Meditazione
Con la quarta domenica di Avvento la liturgia, dopo essere ‘partita dalla fine’, dal compimento della storia e dalla venuta del Figlio dell’uomo, dopo aver ascoltato la ‘parola’ che è Giovanni il Battezzatore, l’uomo del deserto e dell’Avvento, ora nell’ultima tappa dà inizio alla lettura dei testi che nei Vangeli narrano la venuta storica del Messia. In particolare sono i ‘poveri’ di YHWH a fare la loro comparsa nella liturgia di questa domenica: saranno i ‘protagonisti umani’ di tutto il tempo di Natale: coloro che sanno accogliere! Gli umili e i poveri sono coloro che hanno occhi per vedere e riconoscere la visita di Dio. Fino alla solennità dell’Epifania saranno il modello per il credente di oggi, chiamato a vedere che Dio continua a visitare il suo popolo e a incarnarsi nella storia perché tutto in Lui sia ‘re-intestato (Ef 1,10).
E tu Betlemme, la piccola
Nel testo di Michea si parla di piccolezza e di grandezza nel medesimo tempo. Betlemme è un piccolo borgo della Giudea, chiamato ad essere il luogo della nascita di colui che «pascerà il suo popolo con la gloria del Signore».
Come da Betlemme uscì il grande Re Davide (1Sam 16,4; 17,12), il più piccolo della casa di suo padre Jesse (1Sam 16,7), colui che fece la grandezza del regno di Israele, riunendo in un’unica realtà politica tutte le tribù, così anche il Messia, figlio di Davide, colui che doveva compiere le profezie fatte al Re di stabilire per sempre la sua discendenza sul trono di Israele, viene dalla più ‘piccola’ tra le città di Giuda.
Come nella scelta di Davide, anche nella vicende che accompagnano la nascita di Gesù si scopre il volto di un Dio che segue parametri totalmente differenti da quelli che l’uomo sarebbe portato a seguire. Come ai tempi di Davide, anche ora la scelta di Dio cade sui più piccoli, perché Dio non guarda ciò che guarda l’uomo: «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16,7).
La gioia dell’incontro
Nel brano evangelico, il farsi strada della salvezza nella storia assume il linguaggio di un incontro. Le relazioni umane di due donne appartenenti al popolo di Israele sono il linguaggio che il vangelo di Luca utilizza per descrivere l’arrivo dei tempi del Messia. L’incontro di due donne incinte, entrambe custodi della vita che attende di sbocciare, diviene immagine della storia ‘gravida’ che sta per partorire un tempo nuovo e definitivo. Una donna sterile e anziana, come ai tempi di Abramo, il primo padre; una donna vergine, sposa pronta per l’incontro con il suo sposo, come il popolo che nel suo esilio si sente promettere da Dio di essere ‘rifatto vergine’ per grazia: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). Una donna sterile e una donna ‘vergine’ sono immagini dell’umanità che diviene capace di generare la vita. Lì, proprio lì, dove sembra che sia impossibile ogni segno di vita, ogni speranza di futuro, l’intervento di Dio fa fiorire la gioia, la danza, l’esultanza e il canto.
Ma nel vangelo di Luca si parla anche dell’incontro di due bambini non ancora nati. Un incontro che fa danzare Giovanni il Battista, che già nel grembo materno è profeta e precursore.
Questo testo di Luca è ricco di riferimenti al corpo: due donne incinte, due bambini non ancora nati, Giovanni che sussulta di gioia nel seno della madre… tutte immagini che coinvolgono il corpo in un modo molto forte e anche un po’ provocatorio. Con esse Luca ci dice che la salvezza ci raggiunge proprio nel corpo, quella dimensione — ‘dimensione’ e non ‘parte’, come spesso noi siamo portati a immaginare con un linguaggio un po’ dualistico — che nel linguaggio dell’antropologia biblica indica il luogo della relazione. Noi entriamo in relazione con il mondo e con gli altri grazie al nostro corpo. Anche questo è un annuncio provocante: la salvezza ci raggiunge nel corpo. Noi pensiamo che ci possa raggiungere nell’anima e che il corpo sia quasi un peso e un ostacolo. Invece il vangelo di Luca ci annuncia che non c’è salvezza che non passi per il corpo, perché la salvezza si gioca nell’incontro e nella relazione. Dio ha voluto descrivere sempre il suo rapporto con l’uomo e con il suo popolo come relazione, anzi come le relazioni più profonde e vere: la relazione uomo/donna, padre/figlio…
La danza di Davide
C’è un testo dell’Antico Testamento che ci può aiutare nella comprensione del Vangelo di questa quarta domenica di Avvento: 2Sam 6. In questo testo si narra di re Davide che, ormai insediatosi a Gerusalemme e dopo aver unificato tutto il regno, decide di riportare l’Arca dell’alleanza a Gerusalemme. Nell’ultima parte di questo racconto così bello e vivace viene descritto l’ingresso dell’Arca a Gerusalemme tra la festa del popolo e la danza di Davide. Anche qui il corpo è protagonista. Il grande re Davide, un peccatore dal cuore grande, ha la freschezza di un bambino nell’accogliere la visita di Dio… e sa danzare quasi nudo, senza vergogna, davanti all’Arca santa che fa il suo ingresso nella città regale: «Allora Davide andò e trasportò l’arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. Quando quelli che portavano l’arca del Signore ebbero fatto sei passi, egli immolò un bue e un ariete grasso. Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Ora Davide era cinto di un efod di lino. Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportavano l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba» (2Sam 6,12-15).
Ma questo comportamento turba la figlia di Saul divenuta moglie di Davide, Mikal. Essa si scandalizza perché Davide si rende ridicolo agli occhi del popolo: «Bell’onore si è fatto oggi il re di Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!» (2Sam 6,20). Davanti al suo sdegno, la risposta di Davide è questa: «L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!» (2Sam 6,21-22).
Elisabetta e Maria sono quelle ‘serve’, quelle donne appartenenti al popolo dei poveri e degli umili, che diventeranno l’onore di Davide e che sapranno cantare, gioire e danzare per la venuta del Signore in Gerusalemme. Anche Giovanni danza davanti a Maria che porta in sé il Signore, come Davide danzò davanti all’Arca. La vergine e la sterile che sanno gioire per un incontro diventano madri, e fanno fiorire la vita; Mikal che non danza e si scandalizza della danza diviene sterile (2Sam 6,23): immagine dell’umanità che si chiude alla vita, nel momento in cui è incapace di gioire per un incontro e di accorgersi quando è visitata.
Un corpo mi hai preparato
Nella seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, non troviamo un
tono parenetico, bensì un annuncio. Sono le parole che l’autore mette in bocca a Cristo per annunciare, attraverso il linguaggio sacrificale-sacerdotale di questo scritto del Nuovo Testamento, il senso dell’esistenza e della missione di Cristo. È significativo che tutto si riassuma nell’espressione «mi hai preparato un corpo», facendo dell’umanità nella sua dimensione di fragilità e creaturalità, con tutto ciò che essa comporta, il luogo dell’obbedienza alla volontà del Padre. Anche se questo testo non è direttamente parenetico, tuttavia non è privo di conseguenze per la vita cristiana. L. Manicardi scrive: «Per il cristiano si tratta di vivere il corpo e di giungere a fare della propria vita un dono, un’offerta, sulla scia dell’offerta fatta da Cristo stesso. Per i cristiani ormai il corpo è il luogo dell’adempimento della volontà di Dio».
don Jesús GARCÍA Manuel | Curriculum
Professore straordinario di Teologia Spirituale fondamentale (2016/2017)