Il commento alle letture di domenica 26 febbraio 2017 a cura di don Jesús GARCÍA Manuel.
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Prima lettura: Isaia 49,14-15
In Israele, prima di ripudiare la moglie, il marito doveva riflettere a lungo perché si trattava di una scelta irreversibile, non erano ammessi ripensamenti, non gli era più permesso di riprendersela.
In esilio, a Babilonia, Israele si sente una sposa ripudiata. Sa di essere stata infedele, di aver tradito il suo Dio, ha abbandonato ogni speranza di ricostruire il rapporto d’amore infranto e, mestamente, va ripetendo: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (v. 14). È il lamento con cui inizia la lettura di oggi ed è l’espressione della dolorosa esperienza di chiunque, caduto nell’abisso del peccato, si rende conto di aver fatto scelte di morte ed è convinto che anche il Signore lo rifiuti.
Questi pensieri sorgono quando vengono proiettati in Dio i nostri criteri di giudizio e le nostre meschinità. Compare allora il Dio suscettibile, permaloso e persino vendicativo. Questa deformazione del suo volto è la più subdola delle astuzie diaboliche e il Signore si premura di cancellarla. Per bocca del profeta dichiara: «Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Io ti riprenderò con immenso amore» (Is 54,6-7).
Il suo amore non è una risposta ai meriti o alle dimostrazioni di affetto dell’uomo, è una passione incontenibile che prescinde dalle nostre opere buone, è come l’amore di una madre – ecco la nuova, commovente metafora introdotta dalla lettura di oggi (v. 16) — un amore incondizionato e invincibile. Una madre ama il figlio non perché è riamata, ma perché è suo figlio e lo amerà sempre, qualunque cosa egli faccia.
Quest’immagine ha già in sé una forte risonanza emotiva, tuttavia, per comprenderne tutta la ricchezza, vale la pena ricordare alcune celebri figure di madri bibliche: il sublime eroismo di Rispa che «dal principio della mietitura dell’orzo, fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia», vegliò i cadaveri dei figli consegnati alla morte da Davide (2Sam 21); il coraggio della madre di Mosè che sfida l’ordine del faraone pur di salvare il figlio (Es 2,2-9); il tormento della meretrice che accetta di essere privata del figlio purché non venga ucciso (1Re 3,16-17); la forza d’animo della madre che incoraggia i figli ad affrontare la morte per non rinnegare la fede (2Mac 7).
Tutta questa carica di emozioni e di sentimenti è presente nell’immagine dell’amore di una madre e aiuta a comprendere con quale passione Dio ama e si interessa dell’uomo.
Seconda lettura: 1Corinzi 4,1-5
La parola del vangelo è il più grande dono che si possa ricevere, per questo è facile non solo provare profonda simpatia e riconoscenza per chi lo ha offerto, ma anche legarsi fin troppo al messaggero. Accade oggi ed è accaduto anche nella comunità di Corinto dove, a causa dell’attaccamento all’uno o all’altro degli apostoli, erano sorti dei partiti: alcuni si gloriavano di appartenere a Pietro, altri ad Apollo, altri ancora a Paolo (1Cor 1,12).
Il brano di oggi conclude la lunga trattazione di questo argomento, iniziata con il severo monito: «Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?» (1Cor 1,13).
Paolo impiega il plurale – «Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (v. 1) – perché non parla solo di sé, si riferisce a tutti gli annunciatori del vangelo. Con due termini espressivi ne definisce il ruolo: sono servi (hypêrétai in greco) cioè inservienti che liberamente hanno accettato di svolgere un incarico; sono dei subordinati, dei dipendenti a servizio di un signore, Cristo; sono degli amministratori (oikónomoi in greco, economi) non dei padroni, hanno in mano beni che appartengono a Dio, a loro sono stati solo affidati affinché li facciano fruttare.
Agli amministratori si richiede solo la fedeltà (v. 2). Chi annuncia il vangelo – intende dire Paolo – deve avere un’unica preoccupazione: trasmettere il messaggio del Maestro, senza nulla aggiungere e nulla togliere. Il padrone non gli chiederà se è riuscito a convincere molte persone, se si è accattivato la simpatia degli uomini, se ha ricevuto applausi e approvazioni; domanderà soltanto se ha annunciato il vangelo secondo verità, senza cedere agli opportunismi, senza scendere a compromessi, senza rispetti umani.
Nella seconda parte del brano (vv. 3-5) Paolo risponde alle critiche che i corinzi gli muovono. Assicura che non è per niente preoccupato dei giudizi pronunciati su di lui, siano essi di approvazione o di condanna. Non è ai corinzi che deve rendere conto del proprio operato, ma a Dio. Non si fida nemmeno del giudizio della sua coscienza, anche se, onestamente, riconosce che non gli rimprovera nulla (v. 4). Tiene presente questo giudizio, ma non lo considera definitivo, attende quello del Signore che verrà pronunciato al termine della dura «giornata di lavoro».
Le parole dell’Apostolo non sono un invito a ignorare il giudizio che una comunità pronuncia su chi svolge un ministero. La comunità ha il diritto e il dovere di esprimere il proprio parere sull’operato dei ministri e amministratori e questi non possono arrogarsi il diritto di agire in modo arbitrario e di «comportarsi da padroni» (1Pt 5,3). Ma non va dimenticato che, solo alla fine, «ciascuno riceverà da Dio la lode».
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Puoi leggere (o vedere) altri commenti al Vangelo di domenica 26 Febbraio 2017 anche qui.
VIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
- Colore liturgico: verde
- Is 49,14-15; Sal.61; 1Cor 4,1-5; Mt 6, 24-34
Mt 6,24-34
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?
E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?
Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
- 26 Febbraio – 04 Marzo 2017
- Tempo Ordinario VIII, Colore verde
- Lezionario: Ciclo A | Salterio: sett. 4
Fonte: LaSacraBibbia.net
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Commento al Vangelo: Matteo 6, 24-34
Esegesi
Il bambino che perde i genitori non può stare solo, ha bisogno di avere qualcuno in cui riporre la sua fiducia, qualcuno che gli dia sicurezza. Egli cerca spontaneamente un modello, un punto di riferimento nella vita.
Capita anche con Dio: non se ne può fare a meno, non si può rimanerne orfani; chi lo rifiuta, lo rimpiazza subito con un sostituto. Il pericolo non è l’ateismo, ma la scelta del dio sbagliato.
Molti credono che, nell’alto dei cieli, ci sia un Padre che si prende cura di loro; costoro sono convinti che egli prova per loro anche sentimenti materni: si interessa, con affetto e sollecitudine, dei loro bisogni. Se egli è padre di tutti, gli uomini non sono dei compagni di viaggio, dei vicini più o meno simpatici, più o meno meritevoli di attenzioni; non sono degli antagonisti con i quali competere o, peggio ancora, dei nemici da combattere, ma dei fratelli da amare e aiutare.
Non tutti accettano questo Padre. A chi lo rifiuta si presenta subito, con tutto il suo incantevole fascino, il più seducente, il più subdolo degli idoli, il denaro. Il vangelo di oggi inizia con una denuncia della pericolosità di quest’idolo (v.24).
Matteo ci ha conservato il termine aramaico – mamônâ – usato da Gesù. È significativo: deriva dalla radice ‘aman che vuol dire offrire sicurezza, essere solido, affidabile. Il denaro, come Dio, garantisce ogni bene a chi gli presta culto: dona cibo, bevande, salute, piaceri, divertimenti; ma cosa chiede in cambio? Come ogni dio, esige tutto.
Dio è il punto di riferimento dei pensieri, delle azioni, della vita dell’uomo e vuole essere amato «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). Anche il denaro pretende il coinvolgimento totale dei suoi devoti. Per amor suo bisogna essere disposti a rinunciare alla propria dignità, a ingannare, a rubare, a rovinare gli altri, a perdere le amicizie, a trascurare persino moglie e figli (per loro non ci sarà più tempo!), bisogna essere pronti anche a uccidere. Coloro che adorano il denaro hanno tutto, ma non sono più uomini, divengono schiavi. «L’attaccamento al denaro – scrive l’autore della lettera a Timoteo – è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono, da se stessi, tormentati con molti dolori» (1Tm 6,10) ed è un’idolatria (Ef 5,5).
La prima follia in cui trascina l’adorazione di mamônâ e l’accumulo. Chi accumula si illude di aver trovato un obiettivo concreto e gratificante che dia un senso alla vita, ma ha solo scoperto un vano ripiego per esorcizzare il pensiero della morte. «Lasciare in eredità» è un palliativo.
Il Padre che sta nei cieli si colloca agli antipodi: invita alla rinuncia all’uso egoistico del denaro. Non chiede di «non rubare», di fare elemosine, ma di instaurare un rapporto com-pletamente nuovo con i beni; propone la condivisione, l’attenzione ai bisogni dei fratelli. Qualunque forma di accumulo egoistico è una violazione del primo comandamento: «Non avrai altro dio all’infuori di me» (Es 20,3).
Nessuno può servire a due padroni; o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro. Non è possibile servire Dio e mamônâ.
Noi vorremmo tenerceli buoni tutti e due, convinti che quello che non ci concede l’uno ce lo darà l’altro. Ma i due non sono soci in affari, sono antagonisti, non possono stare insieme nel cuore dell’uomo, danno ordini opposti. Il Padre che sta nei cieli ripete: «Ama, aiuta tuo fratello, dà cibo a chi ha fame, vesti chi è nudo, offri la tua casa a chi è privo di casa». Il denaro ordina invece: «Sfrutta il povero, non dare nulla gratuitamente, non preoccuparti di chi è nel bisogno, stima e apprezza le persone in proporzione di ciò che possiedono».
Il distacco dai beni è uno dei temi ricorrenti nel vangelo ed è uno dei più difficili da assimilare. L’uomo infatti si affeziona ai tesori di questo mondo, è portato a idolatrarli fino a dimenticare l’eredità «che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, quella che è conservata nei cieli» (1Pt 1,4).
Fin dal suo primo discorso – quello della montagna dal quale è tratto il brano di oggi – Gesù mette in guardia i discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-21). A chi lo vuole seguire chiede di dare anche il mantello e raccomanda di non volgere le spalle a chi chiede un prestito (Mt 6,40.42).
Le richieste di Gesù sono paradossali e sconcertanti. Prima di decidersi ad accettarle, non si può non chiedersi: Che ne sarà della mia vita? Che cosa mangerò, che cosa berrò, come mi vestirò? Chi mi assicura che avrò poi il sufficiente per vivere? Non mi pentirò di aver rinunciato alla sicurezza che offre il denaro accumulato e goduto? Non sarà meglio limitarsi a elargire qualche elemosina?
È a questi interrogativi che Gesù risponde nella seconda parte del vangelo di oggi (vv. 25-34) dove invita alla fiducia nel Padre che sta nei cieli, che si prende cura dei figli e che non lascerà mancare il necessario a chi ha creduto in lui.
Le immagini con cui è presentata la premura di Dio nei confronti delle sue creature sono deliziose: «Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (vv. 26-29). Dà quasi l’impressione di essere un ingenuo sognatore, di proporre una vita spensierata, giuliva, ma completamente staccata dalla realtà.
Non è così. Gesù non suggerisce il disimpegno, l’ozio, il disinteresse o la rassegnazione, propone un rapporto nuovo con i beni: non l’accaparramento, ma la condivisione fondata sulla fiducia nella provvidenza di Dio.
Il richiamo è all’esperienza dell’esodo: Israele era un popolo in cammino, non poteva accumulare, piantava tende provvisorie, non costruiva magazzini solidi e inamovibili; la manna non poteva essere raccolta in quantità maggiore a quella necessaria per un giorno, altrimenti marciva e si riempiva di vermi (Es 16,17-20); la terra non era proprietà di nessuno, ciascuno possedeva solo, per un momento, quella piccola superficie che calpestava, poi, quando muoveva in avanti il suo piede, quella terra non gli apparteneva più, diveniva proprietà di chi lo seguiva. In questo modo Dio aveva educato il suo popolo al distacco dai beni che, pur necessari alla vita, sono corruttibili e passeggeri, ma seducono, incantano e fanno distogliere lo sguardo dalla meta.
I rabbini notavano che gli israeliti avevano seguito Mosè nel deserto senza mai chiedergli: «Come potremo attraversare il deserto, senza portare con noi provvigioni per il viaggio?».
Gesù non condanna la programmazione, la previdenza ma la preoccupazione per il domani, l’ansia che fa perdere la gioia di vivere e porta inevitabilmente ad accumulare e a trasformare in idoli disumanizzanti i beni di questo mondo.
Non preoccupatevi: è un verbo che nel brano di oggi viene ripetuto per ben tre volte. Sono un’eco delle sagge riflessioni del Siracide: «Molti ne uccide la preoccupazione e non c’è utilità nell’affanno. La preoccupazione per il sostentamento fa perdere il sonno, lo allontana più di una malattia» (Sir 30,23-31,2).
L’affanno è comune tanto al povero quanto al ricco; il denaro non solo non elimina le inquietudini e le preoccupazioni, ma le acutizza e le esaspera. Conosciamo le notti insonni dei padri di famiglia disoccupati, senza soldi, con moglie e figli da mantenere; tuttavia sappiamo che le ansie non servono a nulla, non aiutano a risolvere i problemi del cibo e del vestito, sono un inutile dispendio di energie.
Gesù suggerisce il suo rimedio a questa malattia: sollevare lo sguardo verso l’alto, verso il Padre che sta nei cieli. Questo non significa rimanere con le mani in mano, ma affrontare la realtà con cuore nuovo. Alle parole di Gesù fa eco l’autore della Lettera agli ebrei: «La vostra condotta sia senza avarizia accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò mai» (Eb 13,5).
Anche di fronte alle difficoltà più gravi, Gesù invita a mantenere la pace interiore perché la vita dell’uomo è nelle mani di Dio che non abbandona i suoi figli, li accompagna in ogni istante, benedice i loro sforzi e il loro impegno.
Meditazione
Nel proporci l’ascolto del Discorso della montagna, il lezionario domenicale omette alcuni brani. Dopo aver proclamato la conclusione del capitolo quinto nella scorsa domenica, oggi giungiamo al v. 24 del capitolo sesto, tralasciando così la sua prima parte. Il testo con cui si apre il capitolo sesto (e che ascoltiamo ogni anno all’inizio della Quaresima, nel ‘mercoledì delle ceneri’) ha una sua importanza e costituisce una chiave di interpretazione dell’intero discorso. Può essere utile richiamarlo brevemente, perché ci offre una prospettiva preziosa per comprendere l’invito che Gesù ci rivolge in questa domenica, incentrato in particolare sul nostro rapporto con la ricchezza e con gli altri beni creaturali.
All’inizio del capitolo sesto Gesù parla di tre opere fondamentali della pietà ebraica, attraverso le quali siamo chiamati a vivere la nostra buona relazione con Dio (la ‘giustizia’, stando al termine usato da Matteo): l’elemosina, la preghiera, il digiuno. Al centro c’è la preghiera, parlando della quale Gesù consegna ai discepoli il Padre Nostro, che costituisce un po’ il cuore dell’intero discorso. Tuttavia, la preghiera non sta senza l’elemosina, vale a dire senza la giusta relazione con gli altri uomini nella forma della condivisione e della solidarietà, non del possesso, del potere o del dominio; né sta senza il digiuno, vale a dire il rapporto con i beni della terra, da vivere non nella voracità o nella ricchezza, ma nell’accoglienza, nella gratitudine, nella povertà. Per Gesù la giusta relazione con Dio è autentica quando trasforma il nostro modo di relazionarci con gli altri uomini e con i beni della terra. D’altra parte, è proprio nel nostro modo di vivere il digiuno e l’elemosina, e tutto ciò a cui simbolicamente rimandano, a rivelare la verità del nostro rapporto con Dio. Di queste tre relazioni si intesse non solo il brano più specifico del capitolo sesto, ma l’intero discorso, nella sua architettura complessiva. Infatti, nella sua prima parte (nel cosiddetto discorso delle antitesi) è in gioco il nostro rapporto con gli altri; al centro – all’inizio del capitolo sesto – c’è il nostro rapporto con Dio, vissuto nella preghiera, nell’elemosina e nel digiuno; infine, nell’ultima parte, subito dopo che Gesù ha parlato del digiuno, emerge più nitidamente il tema della relazione con i beni. Appaiono allora in tutta la loro nitidezza l’importanza e il valore che Gesù assegna al rapporto con le ricchezze: da esso dipende, e non in modo accidentale o secondario, il nostro stesso rapporto con quel Dio che siamo invitati a chiamare ‘Padre’. Detto in altri termini, la qualità filiale della nostra relazione con il Dio ‘Padre nostro’ dipende strettamente anche dal modo con cui ci rapportiamo con i beni della terra.
Anche per questo motivo Gesù è così perentorio: «Non potete servire Dio e la ricchezza». Custodiamo probabilmente nella memoria la traduzione precedente, che conservava il termine aramaico: «non potete servire Dio e mammona». Termine interessante questo, poiché sembra derivare dalla stessa radice da cui proviene il termine ‘amen’. Qual è l’amen, il fondamento stabile, solido, duraturo, della nostra vita: Dio o mammona? Dio oppure le ricchezze e i beni della terra? Gesù non sembra tollerare esitazioni o compromessi: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro» (6,24).
L’immagine metaforica del padrone evoca allusivamente un aspetto vero della ricchezza e del suo morso velenoso: essa ha un potere e una violenza di dominio sul cuore dell’uomo, e per questo si pone in modo radicale in alternativa a Dio, che è l’unico vero Signore della nostra vita, anche se, diversamente dalla ricchezza, la sua signoria è liberante. Non ci rende schiavi. Ci fa appunto rapportare con Dio non come con un ‘padrone’, ma come con un ‘padre’. Torna a emergere un aspetto che abbiamo già avuto modo di sottolineare nelle domeniche precedenti: la ‘giustizia superiore’ di cui parla Gesù in questa ampia sezione del Vangelo di Matteo è la giustizia del ‘figlio’, non quella del ‘servo’ o dello ‘schiavo’.
La signoria di Dio è per la nostra libertà e ci libera dagli affanni e dalle preoccupazioni angosciate. L’affanno dal quale Gesù ci mette in guardia, o sul quale ci sollecita a vigilare, non deriva tanto da un modo sbagliato di cercare o di gestire i beni, il denaro, i propri desideri. La sua radice scende più in profondità: nell’autosufficienza di chi pensa di dover badare a se stesso senza altri riferimenti, e si illude di poterlo fare. Potremmo dire che è l’affanno di chi cerca se stesso nei propri possessi. Il problema vero rimane sempre lo stesso: pretendere di tenere la propria vita ben stretta in pugno, o di poterla progettare con l’opera delle proprie mani e l’estro del proprio ingegno.
Comprendiamo allora meglio l’esortazione di Gesù a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia (v. 33). Relazionarsi da figli con un Dio che ci è padre, lasciare che sia lui a regnare sulla nostra vita, eliminando il potere che su di noi possono avere altri signori e altri idoli, purificare il nostro cuore dall’illusione di poter essere noi gli unici signori e artefici della nostra esistenza, tutto questo ci conduce ad avere un rapporto diverso con tutti i beni di cui pure la nostra vita ha bisogno. Non si tratta di non cercarli più, ma di non cercarli con affanno e con preoccupazione. Un cuore pre-occupato è appunto un cuore occupato prima e da altro, soprattutto da uno sguardo ricurvo su di sé, sui propri bisogni, sulle proprie mancanze, sulle proprie autonome possibilità…
L’invito di Gesù è ad aprire il cuore, ad allargare lo sguardo, alzandolo da sé verso l’alto, per contemplare il modo stesso di essere e di agire di Dio. Questo è lo sguardo di Gesù che, anche nelle più piccole e insignificanti realtà (almeno all’apparenza), quali possono essere gli uccelli del cielo o i gigli del campo, sa discernere la presenza di Dio e la sua cura amorevole. Cercare il regno di Dio e la sua giustizia significa anche questo: riconoscere che la propria vita, come quella del cosmo intero, è custodita da Dio e dal suo volere che è la misericordia e la salvezza di tutti e di tutto, come il Discorso della montagna insistentemente ricorda. Il Padre è comunque colui che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
«Cercate anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (6,33). Chi cerca il regno di Dio torna ad accogliere in modo nuovo e diverso ogni altra persona e ogni altro bene o realtà, poiché tra se stesso e tutto ciò che incontra, o con cui si relaziona, riconosce la presenza stessa del Padre, che conferisce significato e consente di vivere in modo giusto i rapporti di cui la nostra esistenza quotidianamente si intesse. Come ci ha ricordato l’inizio del capitolo sesto, mettere al centro la relazione con Dio ci permette di vivere in modo diverso la relazione con gli altri (l’elemosina e non il potere) e con i beni della terra (il digiuno e non il possesso vorace). La giustizia superiore del discepolo del Regno è la giustizia del figlio, di colui che sa che la propria vita trova il suo stabile fondamento non nell’opera delle proprie mani, ma in ciò che riceve da Dio. Nel rimanere nella stabile relazione con il Padre, vero fondamento, amen non illusorio della propria vita.
don Jesús GARCÍA Manuel | Curriculum
Professore straordinario di Teologia Spirituale fondamentale (2016/2017)