Il commento alle letture di domenica 2 Agosto 2020 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.
Per la particolare importanza del nutrimento nella vita quotidiana, la Bibbia dà grande risalto ai miracoli di moltiplicazione di cibo: Eliseo moltiplica venti pani d’orzo e di farro facendoli bastare per cento persone (2 Re 4,42-44). Gesù moltiplica pochi pane e pesci per le folle affamate, per ben “cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini” (Mt 14,21): miracolo che ci è riportato da tutti e quattro gli Evangelisti, ma che Marco e Matteo ci raccontano ben due volte (Mc 6,30-44; 8,1-20; Mt 14,13-21; 15,32-39; Lc 9,10-17; Gv 6,1-13).
La narrazione della moltiplicazione dei pani ha come sfondo il libro dell’Esodo, cui continuamente allude: il passaggio del mare, la moltitudine in cammino, il deserto, il pane, citazioni implicite del testo (Es 3; 16; 33…) e della tradizione rabbinica su di esso.
Davanti a Gesù stanno le folle affamate: non solo di pane, quanto di senso della vita, di guarigione, di pace, di felicità (Mt 14,15).
Gesù mette alla prova (la “prova” è un tema tipicamente esodico: Es 15; 16; 20; 32…) la sua Chiesa, invitandola a sfamare questa gente (Mt 14,16). E la sua Chiesa subito si mette a fare calcoli umani, pensando come potere risolvere il problema secondo la logica mondana (Mt 14,17).
“Date voi stessi loro da mangiare” (Mt 14,16): Gesù invita i suoi ad essere veramente Pastori delle folle, e a dare essi stessi da mangiare alle folle. Dopo la predicazione, la fraternità, la condivisione.
I tre grandi momenti costitutivi della Chiesa. Prima c’è la Parola: Gesù predica, la Parola porta alla conversione, poi c’è subito la comunione dei beni: “Date loro da mangiare: sfamateli, risolvete i loro problemi”. Quindi l’Eucaristia.
Anche i primi cristiani, nella vita della prima comunità, erano assidui nell’ascolto della Parola, nella condivisione dei beni, e nell’Eucaristia.
Dobbiamo prendere sul serio la parola di Gesù: “Date loro da mangiare” se vogliamo celebrare l’Eucaristia senza mangiare e bere la nostra condanna, come diceva Paolo in 1 Cor 11,27-29: “27 Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. 28 Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; 29 perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna”.
La condivisione, la riconciliazione con il fratello devono precedere le nostre preghiere. Ci sarà detto: “Venite, benedetti, al banchetto del Regno, se avrete dato da mangiare agli affamati” (Mt 25,34-35). Questa è una meditazione importante, perché spesso ormai la Messa è diventata una pratica individuale: “Mi faccio la mia Comunione cosi divento più santo”, e ci dimentichiamo che Gesù ci dice: “23Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono”.
Un mondo affamato dice: “Noi moriamo di fame, e voi occidentali state bene”; un mondo ammalato dice: “Noi moriamo, invece voi avete le medicine per curarvi e le buttate persino via”; l’80% del’umanità dispone del 20% delle ricchezze, e accusa noi che siamo il 20% ed abbiamo l’80% delle ricchezze… Ci chiediamo veramente se possiamo fare l’Eucaristia, se prima non abbiamo lottato contro la fame nel mondo. Se prima non abbiamo compartecipato ai nostri beni. Se non abbiamo operato per rapporti sociali di giustizia. Ma noi invece di metterci in un’ottica di condivisione, di dono, invece di mettere subito in comune quel poco che abbiamo, i nostri cinque pani e due pesci, facciamo subito i conti, di quanto denaro occorre per sfamare tutti. Quando ci viene detto: “Si muore di fame, ci sono tante ingiustizie”, rispondiamo: “Oh, ma che cosa possiamo farci noi?”. Stessa cosa qui: Gesù dice: “Date loro da mangiare, dategliene voi da mangiare”, e i suoi rispondono: “Ma per carità, ci andrebbero 200 denari (Mc 6,37), ci vorrebbero miliardi”: invece Gesù ci dice: “Date loro quel poco che avete. Ciascuno di voi cominci a dare i suoi cinque pani e due pesci, e il problema della fame del mondo, le ingiustizie sociali sui poveri, si risolverebbero, se ognuno di noi mettesse i suoi pochi beni con quelli di tutti gli altri”.
Perché pane e pesce? Pane e pesce figurano spesso nell’arte cristiana come simboli eucaristici. Il contesto è Pasquale e Messianico insieme: infatti i Rabbini dicevano che Mosè non aveva dato soltanto la manna durante l’Esodo pasquale, aveva dato anche le quaglie, e in alcuni Libri si diceva anche i pesci; ma soprattutto l’apocalittica giudaica, che parlava di ciò che sarebbe accaduto alla fine dei tempi, diceva che alla fine dei tempi gli eletti, insieme al Messia, avrebbero mangiato il Leviatan, il grande pesce simbolo del demonio, del male, del caos primordiale. Questo banchetto ricorda la Pasqua antica, e ci ricorda anche il banchetto finale. Ogni nostra Eucaristia è la celebrazione della Pasqua, ma anche la prefigurazione del banchetto celeste. Ecco che vengono associati i simboli dei pesci. Quando i primi cristiani vivono la persecuzione, disegnano il pesce, perché la parola pesce, in greco “ichtùs”, è l’acronimo di “Jesus Christòs Theou Uios Soter”, “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”.
Gesù spiazza completamente i suoi discepoli, imbandendo nella sua onnipotenza la Pasqua messianica: ordina che la folla sia fatta sdraiare (Mt 14,19: “anaklitènai” non è essere seduti, ma sdraiati, l’atteggiamento, durante il pasto, degli uomini liberi), e la dispone “sull’erba” (Mt 14,19). Prima ha detto che sono nel deserto: da dove spunta quest’erba? Siamo nel simbolismo: chiaro è il riferimento ai Salmo 22:
“Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla;
2 su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
3 Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,
per amore del suo nome.
4 Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
5 Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca.
6 Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore
per lunghissimi anni”.
Gesù fa quindi una chiara allusione al Regno messianico: Sl 72,16; 23,1-2…), imbandendo il lauto e sovrabbondante banchetto del “Giorno di IHWH” (Mt 14,20-21: cfr Pr 9,1-5; Is 25,6-12; 55,1-2; Ap 19,9.18), per un totale di cinquemila uomini (Mt 14,21: la Pasqua escatologica non si celebra più in famiglia, come richiedeva Es 12,3, ma in comunità).
Qui Matteo, come Marco, usa la formula: “Gesù benedisse e spezzò il pane”, formula della chiesa giudeo-cristiana che compare anche nell’ultima Cena (Mt 26,26). “Dopo aver elevato gli occhi al cielo”, è un’espressione di comunione con Dio, che troviamo più volte nei Vangeli.
Compaiono quattro verbi che sono quelli propri dell’Eucaristia: 1. Prendere il pane. 2. Pronunciare la benedizione. 3. Spezzare il pane. 4. Donare il Pane. Sono gli stessi verbi che il Prete dice nella Messa: “Prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli”. L’Eucarestia ha plasmato il vocabolario della moltiplicazione del pane. Perché Matteo era convinto che questa comunione conviviale nel deserto era anticipazione del grande segno Eucaristico lasciato da Gesù nell’ultima cena, ai suoi Discepoli.
“Ne avanzarono dodici ceste piene” (Mt 14,10): dodici è il simbolo della pienezza, il simbolo della perfezione, ma è anche il ricordo che questo miracolo avviene per intercessione dei Dodici: cioè Gesù riesce a sfamare la folla tramite la Chiesa che continua a celebrare I’Eucaristia. Gesù continua a salvare tramite tutti noi, che partecipiamo al Banchetto.
Il racconto ci richiama il miracolo di Eliseo (2 Re 4,42-44): là cento pani erano bastati per cento uomini, ora cinque pani bastano per cinquemila. Gesù è ben più grande di Eliseo: egli è il “profeta che deve venire nel mondo” (Gv 6,14), la rivelazione escatologica di Dio promessa a Mosè (Dt 18,15-18). Sappiamo dagli altri evangelisti che gli astanti, attendendo un Messia forte e potente, vogliono farlo re (Gv 6,15): si ripete l’episodio di idolatria degli israeliti nel deserto (Es 32), quando essi cercano di adorare IHWH secondo l’idea e l’immagine che se ne sono fatta: il vitello d’oro, simbolo di forza e di ricchezza. I giudei sono disposti ad accettare il Cristo che essi si aspettano, quello che fa loro comodo: ma Gesù sarà vero Re solo sulla croce. E la salita di Gesù “sul monte, tutto solo” (Mt 14,23) è profezia della salita del Golgota da solo, abbandonato da tutti (Gv 16,32).
Il Signore fa sperimentare ai suoi la sua gloria, per prepararli ad accettarne anche la sconvolgente logica che lo renderà pane spezzato per farsi mangiare, e che chiede anche a loro di farsi pane per i fratelli, diventando loro servi (Gv 13). Il brano ha quindi forti riferimenti all’Eucarestia: Gesù compie gli stessi gesti che farà in occasione dell’ultima cena, quando “prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli” (Mt 26,26: cfr 14,19).
Concretamente che cosa è successo?
Il grande biblista Rinaldo Fabris dice che in origine il miracolo sarebbe stato una felice esperienza di cameratismo, e di solidarietà popolare: il gesto iniziale di Gesù che distribuisce il pane ed il pesce avrebbe dato avvio ad una catena di generosità tale da fare addirittura superare le provviste per tutta la folla. In breve, il picnic all’aperto ben riuscito, per il clima di fraternità ed entusiasmo creato da Gesù. Allora il miracolo, secondo Fabris, consisterebbe nel prodigio di una Parola che crea comunione e condivisione sovrabbondante. Cioè Gesù dice: “Datevi da fare”: prende due pesci e li dà al vicino, ciascuno tira fuori quello che ha, e alla fine mangiano tutti, in questo grande entusiasmo, e ne avanzano ancora.
Questa è una lettura un po’ diversa da quella solita, perché soprattutto in Giovanni e in tutta la tradizione si parla di miracolo autentico, di un prodigio, ma certamente si deve dire che questo è un significato primo, un mimo ancora una volta: cioè ad ogni Eucaristia noi dobbiamo essere trasformati dalla Parola al punto che mettiamo in comune quel poco che abbiamo con i fratelli e si crea un grande miracolo: che i beni si moltiplicano per tutti.
Se le nostre Messe fossero così! Dobbiamo convertirci perché le nostre Eucarestie non siano un momento di pia devozione individuale, ma siano anticipazione del banchetto escatologico, siano veramente nell’ottica di memoriale del mimo di Gesù. Momento sommo in cui ciascuno di noi, “alter Christus”, altro Cristo, si fa pane e si fa vino per i fratelli, in cui ognuno di noi, mettendo insieme quel poco che ha, crea il miracolo di sfamare il mondo.
Carlo Miglietta