poveri diventano evangelizzatori… «Essi sono i soli a poter dire una parola di fede senza la quale il messaggio resterà troppo incompleto» (E. Grangier)… «E’ ai piccoli, a coloro che non possono parlare o che non li si lascia parlare, che è data la parola da Dio, perché essi annuncino il suo regno. La follia della croce è morte per l’intelligenza dei saggi, di coloro che non capiscono la parola. Una riflessione sulla fede che non passi attraverso questa follia, questa morte, e anche per la rivelazione ai poveri, sbaglia strada» (G. Gutierrez). E la chiesa dei poveri, la parte più martire dell’unica chiesa, diviene evangelizzatrice e missionaria. «Perché la povertà è come una grande luce in fondo al cuore» (R. M. Rilke)” (A. Persic).

Scriveva monsignor Bello, citando la lettera pastorale di un Vescovo della Patagonia, monsignor Hesayne: “«Desde los pobres a todos», cioè: dai poveri a tutti!… È un atto di fede nell’imprevedibilità del nostro Dio che, per annunciare e realizzare le sue meraviglie, non utilizza necessariamente truppe scelte, sfornate dall’accademia, ma si serve degli straccioni, dei diseredati, della gente che non conta e che viene disprezzata. Proprio questa gente, questa accozzaglia di ultimi, ha il compito e il privilegio di annunciare ai primi che la salvezza è vicina”. Solo alla scuola dei poveri si può imparare la sequela di Colui che è diventato il Povero per eccellenza (2 Cor 8,9).

E oggi più che mai, al nostro Occidente opulento e triste, supertecnologico e privo spesso di sapienza, i poveri hanno tante cose da insegnare, tanti valori che abbiamo perduti. L’Africa ci insegna l’amore per la natura, la vita, gli antenati, il senso della festa. L’Asia e l’Oceania la ricerca dell’assoluto di Dio, della pace interiore, dell’armonia, la gratuità. L’America Latina l’attenzione agli ultimi, la lotta per la giustizia, il senso della vita comunitaria e della condivisione. E tanti poveri anche nei Paesi ricchi sono per noi maestri di semplicità, di essenzialità, di saper godere delle piccole cose, di solidarietà reciproca.

“E’ stando con i poveri e lasciandoci convertire da loro che si può sentire, nel frastuono del consumismo, dell’arrivismo, della competizione, la voce di Dio che parla nella voce e nella carne degli scartati dalla nostra economia. Dio sta dove nessuno penserebbe di trovarlo: nella passione dei poveri; e in loro e con loro vuole costruire il suo Regno” (A. Agnelli).

Carlo Miglietta


Il commento alle letture di domenica 7 novembre 2021 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.