Il commento alle letture di domenica 2 Giugno 2019 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.
Luca negli Atti pone l’Ascensione dopo quaranta giorni dalla Resurrezione (At 1,3), per indicare il tempo compiuto, stabilito da Dio (tale è il significato biblico del numero quaranta): nel Vangelo invece l’Ascensione avviene nel giorno stesso di Pasqua (24,50-52), per sottolineare che Resurrezione e Ascensione sono l’unico momento dell’“entrare nella gloria”(24,26). Certamente Gesù Risorto fu visto come tale per un periodo preciso di tempo, dopo di che egli non si manifestò più in apparizione. L’“Ascensione” è un’immagine in linguaggio spazio-temporale per esprimere proprio che da un certo momento Cristo non fu più rinvenibile all’interno del limite spazio-temporale della nostra percezione umana: egli è il Vivente al di fuori dello spazio e del tempo, nell’eternità di Dio, “in cielo” (24,51). Ecco perché nel Nuovo Testamento si parla talora indifferentemente di resurrezione o di ascensione-glorificazione-esaltazione (At 2,32-33;5,30-31; Rm 8,34; Ef 1,20; Fil 2,8-9; 1Pt 3,21-22).
L’Ascensione conclude la storia evangelica ma nello stesso modo apre la storia della Chiesa (Atti 1, 9-11). Per Luca l’Ascensione ha un duplice significato.
E’ un salire al Padre (“veniva portato verso il cielo”), precisando in tal modo che la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita di prima, quasi un passo all’indietro, ma l’entrata in una condizione nuova, un passo in avanti, nella gloria di Dio.
L’Ascensione è però descritta come un distacco, una partenza (“si staccò da loro”): Gesù ritira la sua presenza visibile, sostituendola con una presenza nuova, invisibile e tuttavia più profonda: una presenza che si coglie nella fede, nell’intelligenza delle Scritture, nell’ascolto della Parola, nella frazione del pane e nella fraternità.
Commenta Enzo Bianchi: “Credendo è possibile diventare “testimoni”, fino ad annunciare la morte e resurrezione di Cristo come evento che chiede conversione e dona la remissione dei peccati: il perdono da parte di Dio a tutta l’umanità, in attesa della buona notizia della salvezza. Tutti sono testimoni – sottolinea Luca –, tutti annunciatori del Vangelo, non solo gli Undici, gli apostoli, ma anche gli altri presenti nello stesso luogo.
Sì, Gesù, quest’uomo di Nazaret, figlio di Maria e di Dio, che solo Dio poteva darci, era venuto soprattutto come visita da parte di Dio (cf. Lc 1,68): una visita non per la punizione, per il castigo dei peccati commessi dal popolo di Dio e dall’intera umanità, ma una visita che annunciava il perdono dei peccati (cf. Lc 1,77). Con quella morte da “uomo giusto” che accoglieva su di sé l’odio, la violenza e la menzogna dei malvagi, e vi rispondeva non con la violenza ma con l’amore, Gesù consegnava al Padre la vera immagine di Dio, l’Adamo come Dio l’aveva voluto (cf. Col 1,15). E proprio come giusto che sta dalla parte dei peccatori, solidale con pubblicani, impuri, prostitute, ladri e malfattori, Gesù saliva al Padre rivolgendogli la preghiera incessante che invoca perdono e misericordia. Tra le sue ultime parole prima della morte non aveva forse detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34)? E la sua ultima promessa non era forse stata rivolta a un malfattore: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43)?
Dunque i discepoli, testimoni di questa misericordia vissuta, insegnata e raccontata da Gesù, devono annunciarla a tutte le genti. Questa è la predicazione della chiesa, la quale invece è spesso tentata di attribuirsi compiti che il Signore non le ha dato: l’unico compito evangelico è annunciare e fare misericordia, che significherà servizio ai poveri, ai malati, ai sofferenti, vicinanza e solidarietà con i peccatori. “Cominciando da Gerusalemme” e fino ai confini del mondo i testimoni, quali viandanti e pellegrini, ovunque annunceranno il perdono dei peccati, quindi perdoneranno e inviteranno tutti a perdonare: questo il Vangelo, la buona notizia. Essere testimoni di tale annuncio (e non di altro!) è un’impresa ardua, perché sembra poco credibile, quasi impossibile da realizzare, eppure quei poveri discepoli e quelle povere discepole la sera di Pasqua hanno ascoltato, capito e da allora hanno tentato di mettere in pratica nient’altro che questo: il perdono, la remissione dei peccati. Ci vorrà “la potenza venuta dall’alto”, la discesa dello Spirito santo da Dio, per essere abilitati ad adempiere questo mandato, ma nessuna paura: quando Gesù, il Figlio di Dio, sale al cielo, ecco che dal cielo discende lo Spirito di Dio, che è anche e sempre Spirito di Gesù Cristo, forza che sempre ci accompagna e ci ispira in questa missione.
Come raccontare l’ascensione di Gesù con parole umane? Luca tenta di narrarla, ricordando come il profeta Elia aveva lasciato questa terra per andare presso Dio (cf. 2Re 2,1-14), e così scrive che Gesù, dopo aver condotto a Betania quei discepoli ormai resi testimoni, lasciò loro la benedizione e, “mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. Questo l’esodo di Gesù dalla terra al regno di Dio. L’evangelista non attenua in alcun modo la separazione di Gesù dai suoi: egli non è più presente come prima, ma la benedizione che dona è una benedizione continua, è l’immersione dei suoi nello Spirito santo (cf. Lc 3,16). Essa è anche l’ultimo atto del Risorto: egli dona la benedizione sacerdotale che era stata sospesa, non data all’inizio del vangelo dal sacerdote Zaccaria, dopo l’apparizione dell’angelo e l’annuncio della venuta del Messia (cf. Lc 1,21-22). Questa benedizione rende gioiosa la comunità di Gesù proprio mentre egli si separa da lei, ma la rende anche sacerdotale (cf. 1 Pt 2,9): i credenti in Gesù sono di fatto un nuovo tempio, sacerdoti e adoratori del Risorto, capaci di rispondere con la preghiera di benedizione alla benedizione di Gesù. L’incredulità è finalmente vinta e la fede in Gesù Signore e Dio è tale che permette ai discepoli di sentire Gesù presente in mezzo a loro anche dopo la separazione del suo corpo glorioso, ormai nell’intimità del Padre, Dio”.