Prima lettura: Esodo 32,7-11.13-14
In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo. |
Questa lettura viene oggi utilizzata per introdurre il tema più ampiamente sviluppato nella lettura evangelica: quello della misericordia di Dio, che rinunzia a punire il popolo, responsabile di un gravissimo peccato, grazie all’intercessione di Mosé.
Il racconto del vitello d’oro, che gli Israeliti avrebbero costruito per raffigurare il Dio che li aveva tirati fuori dall’Egitto, appartiene a una sezione del libro dell’Esodo (quella dei cc. 32-34) in cui si intrecciano in maniera inestricabile le tradizioni più antiche del Pentateuco. In particolare, il racconto del vitello d’oro della nostra lettura pare che derivi direttamente dal testo di 1 Re 12,26-28, dove si racconta come Geroboamo, che si era ribellato al figlio di Salomone, di ritorno dall’Egitto, per spezzare ogni vincolo tra le tribù ribelli settentrionali e Gerusalemme, fece fare due torelli d’oro e disse: «Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (v. 28). Questa dipendenza può spiegare pienamente l’identità della stessa frase nella nostra lettura (v. 4).
La colpa qui attribuita agli Israeliti è quella di essere scivolati verso l’assimilazione con i popoli pagani loro contemporanei: con i Cananei, che rappresentavano Bahal-Hadad, dio della tempesta, a cavalcioni su un toro, con una folgore in mano; con gli Egiziani, che a Heliopolis rappresentavano Osiride incarnato nel toro-Apis e a Menfi adoravano il toro-Mnevis nel tempio di Ptah.
Per la nostra liturgia, sono particolarmente importanti i vv. 13-14, nei quali Mosé, nella figura dell’intercessore, espone la ragione principale che può indurre Dio a perdonare quella colpa: la promessa da lui fatta, con giuramento, ai suoi servi Abramo, Isacco e Giacobbe (Israele).
Seconda lettura: 1Timoteo 1,12-17
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. |
Nel tempo ordinario, la seconda lettura è indipendente dalle altre due, che sono invece tra loro coordinate. Non accade spesso dunque che il tema di quella si armonizzi perfettamente, con quello delle altre due. Ciò capita per l’appunto questa domenica. L’autore della prima a Timoteo (che quasi certamente non è lo stesso s. Paolo) traccia, nel brano che fa da nostra seconda lettura, il modello ideale di un pubblico rendimento di grazie alla divina misericordia, che vuole salvi tutti i peccatori.
Il motivo del ringraziamento, che faceva parte del protocollo epistolare antico, è qui sviluppato mediante il procedimento dell’antitesi tra il prima e il dopo dell’incontro di Paolo con Cristo. Almeno in tre passi delle lettere autentiche di Paolo è tracciato un analogo passaggio tra il prima e il dopo: In Gal 1,13-17; in 1 Cor 15,8-10; in Fil 3,6-14. Ma in nessuno di questi testi il passato di Paolo è descritto come privo di fede e peccaminoso (un bestemmiatore…); che anzi sempre si insiste sul suo zelo per Dio e la sua legge. È invece negli atti degli Apostoli (9,1-16; 22,1-15; 26,9-18) che il prima di Paolo è qualificato negativamente, come quello di un bestemmiatore e del persecutore spietato, che repentinamente, dopo, diventa strumento scelto per il Vangelo di Gesù. Il ritratto di Paolo qui delineato è dunque più vicino a quello che di lui è tracciato nel libro degli Atti, anziché al suo stesso autoritratto. Anche l’espressione «agivo per ignoranza, lontano dalla fede» riporta Paolo alla condizione dei pagani che, secondo Atti 17,30, appartenevano «ai tempi dell’ignoranza». La descrizione a tinte fosche serve all’autore della prima a Timoteo per mettere in risalto la misericordia di Dio, manifestatasi mediante la grazia di Gesù Signore nostro. Serve soprattutto per giungere all’enunciazione di una specie di professione di fede, ritenuta «degna di fede e di essere accolta da tutti», cioè che «Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori».
Questa succinta professione di fede sintetizza bene il principale messaggio contenuto nella liturgia di questa domenica.
Vangelo: Luca 15,1-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». |
Esegesi
Il capitolo da cui è tratta la lettura evangelica di questa domenica è stato definito da un moderno esegeta «il cuore del terzo vangelo», quasi «il vangelo del vangelo». Si tratta del capitolo 15 del vangelo di Luca. Esso contiene una breve introduzione, che accenna al motivo per il quale Gesù volle impartire il suo particolare insegnamento sopra un tema assai importante, più un’ampia esposizione dottrinale, racchiusa in tre parabole. Nell’introduzione è detto che l’occasione fu la mormorazione di scribi e farisei, i quali si scandalizzavano per il fatto che Gesù ricevesse i peccatori e mangiasse addirittura con loro. Le tre parabole sono quelle della pecora smarrita e poi ritrovata, della moneta perduta e ritrovata, più quella del figlio prodigo che il padre riaccoglie con gioia. Il tema principale, sviluppato nelle tre parabole, è quello della misericordia del Padre, che non gode per la rovina dei suoi figli, ma vuole che si salvino e grandemente gioisce quando il suo piano si realizza.
Nel ciclo liturgico di quest’anno, che è il ciclo C, la parabole del figlio prodigo, insieme ai tre versetti introduttivi del capitolo, ci è stata già proposta nella quarta Domenica di quaresima. Oggi, 24° Domenica del tempo ordinario, ci è data la possibilità di fare un’ampia riflessione sull’intero capitolo 15 di Luca, proclamando tutte e tre le parabole, oppure di limitarci alla lettura e alla riflessione sopra le due parabole più brevi, quelle della pecora e della moneta smarrite e ritrovate. Alcune osservazioni filologiche ci aiuteranno a capire in profondità il nostro testo.
Nella frase «si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori» (v. 1), il termine tutti deve certamente intendersi in senso iperbolico; tuttavia, in qualche modo, vi si può leggere un accenno alla possibilità che è offerta a tutti di accostarsi a Gesù.
Nel v. 2, la mormorazione attribuita a farisei e scribi non deve intendersi come un semplice pettegolare privo di gravità, ma va allineata al peccato grave degli israeliti, i quali, nel deserto, sospettarono che Dio con l’inganno li avesse tirati fuori dall’Egitto, per farli morire di fame e di sete (Es 17,3). Inoltre, l’accusa mossa a Gesù, che riceve i peccatori e mangia con loro, è ritenuta assai grave dagli scribi e dai farisei, perché, presentandosi Gesù come il Messia, egli presentava un’immagine aberrante, a loro giudizio, della comunione escatologica nel Regno di Dio.
Nel v. 3, può sorprendere l’espressione «disse loro questa parabola», al singolare. La difficoltà si supera dando qui al termine parabola il senso di discorso in parabole.
Nei vv. 4-7, c’è la parabola della pecora smarrita e ritrovata. La stessa parabola è riportata anche in Mt 18,12-14, nel contesto del così detto discorso comunitario. Abbiamo qui un esempio tipico della moderata libertà con cui le comunità cristiane primitive (e gli stessi evangelisti) accoglievano e riferivano le parole di Gesù, applicandole a situazioni diverse. Nel testo di Matteo, la parabola, inserita nel discorso comunitario, è piegata a illustrare il dovere che ha ogni cristiano di aiutare i propri fratelli traviati a ritornare nell’ovile; il suo vertice è espresso dalle parole: «il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno di questi piccoli». Molti esegeti ritengono che il testo di Luca abbia conservato meglio il senso primitivo della parabola, che sarebbe concentrato sulla conversione (o pentimento) del peccatore, motivo di gioia grande per il Signore infatti espresso nelle parole: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.».
Bisogna anche notare che, rispetto al testo di Matteo, in Luca, la descrizione della scena guadagna molto in vivacità («Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini …», ma il racconto perde in realismo e continuità; infatti, che fine hanno fatto le novantanove pecore lasciate dal pastore nel deserto per andare dietro a quella perduta? Tuttavia la piccola incoerenza narrativa è dovuta al fatto che il senso religioso della parabola è più importante della verosimiglianza della storia: il narratore dimentica addirittura che stava parlando di un gregge e di una pecora e passa a parlare direttamente di giusti e del peccatore convertito.
Nei vv. 8-10, c’è la parabola della moneta perduta e ritrovata. Essa è esclusiva di Luca e potrebbe anche apparire superflua, perché il suo significato è esattamente uguale a quello della parabola precedente. Ci sono però in Luca altri esempi di parabole abbinate, aventi lo stesso significato: quelle del vestito e dell’otre di vino (5,36-39), quelle del granello di senape e del lievito (13,18-21) e altre. La ripetizione strettamente palestinese, il che esclude che si possa trattare di una creazione letteraria dell’evangelista. La dramma era una moneta equivalente, più o meno, a un denaro (la paga giornaliera che si dava a un bracciante). Anche in questa parabola, il vertice è racchiuso in una frase che parla della «gioia… di Dio per un solo peccatore che si converte». L’espressione «davanti agli angeli…», sembra non aggiunga niente alla frase «in cielo», che si trova nella parabola precedente.
Ambedue queste parabole, pur riferendosi al peccatore che si converte, puntano l’attenzione esclusivamente su Dio, che cerca e trova qualcosa che rischiava di essere perduto. Si vuol dunque sottolineare che la salvezza del peccatore è principalmente una iniziativa di Dio.
La terza parabola, quella del figlio prodigo che torna alla casa paterna, allarga la prospettiva precedente, includendo nel suo messaggio il cammino che lo stesso peccatore deve percorrere perché l’attesa del padre sia soddisfatta. Tuttavia, anche qui il vertice della parabola è rappresentato dal comportamento del padre, che fa festa per il figlio ritrovato, come si farebbe per uno che fosse risuscitato dai morti. Questo comportamento simboleggia a forti tinte la misericordia di Dio che, non rifiutando agli uomini di poter disporre liberamente dei suoi doni, resta in vigile attesa del loro ritorno, quando essi si sono sbandati, allontanandosi da lui.
Nella parabola, la misericordia divina diventa tenerezza ed è ulteriormente sottolineata dal comportamento del figlio maggiore, che non accetta subito di partecipare alla gioia paterna, ma ha bisogno che gli si spieghi come quella misericordia non tolga niente a lui stesso. Solo accogliendo questa spiegazione del padre, il figlio maggiore potrà continuare a godere della casa e dell’affetto paterno: se la rifiutasse, sarebbe lui a restarne privo per sempre, diventando egli stesso un profugo per sempre.
Meditazione
La storia della salvezza è anche la storia della santità di Dio messa a confronto con il peccato dell’uomo. Di fronte al popolo peccatore l’intercessione di Mosè conduce Dio a desistere dal proposito di nuocere al popolo (I lettura); di fronte al peccato dei due figli, peccato come allontanamento e rottura di relazione nel figlio minore, peccato come pretesa, gelosia e risentimento nel maggiore, il padre della parabola lucana si sottomette e ad entrambi narra l’amore fedele e mite (vangelo).
L’unica parabola narrata da Gesù (Gesù «disse loro questa parabola»; Lc 15,3), in realtà, ne contiene tre. Esse narrano l’esperienza di una perdita e di un ritrovamento. I due momenti non sono simultanei e il primo aspetto è quello della perdita. La gioia del ritrovamento è preceduta dal dolore per la perdita. Perdita di una pecora, perdita di una moneta, e infine, perdita di un figlio. Ma l’allontanarsi dalla casa paterna di un figlio diviene perdita e morte che il padre esperimenta in se stesso. E se in Dio vi è la gioia del ritrovamento (cfr. Lc 15,7.10), certamente vi è anche il dolore per la perdita. L’unica e trina parabola sintetizza così la storia della salvezza: Dio in cerca di Adamo uscito dal giardino della relazione. Le strade che Dio percorre sono le infinite vie della perdizione umana: è lui che cerca l’uomo, bussa alla sua porta, chiede all’uomo. La parabola presenta il padre come colui che attende il figlio che se n’è andato di casa e gli esce incontro quando lo scorge tornare, e che esce incontro al figlio maggiore e lo prega di entrare per far festa con il fratello. Dio in attesa dell’uomo, Dio che prega l’uomo.
Dalla parabola emerge la forza dell’inermità del padre. Egli appare passivo: non mette in guardia il figlio minore dai pericoli che può incontrare andandosene da casa, non lo rimprovera quando ritorna né gli chiede penitenze o espiazioni e nemmeno un ‘fare i conti’ prima di essere eventualmente riammesso nella casa da dove ha voluto andarsene. E proprio questo amore incondizionato, che rifugge da atteggiamenti punitivi, è la via aperta al giovane per fare esperienza del perdono. Il padre non costringe il figlio maggiore ad entrare, ma gli esce incontro, lo prega, non lo rimprovera, ma resta nella dolcezza dell’amore e proprio questo atteggiamento conduce il figlio ad esprimere ciò che sente e prova. Il padre non fa nulla e accoglie anche l’espressione del suo odio per il fratello e del suo risentimento verso di lui, solamente ricordandogli che lui stesso è un figlio e che colui che è tornato è suo fratello (Lc 15,32). E questo atteggiamento esprime la fiducia che egli accorda al figlio, vera matrice in cui egli potrà rinascere come figlio, così come il minore ha trovato nell’abbraccio paterno l’alveo della propria rigenerazione a figlio.
La riconciliazione può avvenire grazie a questa debolezza: è ciò che è avvenuto nella croce di Cristo. La riconciliazione attuata da Cristo nasce dal movimento di abbassamento e di kenosi divina che ha raggiunto il suo apice nella croce. Lo scandalo della rivelazione cristiana afferma che è l’impotenza raggiunta da Dio nella croce del Figlio che opera la riconciliazione (Rm 5,8-11 ).
La strada percorsa dal figlio minore va dalla pretesa all’impossibilità: dal «Dammi!» (Lc 15,12) imposto al padre, al «nessuno gli dava nulla» (Lc 15,16) riferito alle carrube che i maiali mangiavano. Il figlio maggiore è invece tutto nel risentimento e nella collera: «Non mi hai mai dato» (Lc 15,29). Entrambi, figlio ribelle e figlio servo, non hanno saputo cogliere che il dono grande è la relazione filiale.
La casa, segno di comunione che dovrebbe unire i due figli, diviene luogo da cui uno fugge e in cui l’altro non vuole entrare. L’eredità, invece di accomunare, divide i fratelli, e la festa da uno è subita e dall’altro è rifiutata. Solo una prassi di amore incondizionato, come quella del padre, può fare della chiesa il luogo della riconciliazione, della fraternità, della trasmissione dell’amore e della condivisione della gioia. Solo quell’amore fa della chiesa il luogo del perdono e della festa.