Commento alle letture di domenica 6 Giugno 2021 – Carlo Miglietta

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La preparazione della Pasqua: 14,12-16

Riguardo alla data della morte di Gesù, i Vangeli Sinottici affermano l’ultima cena tra il 14 e il 15 (Mc 14,12 e par.) e la crocifissione venerdì 15 Nisan, primo giorno della Pasqua che durava dal 15 al 21 Nisan. Per Giovanni, Gesù fu crocifisso il giorno di Parasceve (la preparazione del sabato di Pasqua), cioè il 14 Nisan, nell’ora in cui si immolavano gli agnelli (19,14.31-37.42): Gesù e i suoi avrebbero seguito il calendario in uso a Qumram e presso gli Esseni, che poneva la cena pasquale sempre di martedì e la Pasqua sempre di mercoledì, e Gesù sarebbe poi morto di venerdì, cioè la vigilia della Pasqua secondo il calendario ufficiale.  

Perché si afferma che Gesù si serviva del calendario degli Esseni? Per una particolarità. Quando Gesù vuole preparare la Pasqua, si dice: “Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo” (Mc 14,13): un ebreo osservante del Tempio non avrebbe mai portato una brocca di acqua: sarebbe stata un’azione impura. Andare a prendere acqua, infatti, era compito solo delle donne. Invece gli esseni erano più… democratici, e avevano già una certa parità: secondo i testi di Qumram, anche gli uomini facevano questi lavori femminili. Se Gesù chiede ad un esseno (che era caratterizzato in quanto faceva queste cose, che gli ebrei ufficiali non avrebbero mai fatto) di preparare il luogo, con tutta probabilità Gesù segue questo il loro calendario. 

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Ma qui c’e anche un riferimento di tipo battesimale. La brocca piena di acqua è simbolo del Battesimo che porta all’Eucarestia. 

E’ molto importante riflettere sul simbolo della stanza. La stanza di Dio non è oramai più il Tempio ma è l’Eucaristia. Il luogo dove è presente IHWH, non è più il Santo dei Santi, ma sarà il pane e il vino dati per tutti.

L’istituzione dell’Eucarestia: 14,22-25

L’Eucarestia “mimo” profetico

Farsi mangiare dagli uomini: Quando Gesù istituisce l’Eucarestia, opera anzitutto un mimo profetico. Quanto compie nell’ultima cena è “l’ultima parabola di Gesù” (J. Jeremias). Porgendo il pane, dice: “Questo è il mio corpo dato per voi”; offrendo il calice: “Questo è il mio sangue, versato per voi” (Lc 22,19-20): il primo significato di questa azione è che egli si è donato totalmente agli uomini, che la sua vita è stata oblazione piena per la vita dei fratelli, che si è interamente consumato per essi, e che egli è diventato, offrendosi per loro come il pane e il vino, il loro sostegno e la loro sopravvivenza. “Davanti ai suoi discepoli Gesù fa un mimo della sua morte, rappresentandola davanti a loro; è l’atteggiamento di un profeta e di un martire che porta la missione fino al suo compimento” (A. Marchadour).

La volontarietà del dono: Due sono le sottolineature che Gesù vuole dare al suo gesto. La prima è l’assoluta volontarietà del suo donarsi: il suo farsi uomo fino alla morte non è dato dall’ineluttabilità del caso, ma è sua libera scelta d’amore (Gv 10,18). Gesù accetta quindi volontariamente fino in fondo la sua condivisione con l’uomo: non si tira indietro, non fugge. Deliberatamente si offre. “Per questo nell’Ultima Cena «se dat suis manibus» la sua Passione sarà il Corpo dato e il Sangue versato da lui” (A. Bozzolo).
La totalità del dono: Il secondo aspetto del mimo profetico è l’assoluta totalità del suo donarsi: Cristo, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1), fino al supremo compimento dell’amore, che è dare la vita per coloro che si amano (cfr Gv 15,13): il pane mangiato e il vino bevuto sono il segno di questo “consumarsi” per i suoi, farsi tutto per essi.
Il comando di imitare Gesù: Due comandi accompagnano l’azione profetica: il primo è: “Prendete, mangiate…; bevete” (Mc 14,22; Mt 26,26.28): i discepoli non sono solo oggetto passivo di questa autodonazione del Cristo, ma sono invitati a prenderne parte attiva, a partecipare al suo amore, ad accettare la sua vita come dono, a riempirsi consapevolmente e responsabilmente di lui. Da questo nasce il secondo comando: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1 Cor 11,24): Gesù ordina che anche i suoi discepoli si facciano pane e bevanda per gli altri, divengano cibo per tutti, si lascino “mangiare” dai fratelli.
L’importanza del mimo eucaristico: Nella lettura biblica del mimo il primo significato è quindi l’invito al dono totale agli altri, sull’esempio del Maestro. Gli altri significati (la presenza reale di Cristo, il sacrificio della Nuova Alleanza, un segno escatologico…), ci sono certamente, ma sono a questo secondari e da questo traggono luce e comprensione.

“Carne e sangue”

“Basar” e “wadam”, carne e sangue, erano anche le due parti del sacrificio dell’Alleanza, della nuova Alleanza annunciata dai profeti ma soprattutto da Geremia (Ger 31,31-34). Ormai non ci sono altre vittime sacrificali da offrire, non ci sono più agnelli da immolare; Gesù è colui che si è immolato per noi, e ci ha riconciliati in maniera definitiva con il Padre.

La simbologia del vino ha caratteri molto complessi nella letteratura biblica. Rinveniamo infatti numerosi riferimenti al vino, sia nella Bibbia ebraica che nel Nuovo Testamento. Nel libro del Genesi Noè è ricordato come fondatore della viticoltura, ed anche come colui che per primo sperimentò gli effetti inebrianti del vino (Gen 9,20-21).

E’ “importante notare che l’invenzione del vino si colloca subito dopo il brano in cui Dio stabilisce la sua alleanza con Noè e tutti gli esseri viventi, e l’alleanza è promessa di vita per l’umanità – non vi saranno più diluvi di acque a distruggerla – il cui segno è l’arcobaleno” (M. Donà).

Questa promessa di vita culminerà con la grande alleanza tra Dio e gli uomini suggellata nel sangue di Cristo. Simbolo di tale patto è proprio il vino. Forse non è un caso che l’esperienza terrena di Gesù si apra col miracolo della trasformazione dell’acqua in vino durante le nozze di Cana (Gv 2) e si chiuda con l’ultima cena, dove il vino è eminentemente presente come simbolo del sacrificio di Cristo, della nuova alleanza tra Dio e gli uomini in quel sangue (Mc 14,24). Questo atto di Cristo ha nella Bibbia un antecedente famoso. Si tratta dell’incontro tra Melchisedek, re di Salem, e Abramo, capostipite del popolo ebraico, che torna vittorioso da una certa battaglia fatta per liberare suo nipote Lot. Melchisedek “sacerdote del Dio altissimo” gli si fa incontro per offrirgli “pane e vino” e benedirlo (Gen 14,18-20).

Per l’autore del Genesi l’offerta del pane e del vino presentata ad Abramo era segno di sacra ospitalità: accoglienza, sicurezza, permesso di transito. Il Nuovo Testamento, soprattutto la lettera agli Ebrei, presenta Melchisedek come una prefigurazione di Cristo Gesù, vero Sommo Sacerdote che offre il proprio corpo e il proprio sangue simboleggiati dal pane e dal vino.

Nella tradizione cristiana presentata nel Nuovo Testamento il vino conserverà sempre questo simbolismo alto, connesso alla salvezza e alla vita. Numerosi sono pure i riferimenti alla simbologia della vite. Ecco alcune significative espressioni che troviamo sulla bocca di Gesù: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo… Io sono la vite e voi siete i tralci” (Gv 15,1). Nel Nuovo Testamento la vite rappresenta dunque il Cristo, Colui dal quale i tralci traggono linfa vitale. I tralci sono i discepoli Suoi, che a Lui debbono restare intimamente legati, proprio come tralci alla vite! Se questi tralci rimangono attaccati bene alla vite, porteranno molto frutto; Gesù è per essi via, verità, vita, per cui al motto latino: “in vino veritas”, il Vangelo risponde con: “Jesus veritas”.

Il vino, nel suo significato traslato, è non soltanto simbolo di vita e di salvezza, ma anche d’amore. Nel Cantico dei Cantici, uno dei testi poetici più alti della Sacra Scrittura, il vino diviene infatti il suggello dell’unione d’amore tra l’amato e l’amata. Non è un caso che la prima parola del Cantico dei Cantici sia proprio quella che descrive un bacio inebriante, accompagnato da “tenerezze più dolci del vino”: “Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino…  Attirami dietro a te, corriamo! M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino. A ragione ti amano!” (Ct 1,2-4). Ardore ed ebbrezza si fondono in questi versi, rendendo così tutta l’estasi dei due sposi, protagonisti del Cantico, avvolti in una rete sottile, simile a quella prodotta dal vino. La soavità del vino è il paragone più usato nel Cantico per esprimere l’ebbrezza dell’amore. Il primo felice incontro dell’amante con l’amata è proprio nella “cella del vino”: “Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore. Sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi con pomi, perché io sono malata d’amore” (Ct 2,4). È noto che nell’antichità la “cella del vino” era una sorta di cantina dove si conservava il vino, ma era al tempo stesso anche una capanna usata per la vendemmia, e poteva anche essere una sala dove abbandonarsi a gustare cibi annaffiati con generosi vini. Nel Cantico la “cella del vino” è la camera nuziale dove gli sposi celebrano il loro convito d’amore. Le “focacce all’uva” sono il sostenimento che la donna chiede. Erano considerate dagli orientali come un potente afrodisiaco, ma erano anche offerte votive per ottenere la fecondità. Oltre alle focacce la donna chiede anche delle mele, che erano, secondo una credenza diffusa ancora oggi tra gli arabi, uno dei rimedi contro l’impotenza.

L’altra bellissima scena connessa al simbolo “vino ed ebbrezza” è presentata nel Cantico al capitolo 7, dove l’amata esorta il suo amante a condurla nelle vigne; qui ella gli darà il “suo amore”: “Il tuo palato è come vino squisito, che scorre dritto verso il mio diletto e fluisce sulle labbra e sui denti! Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me. Vieni, mio diletto, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo alle vigne; vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò il mio amore” (Ct 7,3-10). Il poeta coinvolge nell’ebbrezza d’amore, che pervade tutto il libro, non solo il gusto, ma anche l’odorato, in una continua e crescente esaltazione di profumi, spezie e aromi. Come afferma Ravasi, “vino e cibo diventano simboli destinati ad esaltare il trionfo dell’amore che trasfigura l’essere intero dell’uomo e della donna”. Olfatto e gusto si mescolano, dunque, in questo libro e diventano i più potenti veicoli con i quali suggellare il trionfo dell’amore.

Non è un caso che l’Eucarestia sia istituita all’interno di un banchetto e come tale venga celebrata fin dall’inizio della Chiesa: “Spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore” (At 2,42-48). Secondo molti studiosi, le stesse anafore eucaristiche a noi pervenute dalla prima comunità cristiana si modellerebbero sulla “Birkat-ha-Mazon”, la benedizione finale che concludeva ogni pasto ebraico e che si articolava in tre parti: una breve benedizione (“Benedetto sei tu, Signore, che nutri il mondo intero…”), un solenne rendimento di grazie per i doni di Dio ad Israele, una preghiera di intercessione piena di fiducia in Dio, che sempre colmerà il suo popolo delle sua grazie. I primi cristiani dicevano di sé, presentandosi ai pagani: “Aras non habemus”, “Noi non abbiamo altari”, sottolineando la mancanza nel cristianesimo del sacrificio tradizionale, sostituito dal banchetto eucaristico. Non c’era all’inizio l’altare, c’era solo la tavola. L’aspetto conviviale è primario per la comprensione dell’Eucarestia.

L’Eucarestia cibo per la vita

Mangiare è indispensabile per vivere: l’Eucarestia è cibo per la vita: “Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete… Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda»” (Gv 6,35.48.51.55). 

L’Eucarestia ci assimila a Cristo

Per gli ebrei, il cibo non diventava la persona che lo mangia, ma la persona che mangia diventa come il cibo ingerito: ecco perché c’era tanta attenzione ai cibi “puri” e a quelli “impuri”.  Il pane e il vino eucaristici che mangiamo non diventano quindi parte di noi, ma noi diventiamo il Cristo stesso che mangiamo. Mangiando del pane e bevendo del vino eucaristico ci si “cristifica”, ci si trasforma nel Signore: “Gesù disse: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno»” (Gv 6,53-54.56-57). Nutrendoci di Cristo diventiamo lui! Diceva Massimo il Confessore (580-662): “L’Eucarestia trasforma i fedeli in se stessa”. 

L’Eucarestia “pasto di comunione” con Dio

Nell’Antico Testamento spesso si parla dei “pasti di comunione”. L’Eucarestia è momento di incontro con Dio, di intimità con lui: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?” (1 Cor 10,16.18). Ma è poi momento di profonda comunione non solo con il Signore che ci invita al banchetto, ma anche con tutti i convitati. “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,17). L’Eucarestia è momento comunitario per eccellenza. E’ il raduno dei fratelli intorno all’unica mensa. L’Eucarestia non è un sacramento individuale: esso è sempre occasione di incontro di alleanza vera con gli uomini, di solidarietà con loro. Farne un intimistico appartarsi con il Signore senza vivere questa esperienza insieme a tutta la Chiesa e a tutto il mondo è snaturare l’irrinunciabile significato conviviale dell’Eucarestia.

L’Eucarestia  annuncio del Veniente         

L’Eucarestia, mentre è proclamazione del primo avvento del Signore, è anche annuncio della sua seconda e definitiva venuta: “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1 Cor 11,26). Ecco perché nella liturgia eucaristica dei primi cristiani risuonava proprio il grido: “Maranatha! Vieni, o Signore!” (1 Cor 16,22). Nell’Eucarestia noi non adoriamo un cadavere, ma colui che è il Vivente oggi e sempre.

Scrive Giovanni Paolo II: “Colui che si nutre di Cristo nell’Eucaristia non deve attendere l’aldilà per ricevere la vita eterna: la possiede già sulla terra, come primizia della pienezza futura, che riguarderà l’uomo nella sua totalità. Nell’Eucaristia riceviamo infatti anche la garanzia della risurrezione corporea alla fine del mondo: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54)… Con l’Eucaristia si assimila, per così dire, il «segreto» della risurrezione. Perciò giustamente sant’Ignazio d’Antiochia definiva il Pane eucaristico «farmaco di immortalità, antidoto contro la morte»” (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 2003, n. 18).

Carlo Miglietta

Da: C. MIGLIETTA, EDIFICHERO’ LA MIA CHIESA. Perché (e come) essere Chiesa secondo la Bibbia, Gribaudi, Milano, 2010, con presentazione di S. E. Mons. Guido Fiandino