Prima lettura: Isaia 49,3.5-6
Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra». |
«Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (Is 49,3).
Siamo di fronte ad una affermazione paradossale: Dio manifesta la sua gloria nascondendola in un «servo», la cui opera ha tutte le apparenze del fallimento e comporterà molte sofferenze (cf. Is 49,4; 50,6). Dio ha scelto Israele non per la sua potenza, o per i suoi meriti, ma per amore gratuito: «il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8).
Il «servo del Signore» è stato plasmato da lui fin «dal seno materno» (Is 49,1); Dio gli ha affidato una missione nei confronti di Israele e verso le genti. Tale missione comporta fatica, sofferenza, morie, ma Dio non lo ha abbandonato come sembra ad uno sguardo superficiale, ma è con lui proprio nel momento della sofferenza, mentre il successo è sì promesso, ma differito ad altro tempo (cf. Is 52,13-5).
Seconda lettura: 1Corinzi 1,1-3
Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! |
Paolo si presenta ai cristiani di Corinto come apostolo, chiamato da Dio (1Cor 1,1). Egli lo sottolinea con forza qui, come in altre lettere (cf. Rom 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1). Egli compie la sua missione secondo il volere di Dio e non secondo progetti personali. «Tutto il merito e la capacità sono di colui che chiama, al chiamato non resta che obbedire», dice Giovanni Crisostomo nel suo commento ai primi versetti della lettera ai Corinti, e aggiunge: «siamo stati chiamati perché piacque a Dio, non perché eravamo degni» (cf. PG 61,13-14).
Non solo l’apostolo, ma tutti i cristiani sono dei «chiamati», essi, come l’apostolo, «santificati in Cristo Gesù», e chiamati santi devono manifestare nella loro vita la santità seguendo le orme di Gesù, via verso il Padre, pronti anche ad affrontare la croce.
Paolo augura «grazia e pace». È l’indirizzo di saluto che l’apostolo ripete, come formula abituale, all’inizio e alla fine delle sue lettere. Augurare la pace, che nell’orizzonte biblico è un bene grande comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio, è un modo tipico di salutare ebraico che si e mantenuto dai tempi biblici fino ad oggi (cf. Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 1,17; 20,42,25,6.35; 2Re 5,19; 1Cr 112,19). Gesù risorto appare ai suoi augurando loro la pace (Lc 24,36; Gv 20,19.26).
Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, favore strettamente legato alla sua misericordia (cf. Es 33,19; Sap 3,9). Dio stesso nell’apparizione a Mosè nell’Esodo si proclama: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). I Salmi abbondano di espressioni che inneggiano alla grazia del Signore.
In Cristo, rivelatore del Padre, Signore Dio ricco di grazia e di misericordia, ci dice Paolo nella lettera ai Romani, abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo sui peccatori (cf. Rm. 3,21-26).
La chiamata di Dio in Cristo alla santità e al ministero dentro la comunità è dono di grazia; essa non è una qualità statica, ma accompagna il chiamato e la chiamata nello svolgimento dei loro compiti come Paolo riconosce più volte per se stesso (cf. 1Cor 3,10; 15,10; 12,3; Ef 3,7).
Vangelo: Giovanni 1,29-34
In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio». |
Esegesi
«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).
L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù come colui che toglie, o meglio, che «prende su di sé» il peccato del mondo. La traduzione «toglie» non rende efficacemente il significato della parola greca airein, che significa letteralmente sollevare, prendere su di sé, mentre la traduzione italiana «togliere» suggerisce l’idea di eliminare. Gesù è agli inizi della sua missione e non elimina il peccato con l’instaurazione gloriosa del regno di Dio, regno dove il peccato e le sue conseguenze non avranno più nessun potere, ma incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi.
Egli, dice ancora l’evangelista, è «l’agnello di Dio». Che cosa significa questa figura? Per cercare di capirla dobbiamo rifarci all’ambiente religioso ebraico contemporaneo a Gesù e alle Scritture ebraiche (Antico Testamento), che l’evangelista e i suoi interlocutori riconoscono come rivelazione di Dio.
Un ambito di riferimento possibile è il culto sacrificale del tempio di Gerusalemme; in particolare l’evangelista avrebbe pensato all’agnello pasquale a cui allude direttamente nel racconto della morte in croce (cf. Gv 19,36 in relazione a Es 12,46; Num 9,12; Sal 34,21). In questa direzione si muovono altri due passi neotestamentari: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7) e «foste liberati… con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19; cf. Es 12,4).
Sempre nell’ambito del culto sacrificale del tempio potrebbe esserci allusione al sacrificio dei due agnelli immolati ogni giorno nel tempio alla «presenza del Signore» uno al mattino e uno al tramonto (cf. Es 29,38).
Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore fra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto di amore e di offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio «olocausto perenne per tutte le generazioni» (cf. Es 29,42).
Alcuni studiosi biblici ritengono che l’espressione «agnello di Dio» sia equivalente a quella di «servo di Dio». Essi si basano sulla constatazione che il vocabolo greco amnòs, agnello usato da Gv 1,29,36 è lo stesso vocabolo della traduzione dei Settanta di Is 53,7 ripreso in Atti 8,32: «Come pecora fu condotto al macello, e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la bocca».
Queste diverse interpretazioni non si escludono a vicenda, ma aiutano a penetrare nella ricchezza della figura di Gesù, che l’evangelista ci presenta attraverso le parole del Battista. Come suggerisce anche la prima lettura, possiamo riferirci ai carmi del servo di Isaia per trovare le radici della figura di Gesù e cercare di capire qualcosa di più del mistero della sua missione e della stessa rivelazione di Dio.
L’«agnello-servo di Dio» è colui a cui Giovanni rende testimonianza, di fronte al quale egli si tira indietro. È lui quello a cui si deve guardare, è lui colui che deve essere rivelato ad Israele, perché proprio dentro Israele compirà la sua missione.
La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù «Figlio di Dio». Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito. Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto «lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (1Gv 1,32; cf. Is 11,2; 61,1).
Meditazione
Prima lettura e vangelo convergono verso un centro cristologico e sociologico. Isaia parla del Servo del Signore e della sua missione che ha ampiezza universale e consiste nell’essere «luce delle genti»; il vangelo applica a Gesù la tipologia del Servo-Agnello (il termine aramaico talja’ sembra significare tanto «agnello» quanto «servo»; in Is 53 il Servo è presentato come agnello afono) e il Battista ne annuncia la missione universale, «togliere il peccato del mondo».
Compito profetico è quello di preparare l’avvento del novum nella storia. La pagina di Isaia preannuncia l’inaudita estensione di orizzonte della missione del Servo (I lettura) e Giovanni introduce il novum nella storia indicando Gesù quale Messia, prima sconosciuto («In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete»: Gv 1,27). Il profeta sa creare speranza e orientarla, sa dare volto e nome a ciò che sta fiorendo nella storia e aiutarne la nascita. La profezia è la maieutica del futuro che da senso e luce all’oggi.
Il testo evangelico presenta discretamente uno squarcio sull’esperienza spirituale di Giovanni Battista in ordine alla conoscenza dell’identità profonda di Gesù. Giovanni «non conosceva» Gesù nella sua identità messianica e di rivelatore del Padre (Gv 1,31.33): ma l’ascolto della parola Dio (Gv 1,33) ha reso vigile il suo sguardo che ha saputo vedere lo Spirito posarsi su Gesù (Gv 1,32.34). L’ascolto della parola rende possibile la visione, ovvero, l’esperienza dello Spirito. La conoscenza che ne scaturisce non è affatto disincarnata o intellettuale, ma partecipe e coinvolta: è testimonianza (Gv 1,34). L’itinerario spirituale della conoscenza di Dio nella storia si può così delineare: ascolto — discernimento — testimonianza. Anche il cristiano è chiamato al compito di vedere lo Spirito, cioè di discernere la sua presenza attiva nella storia e nelle vite degli uomini. E lo Spirito viene reso visibile dai suoi frutti (Gal 5,22), dalle sue manifestazioni e operazioni (1 Cor 2,4-11) negli uomini e nelle loro relazioni.
Gesù appare il luogo in cui lo Spirito trova riposo, dimora stabile. La sua obbedienza di inviato, di Servo, di Agnello, è arricchita e completata dalla creatività dello Spirito e dai suoi multiformi doni. Obbedienza e creatività sono elementi inscindibili anche della vita cristiana.
La conoscenza di Gesù a cui perviene Giovanni è anche un far conoscere (Gv 1,31), una conoscenza non chiusa su di sé, ma diffusiva e irraggiante. Tale conoscenza nasce dall’obbedienza di Giovanni a Colui che l’ha inviato: essa è dunque dono a cui Giovanni si è aperto e reso disponibile riconoscendo la propria ignoranza. Si tratta di un movimento pasquale che fa passare dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della conoscenza. Il testo suggerisce che la missione non può mai essere scissa dall’obbedienza personale alla parola del Signore e dal personale coinvolgimento con il Signore.
Noi non possiamo dire di conoscere Gesù una volta per tutte. C’è una non-conoscenza del Signore che è vitale per la sua retta conoscenza. Una conoscenza troppo certa del Signore rischia di falsarne i tratti rivelati dal vangelo. Il Gesù che Giovanni presenta e che i vangeli mostrano è il Gesù rivelato dallo Spirito di Dio, non la proiezione dei miraggi dell’uomo; è il Servo obbediente, non un dominatore tirannico; è l’Agnello inerme e innocente, non un Moloch distruttivo o una potenza che crea sofferenza; è il Figlio di Dio, non un idolo partorito dalla mente umana o fabbricato da mani d’uomo. La conoscenza del Signore va sempre rinnovata ed è solo per grazia, nella fede, che viene rinnovata. Essa abbisogna di essere sempre purificata e sottratta al rischio di divenire una stanca abitudine. Noi siamo tentati di rendere vecchia, stantia, ingessata, atrofizzata la nostra conoscenza del Signore e possiamo ritrovarci ad adorare un idolo invece che il Signore vivente. Sicché vale anche per noi credenti, sempre, l’umile riconoscimento che, pur confessandolo e conoscendolo, in verità noi anche non conosciamo il Signore. Solo questa non-conoscenza libera la conoscenza dal voler essere esaustiva del mistero del Signore.
Commento a cura di don Jesús Manuel García