Il commento alle letture di domenica 3 Maggio 2020 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.
GESÙ È LA PORTA E IL PASTORE DELLE PECORE
Nella Festa della Dedicazione (Gv 10,22), tra novembre e dicembre, si celebrava in Israele la consacrazione (Hannukah) del Tempio nel 164 a. C. dopo la profanazione da parte di Antioco IV Epifane, che aveva posto nel Santo dei Santi la statua di Zeus Olimpio. Uno dei temi teologici della ricorrenza era la proclamazione diIHWH come Pastore unico di Israele.
Durante questa Festa, Gesù riprende questa meditazione raccontando due parabole gemelle, poi fuse in un’unica parabola, di cui il Vangelo odierno (Gv 10,1-10) sottolinea la prima, pur presentando parecchi elementi della seconda. Nella prima parabola Gesù si proclama la Porta dell’ovile. Egli ribadisce l’unicità assoluta del rapporto con lui: “Io sono la via…, e nessuno viene al Padre se non attraverso di me” (Gv 14,6). Solo lui ci fa conoscere il Padre, solo lui ci può dare salvezza. Non abbiamo altra Porta che Gesù Cristo: dobbiamo ribadire con forza la centralità della Cristologia, soprattutto in momenti in cui l’appartenenza al gregge dei credenti sembra passare attraverso la militanza in certi movimenti, l’adesione a certi stili o ideologie, o in cui altri valori (il culto a Maria o ai Santi, un certo tipo di fedeltà alle tradizioni…) vengono talora messi al primo posto in luogo di Gesù, che è il solo “Signore e Cristo” (Prima Lettura: At 2,36), che è l’unico Capo della Chiesa, che è la Porta ed il Pastore. Nella Festa si leggevano i libri dei Maccabei, che presentano il tradimento dei Sommi Sacerdoti Giasone e Menelao: Gesù identifica nei ladri e nei briganti le autorità infedeli.
Nella seconda parabola Gesù si presenta come il divino Pastore. Nell’Antico Testamento era IHWH il “Pastore di Israele” (Gen 48,15; cfr Sl 22; cfr 80,2; Is 40,11). Egli si era servito di uomini, come i Giudici e i Re, per pascere il suo popolo, ma questi spesso si erano mostrati indegni e corrotti, distruggendo il gregge loro affidato (Ger 23,1-3; Ez 34,1-10). Perciò Dio aveva promesso che alla fine dei tempi avrebbe inviato “un pastore che pascerà le mie pecore, Davide mio servo. Egli… sarà il loro pastore: io, il Signore, sarò il loro Dio” (Ez 34,23-24). E’ il Pastore Messia, che “pascerà con la forza del Signore” (Mi 5,3), che però sarà percosso e trafitto (Zac 12,10), e la cui morte sarà salutare (Zac 13,1).
Nella Festa della Dedicazione si leggeva proprio il capitolo 34 di Ezechiele, che parla del Pastore messianico: e Gesù si presenta come il pastore “kalòs” (Gv 10,11), letteralmente “bello”, cioè “ideale”, “modello”, “perfetto”. E’ il Pastore che sarà percosso (Mt 26,31), ma “dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime” (seconda Lettura: 1 Pt 2,25). E quando “Dio farà tornare dai morti il Pastore grande delle pecore” (Eb 13,20), “quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1 Pt 5,4).
Gesù conduce le sue pecore “su pascoli erbosi… Per me tu prepari una mensa… Il mio calice trabocca” (Sl 22,2.5): è la Porta attraverso cui si “troverà pascolo… Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,9-10). Al suo gregge egli offre “un cibo che non perisce” (Gv 6,27), “vero cibo e vera bevanda” (Gv 6,55), la sua “carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). E’ il miracolo di un Dio Pastore che dà la sua vita per le pecore (in Gv 10,11-18 lo ripete ben cinque volte), rendendosi cibo per esse, “pane della vita” (Gv 6,35), donandosi totalmente, facendosi spezzare e consumare.
I Giudei capirono la portata teologica di questo discorso e conclusero che Gesù era completamente pazzo, “indemoniato” (v. 20).
Quale tenerezza nella definizione di Gesù come pastore: c’è tutta la sua agape, la sua provvidenza, il suo pensare a ciascuno di noi, preoccupandosi di noi, conoscendo i nostri ritmi, preparando per noi acque e pascoli tranquilli, conducendoci pian piano anche nelle tenebre e nei pericoli, difendendoci, recuperandoci se smarriti, dando la vita per noi!
Quale sicurezza, quale serenità, quale pace, quale gioia deve nascere per noi dalla contemplazione di questo mistero! Non siamo più noi a dover gestire, programmare la nostra vita. Non siamo più noi a dover cercare la nostra strada. Non siamo più soli nel pericolo e nelle difficoltà. C’è Dio che pensa noi, provvede a noi, ci aiuta. Si scioglie la nostra ansia, la nostra angoscia. E cantiamo con il Salmo 131,2: “Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre: come un bimbo svezzato è l’anima mia”.
Il gregge è uno dei simboli che Giovanni usa per raffigurare la Chiesa: “Alcuni hanno obiettato che in questa parabola <<gregge>> o <<gregge di pecore>> è menzionato soltanto una volta. Ma anche l’immagine dell’ovile che implicitamente la percorre tutta è un simbolo della comunità” (R. E. Brown). “I discepoli di Gesù non sono delle monadi, separati e slegati tra loro, ma costituiscono una comunità, formano un gregge, sono pecore che vivono nello stesso recinto, hanno uno stesso pastore, sono condotte fuori dall’ovile per essere portate al pascolo tutte insieme. In questo discorso non ricorre il termine <<famiglia>>: appare però con trasparenza che le pecore simboleggiano i discepoli del Cristo, i quali altrove dal Maestro sono chiamati suoi amici (Gv 11,11; 15,14-27) e fratelli (Gv 20,17), anzi sono affidati alle cure di sua madre (Gv 19,26). Quindi Giovanni insegna con sufficiente chiarezza che i cristiani formano la Chiesa, la famiglia del Figlio di Dio” (S. A. Panimolle).
Il brano è anche un monito ai pastori della Chiesa, che come Gesù devono “conoscere” (v. 14: semitismo per “amare”) le loro pecore e dare la vita per esse. Guai se sono dei “mercenari” (v. 12). Dirà 1 Pt 5,24: “Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza, ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce”.
Cristo ci salva, ci guida, ci consola, ci protegge, sazia i nostri bisogni più profondi, riempie le nostre attese, scioglie le nostre paure, vince i nostri limiti creaturali. Ogni nostra Eucarestia deve essere veramente adesione totale a Cristo Porta e Pastore, per “non avere più fame e non avere più sete” in eterno (Gv 6,35).
Carlo Miglietta