Il commento alle letture di domenica 14 Giugno 2020 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.
Per capire i testi neotestamentari di istituzione dell’Eucarestia bisogna avere ben presente quel genere letterario, così frequentemente adoperato nei libri profetici, che è il “mimo”. Nel linguaggio dei profeti, infatti, un posto particolarissimo occupano le azioni simboliche: sono più di trenta, e precedono o accompagnano le esposizioni orali. Proprio per significare che la Parola di Dio non è puro “afflatus vocis”, ma fatto che si compie, storia concreta, il profeta, su ordine divino, la incarna in gesti simbolici – rivelativi. Talora sono vere pantomime, piccole “scenette”, brevi “spot pubblicitari” che devono servire a imprimere bene, nella mente degli astanti, un determinato concetto o una particolare rivelazione.
L’Eucarestia “mimo” profetico
Farsi mangiare dagli uomini
Quando Gesù istituisce l’Eucarestia, opera anzitutto un mimo profetico. Quanto compie nell’ultima cena è “l’ultima parabola di Gesù” (J. Jeremias, citato in X. Léon-Dufour). Porgendo il pane, dice: “Questo è il mio corpo dato per voi”; offrendo il calice: “Questo è il mio sangue, versato per voi” (Lc 22,19-20): il primo significato di questa azione è che egli si è donato totalmente agli uomini, che la sua vita è stata oblazione piena per la vita dei fratelli, che si è interamente consumato per essi, e che egli è diventato, offrendosi per loro come il pane e il vino, il loro sostegno e la loro sopravvivenza. “Distribuendo il pane, Gesù manifesta con le parole che <<si dà per>>. Facendo circolare il calice, dichiara che <<versa il suo sangue>>. I due gesti di Gesù ne ricevono un valore simbolico: il dono della propria persona a vantaggio dei discepoli, che giunge fino allo spargimento del sangue” (X. Léon-Dufour). “Davanti ai suoi discepoli Gesù fa un mimo della sua morte, rappresentandola davanti a loro; è l’atteggiamento di un profeta e di un martire che porta la missione fino al suo compimento, dando alla sua propria morte un significato di amore e di servizio” (A. Marchadour).
La volontarietà del dono
Due sono le sottolineature che Gesù vuole dare al suo gesto. La prima è l’assoluta volontarietà del suo donarsi: il suo farsi uomo fino alla morte non è dato dall’ineluttabilità del caso, ma è sua libera scelta d’amore: “La mia vita, nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, perché ho il potere di offrirla” (Gv 10,18); “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12,27). Gli evangelisti sapevano che “il Padre gli aveva dato tutto nelle mani” (Gv 13,3), e apposta rimarcano che Gesù prevede il tradimento di Giuda. Tutti i racconti di istituzione eucaristica sono sotto il segno di questa consapevolezza di Gesù: “In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà” (Mc 14,18); “La mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola” (Lc 22,21); “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà” (Mt 26,23; cfr Gv 13,26). Gesù accetta quindi volontariamente fino in fondo la sua condivisione con l’uomo: non si tira indietro, non fugge. Deliberatamente si offre. “Per questo nell’Ultima Cena <<se dat suis manibus>>: la sua Passione sarà il Corpo dato e il Sangue versato da lui” (A. Bozzolo).
La totalità del dono
Il secondo aspetto del mimo profetico è l’assoluta totalità del suo donarsi: Cristo, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1), fino al supremo compimento dell’amore, che è dare la vita per coloro che si amano (cfr Gv 15,13): il pane mangiato e il vino bevuto sono il segno di questo “consumarsi” per i suoi, farsi tutto per essi.
Il comando di imitare Gesù
Due comandi accompagnano l’azione profetica: il primo è: “Prendete, mangiate…; bevete” (Mc 14,22; Mt 26,26.28): i discepoli non sono solo oggetto passivo di questa autodonazione del Cristo, ma sono invitati a prenderne parte attiva, a partecipare al suo amore, ad accettare la sua vita come dono, a riempirsi consapevolmente e responsabilmente di lui. Da questo nasce il secondo comando: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1 Cor 11,24): Gesù ordina che anche i suoi discepoli si facciano pane e bevanda per gli altri, divengano cibo per tutti, si lascino “mangiare” dai fratelli.
L’importanza del mimo eucaristico
Nella lettura biblica del mimo il primo significato è quindi l’invito al dono totale agli altri, sull’esempio del Maestro. Gli altri significati (la presenza reale di Cristo, il sacrificio della Nuova Alleanza, un segno escatologico…), ci sono certamente, ma sono a questo secondari e da questo traggono luce e comprensione.
Si noti che, nel mimo eucaristico, “il momento centrale è dato non dai due elementi significativi del corpo e del sangue, bensì dal dono che Dio fa di Gesù e che si compie nella sua morte violenta (<<il mio sangue versato>>)… Vuol dire che i discepoli divengono partecipi dell’autodonazione di Gesù nel momento stesso in cui ricevono il pane… La cena del Signore è dunque un’azione – segno, profetica, cioè vera, e non solo simbolica: nel porgere il pane spezzato e il vino rosso, si verifica e si comunica la realtà indicata con l’azione – segno, la partecipazione dei discepoli all’atto del donare la vita che Gesù compie donando la propria per i molti” (B. Klappert).
“Il pane che io darò è la mia carne”
Tutti sono concordi che la prima parte del capitolo 6 di Giovanni può essere letta in chiave spiritualista, con qualche allusione all’Eucarestia: ma invece i versetti 51-58 sono da intendersi solo in senso sacramentale?
“«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno»” (Gv 6,51-58).
Il primo significato rivelativo anche di questi versetti è certamente l’adesione a Cristo. Se nella prima parte del capitolo le parole – chiave erano “venire a me” e “credere” (Gv 6,35), ora sono “dare” e “mangiare – bere”: là si chiedeva fede in Dio che entra nella storia in Gesù (incarnazione), qui in Dio che si dona fino al sacrificio di sè (redenzione).
Le parole “carne – sangue” non indicano semplicemente la persona di Gesù, ma che egli sta per essere consegnato alla morte. L’eresia gnostica e docetica, contro i cui influssi già Giovanni scrive, riteneva impossibile che un Dio potesse patire e morire: Gesù di Nazareth avrebbe solo ospitato la divinità dal Battesimo all’inizio della Passione. Giovanni insiste invece sulla realtà dell’incarnazione, sulla completa identificazione del Cristo divino con l’uomo Gesù di Nazareth, sul fatto che Gesù è il Cristo venuto “non in acqua soltanto, ma in acqua e sangue” (1 Gv 5,6): la teofania battesimale è inscindibile dalla morte in croce, che per Giovanni è il luogo massimo della manifestazione di Dio. Per questo ribadisce la necessità di unirsi non al “corpo” di Cristo, ma alla sua “sarx”, termine che significa “carne” in senso plastico, anatomico, muscolare: e scandalizza usando il verbo quanto mai concreto “troghein” (da cui la parola “trogolo”…) che non significa tanto “mangiare” quanto “masticare”, “divorare”, “brucare”. Non bisogna edulcorare questo realismo: è il realismo dell’incarnazione.
La celebrazione dell’Eucarestia, con la sua concretezza sacramentale, è segno della vera umanità di Cristo: partecipando ad essa, noi “annunciamo la sua morte, proclamiamo la sua resurrezione, nell’attesa della sua venuta”. “La comprensione realistica del pasto sacramentale (mangiare la carne, bere il sangue) non ha niente di magico. Attraverso il pasto Gesù stesso si unisce a quelli che lo ricevono (Gv 6,56); essi vivono attraverso di lui ed egli li risusciterà… (Gv 6, 54). Il nutrimento sacramentale è solo un mezzo per raggiungere una comunione personale con lui” (R. Schnackenburg), vero Dio e vero uomo.
Il testo torna più volte sul concetto di “ultimo giorno” (Gv 6,39.40.44.54). “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della Festa”, Gesù invita ad abbeverarsi all’acqua viva che sgorgherà dal suo seno, cioè dallo Spirito che egli spanderà alla sua glorificazione (Gv 7,37-39): ciò si realizzerà nella sua morte, quando egli sarà glorificato, effonderà il suo Spirito, e dal suo fianco uscirà acqua (Gv 19,33-34). Giovanni è l’annunciatore di un’escatologia che già si compie nel mistero di Cristo: “Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede in lui è già stato condannato” (Gv 3,18); “chi crede ha la vita eterna” (Gv 3,36; 6,47.54); nella sua morte una volta per tutte sono stati vinti il satana, la sofferenza e la morte.
Mangiando la sua carne ed il suo sangue, partecipando cioè al mistero della sua morte, già ora abbiamo la vita eterna. In realtà questo “già” è tale nella fede, perchè siamo ancora prigionieri della nostra finitudine creaturale: l’Eucarestia ci immerge nell’ottimismo di una vittoria già realizzata, e al contempo ci è pegno della nostra resurrezione futura (Gv 6,54), aprendoci a un “non ancora” che si realizzerà alla nostra morte, quando contempleremo faccia a faccia la gloria di Dio (1 Cor 13,12). L’Eucarestia, inserendoci nel passato della morte del Signore, ci incardina nel presente di una vita in lui che inabita in noi (Gv 6,56), proiettandoci nella comunione totale con Dio del banchetto messianico futuro.
Parola e Segno
Il rapporto tra Parola ed Eucarestia è biblicamente strettissimo. Nei Sinottici, i racconti di istituzione dell’Eucarestia avvengono in un contesto interpretativo verbale da parte di Gesù: ogni suo gesto è accompagnato dalla Parola che lo illumina e lo spiega.
In Giovanni, secondo il suo solito, al miracolo della moltiplicazione del pane al capitolo 6 fa seguito il grande discorso esplicativo sull’Eucarestia, discorso in cui addirittura gli esegeti faticano a comprendere ciò che Gesù riferisce alla sua Parola e ciò che riferisce al suo Corpo. Per alcuni “un discorso eucaristico (6,51-58: Gesù vero nutrimento mediante il suo corpo e il suo sangue) sarebbe stato inserito nel racconto – discorso seguente: ai giudei che reclamano un <<segno >> analogo a quello della manna (vv. 30-31; cfr 1,21+) Gesù risponde: <<Con l’insegnamento del Padre che trasmetto agli uomini (cfr 3,11+) sono io il vero pane, assimilabile mediante la fede (vv. 32s)>>“ (Bibbia di Gerusalemme). Giovanni fa molti riferimenti all’Antico Testamento, dove spesso la Parola era accostata o paragonata al cibo: “Ti ha nutrito con la manna…, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3); “La Sapienza… ha ucciso gli animali, ha preparato il vino e ha imbandito la tavola… A chi è privo di senno essa dice: <<Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato>>” (Pr 8,22-24 e 9,1-6); “La Sapienza loda se stessa…: <<Come una vite ho prodotto germogli graziosi e i miei fiori, frutti di gloria e di ricchezza. Avvicinatevi a me…, e saziatevi dei miei prodotti… Quanti si nutrono di me avranno ancora fame, e quanti bevono di me, avranno ancora sete>>” (Sir 24,1.17-21). Quindi Giovanni opera, nel capitolo sesto del suo Vangelo, una continua identificazione tra la Parola e il Corpo di Cristo: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51).
Sempre Giovanni, che non racconta l’istituzione dell’Eucarestia nell’ultima cena, pone però nel contesto dell’ultimo pasto del Signore il suo più lungo discorso, che occupa ben quattro capitoli del Vangelo (Gv 13-17), il cosiddetto “discorso di addio”, nel genere letterario, abbiamo visto, dei colloqui testamentari.
Parola e Segno quindi si rimandano vicendevolmente. Tutta la Messa è liturgia della Parola, Parola che ad un certo punto diventa sacramento. E la stessa Scrittura è già sacramento, perché segno della Parola stessa di Dio. Senza la Parola il sacramento appare muto. E’ il mistero del “Verbo che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo visto la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,4).
Carlo Miglietta
Da: C. MIGLIETTA, L’EUCARESTIA SECONDO LA BIBBIA. Itinerario biblico-spirituale, Gribaudi, Milano, 2005, con presentazione di S. E. Mons. Giacomo Lanzetti