Commento alle letture di domenica 5 novembre 2017 – don Mauro Orsatti

Interpretare i testi: Attenzione alle deformazioni e strumentalizzazioni religiose!

La religiosità è un ganglio vitale della persona, perché esprime il bisogno di aprirsi all’Altro, al trascendente. La concretizzazione di questa esigenza interiore può passare da canali inquinati o poco chiari. Non ogni legame con la divinità è corretto e costruttivo. Possono giocare diversi fattori, poco nobili e persino iniqui. Le letture di oggi mostrano le due possibilità, quella negativa e quella positiva.

Lo sferzante discorso di Gesù contro i farisei mostra come si possa impostare male il rapporto con Dio e, di conseguenza, con gli altri. Le sue parole servono a smascherare falsi atteggiamenti, che possono trasformarsi in esempi dalle conseguenze devastanti (vangelo).

            La situazione non è nuova. Il pericolo di uno scorretto rapporto con Dio attraversa tutta la tradizione biblica a partire dall’uscita dall’Egitto quando il popolo si lamentava continuamente. Saranno soprattutto i profeti a richiamare le esigenze dell’alleanza e a denunciare i comportamenti sbagliati di coloro che dovevano essere le guide del popolo. Molte volte gli uomini del culto sono criticati con l’intento di richiamarli ai loro doveri di guide spirituali. Anche la voce di Malachia svolge questa funzione, usando toni forti, ma pure carichi di speranza per un pronto ravvedimento (prima lettura).

            A fronte di insegnamenti negativi e di persone che devono essere richiamate ai loro doveri, ce ne sono altre che svolgono in modo egregio la loro paternità spirituale. Paolo è un bell’esempio di pastore esemplare e ci parla con cuore aperto della sua donazione apostolica, pronto a sacrificarsi per la sua gente, che ama con il cuore di Dio (seconda lettura).

Vangelo: Giù la maschera!

Una impietosa requisitoria contro scribi e farisei è reperibile nel capitolo 23 di Matteo. Gesù associa volentieri scribi e farisei, non perché si amassero tra di loro, ma perché erano in combutta quanto a volontà di opprimere il prossimo. Li aveva appena mortificati con una domanda imbarazzante: «Che pensate del Messia? Di chi è figlio? […] risposero: “di Davide” […]. Se dunque Davide lo chiama “Signore”, come può essere suo figlio?» (Mt 22,41-45). Il silenzio sigilla quelle bocche presuntuose: «Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò interrogarlo » (Mt 22,46).

            Perciò è Gesù che parte all’attacco non più rivolgendosi ai farisei avversari, ma ai discepoli e alle folle. Marco osserva argutamente che «la numerosa folla lo ascoltava volentieri» (Mc 12,37b). Infatti c’è modo e modo di insegnare. Il legittimo diritto acquisito di sedere sulla “cattedra di Mosè” non dà ancora agli scribi e farisei la garanzia della autenticità dell’insegnamento: se per autenticità si intende abbinamento armonico di teoria e pratica: «Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno» (v. 3). E si accontentassero di riconoscere umilmente la loro incoerenza! Hanno piuttosto questa spudoratezza: «legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4). Si sa bene che gli scribi sono professionisti della legge, gente altamente influente sull’educazione e sull’esercizio del potere giudiziario. I farisei non sono da meno: anch’essi hanno grande competenza della Torah, ma soprattutto sono strenui difensori della Tradizione: si considerano i “puri” nella società, aggrappati ad un fondamentalismo rigoroso che non lascia spazio di manovra di fronte al dettame della legge, senza appello per la debolezza del comune fedele.

            Rimprovera loro l’ostentazione: «Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini » (v. 5). Il giudizio di Dio che agisce dal di dentro non li tocca. La loro presunta religiosità è testimoniata da rotolini scritturistici più lunghi del normale, ben custoditi e schiacciati sulla fronte davanti agli occhi e attraverso il braccio sul cuore. I loro abiti poi portavano le frange d’ordinanza più allungate con il vistoso filo di rosso porpora o viola o azzurro che le caratterizzava nella loro funzione evocativa: «Si facciano delle frange alle estremità dei loro abiti e mettano alle frange dell’estremità un filo di porpora: […] così vi ricorderete di tutti i precetti del Signore» (Nm 15,38.40).

            Consci della propria superiorità, desiderano che anche gli altri la riconoscano: da qui l’amore al primo posto ovunque, al saluto riverente e all’ambìto titolo di “rabbi”, dimenticando quanto dice il profeta: «Quando sarà giunta la pienezza dei tempi tutti saranno ammaestrati da Dio» (Ger 31,34).

            Quanto poi all’uso ed abuso del titolo di «padre» (v. 9) questi scribi e farisei non certo presumevano tanto, ma erano ostentatamente orgogliosi di avere come padre Abramo e con lui gli altri antenati: ciò per riaffermare l’assoluto attaccamento all’antico ordine di cose che ora viene decisamente sconvolto: Padre è solo il Dio creatore, redentore di tutti, senza distinzione di razza e di religione. E il Cristo è il solo maestro, guida alla giustizia: «Non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo» (v. 10).

            A quale titolo può allora aspirare il discepolo credente? «Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato» (vv.11-12). La dignità è direttamente proporzionale al servizio prestato; dignità ed esaltazione sono rapportati alla disponibilità al servizio: questo, almeno, secondo le categorie di Dio. La storia dei Santi lo dimostra.

            Il brano liturgico termina a questo punto e ce n’è abbastanza! Se volessimo continuare suoneremmo la stessa musica, trovandoli abili maestri in fatto di ipocrisia: come associare preghiere prolungate e latrocini a danno delle vedove, lo scrupolo per la minima tassa da versare alle istituzioni religiose e la più squallida insensibilità nei confronti di chi chiede giustizia e pietà, una rigorosissima applicazione della legge nei confronti del prossimo e la manica fin troppo larga con se stessi, secondo l’arguto paragone del filtro del moscerino e dell’ingestione tranquilla di un cammello?

Sarebbe troppo facile e comodo indirizzare gli strali di Gesù contro qualche personaggio della Chiesa o della nostra parrocchia. Avremmo forse soddisfatto una latente e inconscia sete di vendetta. Senza avvedercene, cadremmo in quella strumentalizzazione della religione che Gesù rimprovera ai farisei del suo tempo. La pagina evangelica mira a suscitare in noi sentimenti di conversione, più che sollecitarci a scoprire e a denunciare magagne altrui. Quanto Gesù denuncia per il suo tempo può ripetersi puntualmente ai nostri giorni se non stiamo attenti e non sorvegliamo i nostri sentimenti.

Anche noi ambiamo i primi posti, le presidenze o almeno il pubblico riconoscimento della nostra bontà, della nostra generosità, della nostro bravura. L’umiltà cristiana è per molti di noi una virtù probabilmente apprezzata, ma poco praticata. Questo non significa che se abbiamo una responsabilità in famiglia, in parrocchia o nella professione dobbiamo eluderla. Il modo giusto per adempiere i nostri doveri è espresso nella frase finale del brano: in ogni situazione dobbiamo metterci al servizio degli altri, con l’umiltà e l’amore di cui ci è di esempio Gesù.

Perciò è necessario che i nostri stessi gesti lascino trasparire la tenerezza di Dio nostro Padre. Allora i rapporti reciproci, siano essi tra genitori e figli, tra insegnanti e alunni, tra datori di lavoro e maestranze, non saranno fondati sull’autorità, quanto piuttosto sull’autorevolezza che viene da Dio nostro Padre.

Chi sono i Farisei?

Il nome deriva dalla parola ebraica perusim, che letteralmente significa “separati”, cioè i santi, la vera comunità di Israele. Con questo termine i farisei si distinguevano dalla gente comune, per il loro ideale di purità rituale e di scrupolosa osservanza della legge divina. L’aspetto religioso si unì ben presto a quello politico, cosicché il gruppo aveva una rilevanza sociale per diversi aspetti.

Storicamente i farisei si staccarono dal movimento asideo tra il 160 e il 150 a.C. Ciò avvenne perché, dopo la morte di Giuda Maccabeo nel 160 a.C., i farisei si rifiutarono di condividere con gli altri asidei l’imminente fine del tempo e si appoggiarono alla politica religioso-nazionale degli Asmonei. In questo senso, il termine «farisei» assume anche il significato di dissidenti o di secessionisti. Come gruppo, sono nominati per la prima volta al tempo dell’asmoneo Gionata (160-143). Giuseppe Flavio li cita insieme ai sadducei e agli esseni.

          La più antica attestazione biblica si trova in Fil 3,5, dove Paolo dice di se stesso: «fariseo quanto alla legge», un titolo di vanto che indica un forte attaccamento alla legge. Qualcosa di analogo testimonia Giuseppe Flavio, lo storico giudaico del primo secolo: «Un gruppo di giudei che hanno fama di essere più pii degli altri e di interpretare esattamente le leggi» (Bel. Jud., I,112).

            Secondo le cifre fornite da Giuseppe Flavio, i farisei al tempo di Erode il Grande – e quindi vicino al tempo di Gesù – oltrepassavano le 6.000 unità. Una cifra considerevole, se pensiamo che la popolazione di Gerusalemme ammontava a 25-30.000 abitanti, l’insieme dei sacerdoti e dei leviti ammontava a circa 18.000 persone e gli Esseni contavano 4.000 membri.

Sono soprattutto i Vangeli che parlano dei farisei, ottantasette volte, e quasi mai bene. Gesù li incrocia in diverse occasione e, più che di incontro, si dovrebbe parlare di scontro, perché i rapporti non furono tra i migliori. Non sembra tuttavia onesto equiparare sic et simpliciter fariseo a cavilloso interprete della legge e tanto meno a persona falsa. Di farisei sinceramente favorevolI a Gesù, sia pure con molta prudenza, conosciamo Nicodemo, un personaggio menzionato più volte da Giovanni. Attratto verso Gesù, quest’uomo prese l’iniziativa di recarsi da lui di notte ed ebbe con lui un colloquio personale (Gv 3,1-21); in seguito, nel Sinedrio, di cui era membro, difese Gesù con coraggio contro il parere di tutti (Gv 7,48-52); dopo la morte di Gesù, egli onorò il suo corpo con unguenti scelti e generosi e, insieme con Giuseppe di Arimatea, provvide una degna sepoltura al Maestro stimato (Gv 19,39).

          Resta comunque vero che nella maggioranza dei casi si tratta di situazioni di tensione o di non chiarezza. Si comprende meglio lo scontro, tenendo presente il forte ascendete dei farisei, come documenta ancora Giuseppe Flavio: «Nelle masse si presta loro fede completamente, anche quando sparlano di qualcuno per pura invidia» (Ant. 13,402).

          Il punto di maggior attrito era quella particolare interpretazione della Torah che finiva per diventare un monopolio. L’opposizione di Gesù viene da una profonda rilettura che egli fa della legge mosaica. Partendo da una sostanziale fedeltà che egli rivitalizza in occasione della discussione su puro ed impuro (cfr. Mc 7), rivendica una libertà di intervento che si spiega solo come particolare attenzione all’uomo (cfr. Mc 3). Sostenendo che «il sabato è per l’uomo» e non viceversa, la libertà di sospendere la legge va letta come servizio all’uomo: nessuna negligenza verso la legge, ma solo una priorità di amore. È questo un modo per garantire libertà al cuore, duttilità all’intelligenza, fedeltà al piano di Dio che ha dato la legge all’uomo perché lo servisse con tutto se stesso.

          Gesù non parte da alcun pregiudizio, né si sente bloccato davanti a qualche gruppo: non ha difficoltà alcuna ad accettare l’invito a tavola anche dei farisei. L’episodio di Lc 7 garantisce la piena disponibilità di Gesù. Anche in questo caso ha però dovuto smascherare atteggiamenti equivoci, prese di posizioni sclerotizzate: il fariseo che lo invita tradisce una visione parziale della realtà, una schiavistica dipendenza da giudizi codificati, una visione miope della donna che giudica e condanna prima ancora di osservarla. Non può quindi cogliere i germi di novità che Gesù invece individua, valorizza e promuove, facendoli passare dallo stato di germe a quello di piena fioritura.

          Cosicché, incastrati da una normativa che, nata per proteggere, finisce per soffocare, i farisei sono destinatari di una delle pagine più crude di tutto il Vangelo: la dura requisitoria di Mt 23, la cui prima parte costituisce il brano evangelico odierno. Forse, ciò che faceva loro maggiormente difetto, era quell’amore all’uomo che Gesù considera primario e per il quale ha impegnato tutta la sua esistenza. Con Gesù, l’unico criterio per l’adempimento della legge non è più la legge come tale con la tradizione orale, considerata dal fariseismo come sostanzialmente equipollente, ma l’amore verso Dio e verso il prossimo.

          Dall’incontro-scontro di Gesù con i farisei ricaviamo un insegnamento che è altresì un monito: tutti possono tragicamente sdoppiarsi, creando uno spaccato incolmabile tra quello che dovrebbero essere e quello che sono in realtà. Per non cadere in tale schizofrenia spirituale, occorre integrare la volontà di Dio espressa nella legge nella unità della vita, accettandola con la mente, amandola con il cuore e realizzandola nella concretezza del quotidiano. Esempi di buoni farisei non mancano; esempi di farisei non sintonizzati con il vangelo sono ancora più numerosi: nel seguire i primi e nell’evitare i secondi sta il nostro impegno. Anche i farisei, dunque, a loro modo, sono nostri maestri.

Prima lettura: Un ultimo, disperato appello

Le dure parole di Gesù contro i farisei possono vantare numerosi antecedenti nei testi dell’Antico Testamento. Molte volte i profeti hanno lanciato i loro strali contro persone che avevano stravolto il senso religioso e interpretato in modo fin troppo disinvolto il loro rapporto con Dio. Un’eco ci giunge anche da Malachia, un profeta del dopo esilio, che denuncia con parole minacciose un comportamento gravemente colpevole. Il brano liturgico ha tagliuzzato il testo profetico per combinare una reprimenda contro i sacerdoti.

Partendo dal primo versetto, un’autorivelazione divina che sottolinea l’aspetto di riguardosa venerazione che l’uomo deve a Dio, accanto all’affetto filiale, segue una dura accusa contro i sacerdoti. Il versetto finale, con la carica psicologica delle domande retoriche, è un ultimo, quasi disperato, tentativo, di richiamare i colpevoli a ritrovare il corretto rapporto con Dio.

            La partenza è solenne, con l’intento di presentare la meta cui tutti devono tendere: il riconoscimento di Dio e, di conseguenza, l’onore che gli si deve, perché Lui è il «grande Re». Il fatto che nella quinta grotta di Qumran siano stati rinvenuti tre piccoli frammenti che riportano questo versetto di Malachia dimostra il suo valore. Riconoscere Dio come il grande Re e agire di conseguenza è un privilegio che dovrebbe stare a cuore.

            Il discorso ha precisi destinatari, indicati come «sacerdoti». Se l’onore di Dio e il culto dovutogli sono impegni di tutto il popolo, a maggior ragione devono attenersi i sacerdoti, coloro che per missione trattano continuamente con Dio. La impietosa reprimenda che segue, lascia intendere che le cose non stanno proprio così. L’argomento prevalente è la minaccia di punizione, che va letto nel suo intento correttivo, «monito», come si era espresso il versetto iniziale. Ed è proprio la forma casuistica, introdotta dal «se», a far capire che siamo davanti a tragiche possibilità che i destinatari del messaggio hanno ancora il tempo di stornare da sé.

La minaccia di volgere la benedizione in maledizione è di inaudita gravità, perché stravolge il compito dei sacerdoti, chiamati appunto a benedire e ad essere mediatori della benevolenza divina. La durezza della minaccia si spiega alla luce di comportamenti gravemente lesivi: i sacerdoti sono stati di «inciampo a molti» e hanno «rotto l’alleanza». È come dire che hanno tradito la loro missione, hanno rinnegato il loro compito cultuale, hanno fallito tutta la loro vita.

Il versetto finale recupera la speranza e vale come ultima ancora di salvataggio. Il ricordo di un unico Dio, che è Padre, dovrebbe richiamare la peculiarità di Israele in mezzo ai pagani e dare rinnovato vigore all’impegno dei sacerdoti nel tenere alti i valori dell’alleanza. Solo così Dio rimane il «grande Re» e gli si tributa l’onore dovuto che ricade sull’uomo come pioggia benefica.

Seconda lettura: A cuore aperto

Paolo è l’apostolo e fondatore della comunità di Tessalonica. Un felice rapporto di reciproca e fruttuosa intesa si è stabilito tra di loro e riecheggia nel presente brano, un abbinamento di due minuscole unità che riguardano rispettivamente l’azione pastorale di Paolo e la risposta della comunità. Potremmo dire: a ciascuno la sua parte. Paolo apre il suo cuore alla confidenza di un servizio pieno di amore disinteressato (vv. 7-9) e valorizza la risposta generosa della comunità (v. 13).

            Paolo si abbandona piacevolmente alla dolcezza del ricordo: «un fremito di tenerezza virile vibra nelle parole dell’apostolo, fra le più appassionate che le sue lettere riportano» (E. Ghini). Nessuna forma di autodifesa, come dovrà fare in altre lettere, ma solo la dolce rievocazione di due impegni che si sono felicemente incontrati, quello di Paolo nel recare con gioiosa gratuità l’annuncio evangelico e quello della comunità nel riceverlo con vivo interesse.

            Dopo aver escluso un annuncio fatto di vile tornaconto personale, e purificato l’orizzonte da possibili equivoci, Paolo cambia registro. Incontriamo tenere espressioni di affetto con le quale l’Apostolo dichiara di essere stato per la comunità come una madre e come un padre. Della prima ha la l’altruismo fino al dono della vita; l’espressione è di una toccante bellezza: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e cura le proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (vv. 7-8). Il richiamo alla tenerezza materna non ha nulla di sdolcinato, né paga un tributo ad un romanticismo decadente. Paolo se ne serve per documentare che non ha lesinato energie e il suo lavoro indefesso depone a suo vantaggio. Il Vangelo è entrato nella città commerciale di Tessalonica mediante operai del Vangelo che prima di essere tali sono operai accanto agli altri con i quali hanno condiviso la durezza e la laboriosità (cfr. «la nostra fatica e il nostro travaglio» del v. 9). E alla sua personale esperienza potrà richiamarsi Paolo quando dovrà impartire istruzioni ad alcuni oziosi che avevano incrociato le braccia (cfr. 2Ts 3,6-12), confondendo l’attesa del Signore con l’inoperosità.

            L’esperienza del lavoro ha connotazioni materne per l’altruismo e connotazioni paterne per l’impegno e l’esempio. Il fatto di aver lavorato con le proprie mani ha permesso alla predicazione di brillare perché carica di disinteresse. Paolo è soprattutto un operaio del Vangelo e questo gli preme moltissimo. L’annuncio del Vangelo deve avere una meta a cui puntare; essa è additata nella chiamata di Dio «al suo regno e alla sua gloria» (v. 12, fuori testo), formulazione biblica del concetto più popolare di ‘paradiso’. La meta è dunque la comunione con Dio. Attirata da questa meta, la comunità sarà più disponibile ad affrontare le avversità di cui si parla poco più avanti. Paolo, oltre che madre che nutre e dà la vita, oltre che padre che esorta e dà l’esempio, è anche grande maestro e teologo che addita la meta. Questa, ultima ad essere raggiunta, deve essere prima nel cuore per indirizzare e sostenere lo sforzo.

            Considerato dalla prospettiva di Paolo, il Vangelo è giunto genuino e ha trovato concretizzazione nella sua persona. Con «ringraziamo Dio continuamente» (v. 13) si cambia, o meglio, si completa la prospettiva, considerando la recezione positiva della comunità. Per questo il brano si apre con una esultanza eucaristica, in quanto Paolo intende ringraziare Dio per aver aperto il cuore dei Tessalonicesi al Vangelo.

            Esso viene qui chiamato «Parola di Dio», in manifesta opposizione alla «parola di uomini». Non si dà ancora il contenuto del Vangelo, anche se il passo di 1,9-10 potrebbe valerne come una sintesi. Paolo sembra più preoccupato di definirne il dinamismo, di mostrarne l’efficacia attraverso la sperimentazione della vita e per questo dice «Parola di Dio che opera in voi che credete». Troviamo in nuce il pensiero di Rm 1,16-17: «Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede». L’accoglienza della Parola crea un flusso di comunione tra la comunità e Dio, permettendo a questi di operare in quella. La Parola di Dio dimostra la sua efficacia soprattutto perché rende capaci di soffrire, perché abilita alla testimonianza e al martirio. Mediante essa la comunità è entrata nella grande schiera della Chiesa sofferente, quella che sa resistere alle prove più dure – la persecuzione, per esempio – e sa farne uno strumento di salvezza, a imitazione del suo Signore.

            Paolo parla con il cuore in mano e la comunità risponde con entusiasmo. Un bell’esempio di vita cristiana felicemente realizzata.

Fonte

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XXXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Mt 23, 1-12
Dal Vangelo secondo  Matteo

1Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: «Sulla cattedra di Mosé si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. 8Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 05 – 11 Novembre 2017
  • Tempo Ordinario XXXI
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo A
  • Salterio: sett. 3

Fonte: LaSacraBibbia.net

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