Prima lettura: Isaia 50,4-7
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso. |
Dopo la gioiosa processione iniziale, con le palme benedette, questa prima lettura introduce la partecipazione alle sofferenze e ai sentimenti di Cristo, nella passione. È la parte iniziale del terzo carme di Isaia sul «Servo sofferente», una «confessione», sul tipo «di alcune composizioni di Geremia e dei Salmi di lamento individuale».
Dapprima il Servo ricorda, in modo appassionato, la missione ricevuta di sostenere gli sfiduciati, quali erano i rimpatriati dall’esilio babilonese, alla fine del VI secolo a.C., in mezzo a tante difficoltà e ostilità. Poi proclama come l’ha vissuta, grazie ai doni del Signore di una lingua e di un orecchio «da iniziati», cioè degli introdotti e pienamente dediti all’ascolto e alla proclamazione della parola di Dio. Ciò implica un impegno profondo e costante anche suo. Anzi, ha richiesto la più dura testimonianza della vita, per le persecuzioni, espresse col piegare il dorso ai flagellatori, e per le umiliazioni subite, che si possono prendere alla lettera, fatte di insulti, sputi in faccia e depilazioni infamanti.
Di fronte a tutto questo, il Servo riafferma i suoi più profondi sentimenti. Non si tira indietro, ma affronta con coraggio le prove. È sicuro che Dio lo assiste, per questo non ha confusioni e incertezze, ma rende la faccia dura e impavida come roccia.
La lettura si ferma qui, forse per restare a quanto è più consono ai sentimenti di Cristo nella passione che segue. Nei versetti che completano il carme, il Servo sfida pure gli avversari sulla giustezza delle sue posizioni ed è sicuro che saranno confusi da Dio e logorati come veste intaccata dalle tarme. Non sono sentimenti teneri ma neppure estranei a Cristo. Forse i cristiani d’oggi dovrebbero riscoprire il modo e il coraggio di ripeterli.
Seconda lettura: Filippesi 2,6-11
Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. |
La lettera ai Filippesi indirizzata alla prima comunità cristiana fondata da Paolo in Europa, ha in quest’inno cristologico il perno del suo messaggio, carico di stimoli per la vita cristiana di tutti e di sempre. L’apostolo si trova in catene (Fil 1,7.14), fortemente impegnato a vivere il mistero di Cristo morto e risorto, che va predicando. Brama di «cono-scere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti». Dai Filippesi ha accettato più volte aiuti materiali come partecipazione della sua tribolazione (Fil 4,14-16) e li ringrazia. Ma molto di più desidera che siano partecipi della sua adesione a Cristo, da «cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27) e da cristiani che vivono in comunione (Fil 2,1-4). Per questo è inscindibile dal brano odierno l’invito che lo introduce: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Esso vale anche per noi, oggi, proprio come cittadini e come cristiani.
Può darsi che Paolo stesso sia l’autore di questa composizione ritmata. Ma più probabilmente l’ha presa dalla liturgia preesistente e l’ha adattata ai suoi intendimenti. È chiaro lo schema in due parti simmetriche, una discendente nella kènosys e l’altra ascendente nella esaltazione.
Con la kènosys, svuotamento (vv. 6-8), Cristo scende dal trono più alto all’abisso più profondo, per gradini vertiginosi. Al contrario di Adamo, presuntuoso di essere come Dio, egli passa dalla reale «uguaglianza con Dio» alla «condizione di servo»; quindi da regnante supremo a servo obbediente; in una obbedienza non ordinaria, ma fino alla morte; e una morte non qualunque, ma in croce, come si usava per gli schiavi e per i delinquenti peggiori…
Con la esaltazione (vv. 9-11), Dio gli fa risalire tutti i gradini. Vi sono coinvolte tutte le creature ed è conseguente, anzi intrinseca, all’annientamento. A Cristo da, anzitutto un Nome, cioè una realtà e missione al di sopra di ogni altro; quindi sottomette a lui tutti gli esseri buoni e cattivi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e, nel riconoscimento della signoria universale di lui, da ad ogni persona la possibilità di ritrovare e di vivere la gloria della paternità divina.
Di seguito, Paolo indica ai Filippesi alcune conseguenze pratiche da tirare, che valgono anche per noi se le attualizziamo, rapportandole alla vita nella società e nella Chiesa di oggi.
Vangelo: Luca 22,14-23,56
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Esegesi
Essendo qui impossibile l’analisi esegetica dell’intero racconto della passione, che è sostanzialmente conforme a quello degli altri evangelisti, ci limitiamo a segnalare alcune particolarità di questo racconto, che ci consentono di capire i principali messaggi religiosi ad esso collegati da Luca. Si tratta soprattutto di omissioni e di aggiunte, rispetto al testo di Marco, da cui certamente il racconto di Luca dipende. Sottolineeremo soltanto le variazioni più significative e di più facile interpretazione.
Tra le variazioni apportate al racconto marciano della passione, si deve considerare quello che contiene l’insegnamento di Gesù su chi sia il più grande tra i suoi discepoli, che Luca sposta qui, nella cornice dell’ultima cena: 22,24-27.
Questo testo Marco lo riporta in 10,41-45 e Matteo in 20,24-28. Lo spostamento serve a Luca per sottolineare l’idea che la passione e morte di Gesù non si deve considerare affatto come una sconfitta, ma è un elemento integrante della via della salvezza.
Elemento aggiuntivo è il brano detto delle due spade: 22,35-38. In esso Gesù annunzia con molta chiarezza ai discepoli che, con la passione del loro maestro, comincia anche per loro il tempo delle difficoltà e dei contrasti. Per dare maggior forza alle sue parole, Gesù stabilisce una contrapposizione tra la missione in Galilea, descritta in Lc 9,1-6 («non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, … né denaro,…»), e la missione che essi dovranno svolgere nel futuro: «…ora chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una». Gli apostoli non capiscono il senso metaforico dell’accenno alla spada e ne mettono due a disposizione del maestro. Ma Gesù interrompe il discorso con un basta! Il brano è servito a Luca per ricordare che anche la condizione della sua Chiesa sarà caratterizzata da contrasto e persecuzione.
Il racconto dell’agonia nell’orto degli ulivi (22,39-45), sostanzialmente conforme a quello di Marco e Matteo, se ne differenzia per elementi omessi e per altri aggiunti. Mentre non si attenua in nulla l’angoscia sofferta da Gesù durante la sua preghiera, arrivando essa addirittura a un sudore come gocce di sangue (v. 44); nulla è detto del bisogno di Gesù di sentire vicini a sé i discepoli oranti; egli prega solo, lontano dai suoi e, alla fine, «Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo» (v. 43). Con queste variazioni, risplende maggiormente, pur nella sofferenza intensa, la maestà solitaria di Gesù.
Notevoli variazioni, rispetto al testo di Marco-Matteo, ci sono in Luca nella descrizione del comportamento di Pilato. Di costui l’evangelista sembra voler sottolineare una certa dignità e compostezza. Udite le molte e confuse accuse mosse contro Gesù dalla folla, egli si limita a porre una lapidaria domanda all’accusato: «Sei tu il re dei Giudei?» (23,3). La risposta ricevuta gli basta per decretare l’inconsistenza di quelle accuse e dichiara senz’altro:
«Non trovo nessuna colpa in quest’uomo» (23,5-7). Messa poi in evidenza la inconsistente fatuità di erode, Luca ritorna a parlare di Pilato, ribadendo la sua correttezza di magistrato romano, che vuol chiudere il caso con una dichiarazione solenne dell’innocenza di Gesù, appoggiato anche all’opinione di Erode. Pensa di rabbonire quei forsennati dicendo loro: «Perciò dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò» (23,13-16). Alla fine, Luca non può negare che Pilato cedette alla richiesta dei nemici di Gesù, ma gli risparmia l’umiliante scena del lavarsi le mani, riportata in Mt 27,24. Questo comportamento di Luca sembra sia determinato dalla sua volontà di attenuare i motivi di tensione tra la comunità cristiana e le autorità romane.
Questo stesso motivo ha forse indotto l’evangelista a omettere di riferire la flagellazione e i maltrattamenti dei soldati, nel corso della sua detenzione (Mc 15,15-20 e Mt 27,26-31). Questa omissione cambia il senso dell’episodio di Cireneo (Lc 23,26): esso non è più motivato dallo spossamento di Gesù (così in Marco e Matteo) e l’uomo che porta la croce per Gesù appare qui piuttosto come uno scudiero che segue il suo cavaliere.
Nel viaggio verso il Calvario, secondo Luca Gesù cammina dritto davanti alla folla con la consueta maestà, tanto che è in grado di parlare alle donne con accento profetico, rifiutando la loro compassione e annunziando che ben più miseranda è la condizione di chi lo rifiuta. Questo episodio (23,27-31) è tra quelli che Luca aggiunge al racconto della passione, in armonia con la sua volontà di non sminuire mai l’atteggiamento maestoso di Gesù.
Luca non smette di sottolineare il comportamento maestoso e regale di Gesù anche quando egli è inchiodato e innalzato sulla croce. La sua regale maestà l’evangelista la esprime soprattutto con le parole di lui.
Luca omette di riferirci il grido angoscioso del crocifisso «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34 e Mt 27,46), mentre riporta tre sue frasi piene di maestà. La prima frase è quella con cui Gesù invoca il perdono per tutti quelli che lo hanno respinto e condotto alla croce, perché «non sanno quello che fanno» (23,34). La seconda è la risposta al ladrone crocifisso con lui, che si ravvede all’ultimo momento e gli si affida: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (23,42). La terza è quella con cui Gesù esprime, gridando «a gran voce», il suo totale abbandono nel Padre: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46).
Alle parole pronunziate da Gesù sulla croce sembra che Luca abbia voluto affidare il significato ultimo di quella crocifissione e dell’intero suo vangelo.
Nelle parole con cui Gesù prega perché il Padre perdoni. Luca afferma che tutti quelli che lo hanno respinto e condannato sono responsabili di una vera colpa, che ha bisogno del perdono divino, ma contemporaneamente afferma che quella colpa non coincide con un giudizio di condanna definitiva. Tutti quelli che, con diversa gradazione di responsabilità, lo hanno condotto in croce possono prendere parte, a condizione che si convertano, ai frutti della salvezza portata da lui, tanto i pagani quanto i figli dell’antico Israele. Inoltre, la preghiera di Gesù per i suoi nemici manifesta l’amore di Dio per i peccatori (quale è espresso da Luca nelle tre parabole della misericordia del c. 15) e presenta insieme, in concreto, un modello di comportamento per tutti i cristiani (quale è enunciato in Lc 6,27-35).
Le parole con cui Gesù risponde al ladrone convertito contengono un messaggio correttivo dell’attesa giudaica del Messia. «Gesù, ricordati di me quando entrerai (o verrai) nel tuo regno», dice il ladrone, esprimendosi con puro linguaggio biblico e pensando, come tutti i giudei del suo tempo, che il regno messianico si sarebbe realizzato solo alla fine dei tempi. La risposta di Gesù, che riconosce possibile la conversione e la salvezza per tutti i peccatori fino all’ultimo respiro, afferma che il regno di Dio e la salvezza non sono eventi dell’indeterminato futuro, ma cominciano oggi. Questa parola era già risuonata sulla bocca degli angeli annunzianti la buona novella ai pastori di Betlemme («Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore»: Lc 2,11) e sulla bocca dello stesso Gesù all’inizio del suo ministero pubblico nella sinagoga di Nazaret («Oggi si è adempiuta questa scrittura»: Lc 4,21).
L’ultima frase che Luca attribuisce a Gesù sulla croce mette il sigillo sulla sua presentazione generale della persona del redentore, che soffre e muore senza mai sminuire od offuscare la sua maestà regale. Volutamente sembra che Luca abbia sostituito le parole attribuite a Gesù da Marco e Matteo: mentre questi gli pongono sulle labbra il versetto iniziale del Salmo 22, Luca deriva il suo testo dal Salmo 30 versetto 6, dove non c’è ombra di abbandono da parte di Dio ed è anzi espressa la certezza della sua vicinanza. In tal modo, Gesù è presentato come il supremo modello del giusto, che gli uomini maltrattano e offendono, ma sperimenta sempre la protezione divina. Nelle ultime parole del crocifisso, ai lettori del terzo vangelo è offerto il motivo ispiratore di un comportamento simile a quello del protomartire Stefano, che morì dicendo queste stesse parole (At 7,59-60).
Meditazione
Nel racconto della passione secondo san Luca compare un personaggio, che non incontriamo negli altri racconti evangelici, il quale può offrire il giusto angolo prospettico dal quale guardare a quello che l’evangelista definisce lo ‘spettacolo’ della Croce (cfr. Lc 23,48). È il cosiddetto ‘buon ladrone’, con il quale Gesù ha un ultimo intenso dialogo proprio nell’imminenza della morte. Il terzo vangelo, peraltro, sottolinea con insistenza che Gesù è crocifisso tra due malfattori. Soltanto Luca parla della loro presenza durante la via che sale al Calvario: «insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori» (23,32). Nel versetto successivo insiste precisando: «quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra». Egli vede realizzarsi in questo evento il versetto di Isaia che Gesù ha citato durante l’ultima cena applicandolo a sé e al destino che lo attendeva: «e fu annoverato tra gli empi» (Lc 22,37; cfr. Is 53,12d). Crocifisso in mezzo a due malfattori, Gesù ora viene davvero annoverato tra gli iniqui. Luca, tuttavia, non intende solo mostrare il realizzarsi della profezia; gli preme soprattutto mettere in luce il suo significato salvifico. Il dialogo con il buon ladrone ha proprio questo intento teologico: rivelare il senso salvifico che questo modo di morire in mezzo a due peccatori possiede. Assume perciò, nel contesto del racconto della passione, un valore sintetico e interpretativo di come l’evangelista comprenda e descriva tutto l’evento pasquale.
A introdurre il dialogo è il buon ladrone stesso, che per prima cosa si rivolge non a Gesù, ma al suo compagno per rimproverarlo di non avere il giusto atteggiamento di fronte a Dio, che ora egli inizia ad assumere. Anche questo ‘buon ladrone’ non ha avuto finora timore degli uomini, al punto da compiere azioni gravi che lo conducono a subire la condanna capitale, ma in questo momento giunge ad avere timore di Dio. Ovviamente ‘timore’ non va inteso nel senso di ‘paura’ o ‘terrore’ (ad esempio della morte, o del giudizio), ma nel suo significato squisitamente biblico: avere il giusto senso di Dio, in particolare della sua giustizia. Rimanendo davanti a Dio con ‘timore’ egli riconosce da un lato la propria colpevolezza e il proprio peccato – noi siamo condannati giustamente (cfr. v. 41) – dall’altro l’innocenza e la giustizia di Gesù. Questi due aspetti vanno insieme e non possono essere separati: contemplare la giustizia di Gesù illumina la nostra vita e ci porta a riconoscere il nostro peccato; d’altro lato, circolarmente, la consapevolezza del nostro peccato fa risaltare la giustizia di Gesù in cui si manifesta la giustizia stessa del Padre. Avere timore di Dio significa vivere insieme questi due atteggiamenti, consentendo all’uno di illuminare e rendere possibile l’altro. Si apre così per questo personaggio la via verso un pentimento che si esprime poi in un’invocazione molto breve e molto ricca nella sua essenzialità: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (v. 42). Gesù: è l’unica ricorrenza in tutto il Nuovo Testamento in cui leggiamo il nome di Gesù al vocativo, senza che venga aggiunto qualche altro titolo. Nessun altro personaggio si rivolge a Gesù con la stessa familiarità di questo ladrone, accomunato a lui dalla medesima terribile pena. Non è però soltanto la confidenza a farlo parlare in questo modo. Gesù significa ‘Dio salva’ e negli Atti degli Apostoli Luca afferma che questo è il solo nome in cui si può trovare salvezza. Il buon ladrone, anziché oltraggiare, schernire, bestemmiare, invoca in Gesù la salvezza di Dio, e lo fa proprio mentre Gesù non sta salvando se stesso, e rimane insieme a lui sul medesimo patibolo infame.
Quanti altri personaggi del vangelo di Luca si sono accostati al profeta itinerante in Galilea, potente in parole e opere, con la fede che chiedeva una liberazione dal male? Gesù li aveva accolti rispondendo ‘la tua fede ti ha salvato’. Ma ora questo ladrone rivolge la sua invocazione a un Gesù che sembra impossibilitato a salvare persino se stesso. Il racconto di Luca suscita così una domanda fondamentale: da dove e come nasce questa fede? In Luca la voce in cui si ricapitola e si esprime la pienezza della fede è proprio quella del buon ladrone. C’è quindi una differenza rispetto al racconto di Marco, in cui la pienezza della fede risuona piuttosto nelle parole del centurione, il quale «avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). Per Marco la fede matura risuona nelle parole di un centurione romano, vale a dire di un pagano. In Luca in un peccatore, in modo coerente con l’intero suo vangelo che ha cura di rimarcare come durante la sua vita Gesù abbia mangiato con i peccatori e sia stato accolto dalla loro fede. Pensiamo ad esempio alla peccatrice che gli cosparge di olio e di lacrime i piedi nella casa di Simone il fariseo (cfr. Lc 7,36-50), o a Zaccheo, il pubblicano di Gerico, che in Gesù accoglie la salvezza di Dio mentre tutti mormorano: «è entrato in casa di un peccatore!» (cfr. Lc 19,1-10). Zaccheo è proprio l’ultimo personaggio che Gesù incontra nel suo cammino verso Gerusalemme: un peccatore che viene cercato e salvato da Gesù. «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (19,10), dichiara Gesù nella sua casa. Il significato di queste parole diviene chiaro sulla croce: Gesù è venuto a cercare e a salvare anche questo ladrone, e con lui ciascuno di noi. Ci ha cercati non solo fino a entrare nella casa di un pubblicano – il che era vietato a un pio e osservante giudeo – ma fino a salire con noi, lui l’unico giusto, sulla croce del nostro ostinato peccato. Ecco perché Gesù non risponde alla triplice sfida che gli viene lanciata di salvare se stesso. O meglio, lo fa con le parole che rivolge al buon ladrone. Non salva se stesso perché è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto, e lo ha fatto fino al punto di perdere se stesso, fino a non salvare se stesso dalla croce e dalla morte.
Rimane però aperta la domanda iniziale. Come può questo ladrone giungere a questa fede? Cosa significa riconoscere in Gesù la salvezza? Che tipo di salvezza è quella che si manifesta in un giusto crocifisso? Per rispondere a tali interrogativi dobbiamo ricordare ancora la citazione di Isaia 53: «e fu annoverato tra gli empi». La fede del buon ladrone rivela il significato salvifico di questo accettare la morte insieme agli iniqui. Gesù, condividendo il destino dei peccatori, prende su di sé il loro peccato per donare loro la sua giustizia. Anche per questo motivo in Luca il centurione romano esclama, diversamente dal racconto di Marco: «veramente quest’uomo era giusto». Giusto perché ci rende giusti, assumendo il nostro peccato per comunicarci la sua giustizia. La salvezza consiste nel riconoscere questa misericordia che ci giustifica raggiungendoci nel nostro peccato e facendosi solidale con il nostro destino di peccatori. La fede del ladrone, che per Luca rappresenta la figura esemplare della fede di ogni discepolo, riconosce la salvezza di Dio proprio nella misericordia con cui Gesù accetta liberamente di morire come lui e insieme a lui.
Nel racconto di Luca la vita di Gesù è interamente abbracciata da un oggi, che per la prima volta risuona nel racconto della nascita e per l’ultima volta in quello della morte. È interessante notare il gioco delle preposizioni che risuona nei due testi. Nella nascita gli angeli annunciano: «oggi è nato per voi un salvatore» (cfr. Lc 2,7). Nella morte Gesù promette: «oggi sarai con me». La vita di Gesù segna questo passaggio: dal per voi al con me. Egli nasce per noi perché noi possiamo essere definitivamente con lui. Ecco l’oggi della salvezza!
Vita est enim esse cum Christo, quia ubi Christus ibi regnum. «La vita è essere con Cristo, perché dove c’è Cristo, lì c’è il regno» (Ambrogio di Milano).