Commento alle letture di domenica 13 Ottobre 2019 – don Jesús GARCÍA Manuel

Prima lettura: 2 Re 5,14-17

In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».

È in questa linea che si muove la narrazione ripresa dal secondo libro dei Re (5,14-17). Essendo stato colpito dalla lebbra, Naaman, «il comandante dell’esercito del re di Aram» (5,1), sente dire da una giovinetta ebrea, rapita e deportata in Siria a servizio della moglie del generale, che in Israele c’è un profeta, Eliseo, che fa miracoli e può guarire anche dalla lebbra. Se nonché, il profeta gli ordina di bagnarsi sette volte nel Giordano per ottenere la guarigione. Il generale stenta a credere tutto questo: ma alla fine obbedisce e viene guarito. Per riconoscenza vuole offrire dei doni, che il profeta invece respinge, perché Dio soltanto può operare prodigi.

È a questo punto che Naaman il Siro si rende conto che solo il Dio di Israele, che il profeta ha invocato e di cui è come il portavoce, è il «vero Dio», e perciò chiede ad Eliseo il permesso di portare un «pezzo» di terra santa a Damasco per adorarvi l’unico Signore del cielo e della terra: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore» (5,17).

Anche Gesù nella sinagoga di Nazaret, davanti all’indisposizione dei suoi concittadini che reclamavano da lui miracoli, quasi come segno di particolare «appartenenza», si riferirà a questo episodio per dire che ormai non ci sono più «stranieri» nel suo regno, che appartiene a tutti coloro che vorranno entrarvi per la fede in lui: «C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro» (Lc 4,27).

Con Gesù, Figlio di Dio, incarnatosi nel seno di Maria e diventato uomo come tutti noi, ogni uomo è chiamato a salvezza, a prescindere dalla collocazione geografica o dell’appartenenza a qualsiasi gruppo umano: ormai, con la sua venuta in mezzo a noi, ogni «terra» è diventata sacra!

Seconda lettura: 2Timoteo 2,8-13

Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;  se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

Questo riferimento a Cristo, morto e risuscitato per la salvezza di tutti, è ribadito nel brano della 2a lettera a Timoteo (2,8-13), in cui Paolo esorta il suo discepolo ad essere coraggioso testimone dell’annuncio cristiano, anche se ciò dovesse comportare inimicizia, e perfino il carcere, come di fatto è capitato a lui: «ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2,8-9).

L’impedimento del carcere, però, non riuscirà a imprigionare la «parola» di Dio, non solo perché Paolo continuerà ad annunciarla anche in prigione, ma soprattutto perché nella sofferenza sarà anche più unito a Cristo, e così apporterà un suo particolare contributo all’opera di redenzione: «Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2,9-10).

Segue quindi un frammento di antico inno cristiano, in cui si esalta la comunanza di vita e di destino del credente con il suo Signore, per cui soltanto il nostro rinnegamento della salvezza, da lui apportataci, potrebbe portare anche lui a rinnegarci: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà...» (2,11-13).

C’è un riecheggiamento palese, in questa ultima espressione, delle parole di Gesù: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,33).

Questo brano della 2a lettera a Timoteo non è soltanto un invito al coraggio dell’annuncio, sempre e dovunque, di fronte a chiunque, ma anche l’affermazione della nostra «intimità» con Cristo, per cui, se «partecipiamo» al suo destino di sofferenza, parteciperemo anche alla sua «gloria». Noi potremmo anche essere estranei a Dio, ma lui non è mai «estraneo» a nessuno di noi!

Vangelo: Luca 17,11-19 

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Esegesi

Guarigione dei dieci lebbrosi.

È quanto ci dice soprattutto il racconto evangelico (Lc 17,11-19), che ci descrive la guarigione dei dieci lebbrosi, di cui uno soltanto, e precisamente un samaritano, torna a «rendere grazie a Dio» per la salute riacquistata. Già precedentemente Luca aveva narrato la guarigione di un lebbroso (5,12-16), che ritroviamo anche negli altri Sinottici (Mc 1,40-45; Mt 8,1-4). Qui invece egli attinge a materiale proprio, e appunto per le «particolarità» con cui l’episodio viene narrato non può essere una rielaborazione del precedente racconto, come qualcuno ha ipotizzato.

Le «particolarità» più significative sono le seguenti: a) Gesù si trova quasi alla fine del «viaggio» che lo porta a Gerusalemme, dove sarà drammaticamente respinto dal suo popolo, che era venuto a salvare; b) è un gruppo intero di lebbrosi (10) che si rivolge a lui per essere guarito e che la sciagura aveva come affratellato, senza distinzione né di razza né di religione, nonostante che Giudei e Samaritani non avessero «buone relazioni» fra di loro (cf. Gv 4,9); c) Gesù non tocca i lebbrosi per guarirli (cf. 5,13), ma, rispettando la legge mosaica (cf. Lev 13,4-5), a distanza comanda loro di «presentarsi ai sacerdoti» per la verifica della guarigione, che sola consentiva il normale rientro nella società: la guarigione avviene proprio lungo il loro viaggio verso Gerusalemme.

Solo il samaritano torna a «ringraziare».

Ma a questo punto accade la cosa più inattesa di tutto l’episodio, che è anche la «punta» semantica di tutto il racconto: uno soltanto, e precisamente il samaritano, cioè lo «straniero», torna a ringraziare Gesù, nel quale ovviamente ha riconosciuto un inviato di Dio. È allora che Gesù esprime la sua amarezza per l’ingratitudine degli altri, che erano tutti ebrei: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (17,17-19).

Qui la «salvezza» ovviamente è da intendere in senso più largo: non solo quella fisica, che avevano ricevuto anche gli altri, ma anche quella spirituale, che si ottiene appunto per la fede e che introduce nella comunità di Gesù, che è aperta a tutti e non solo ai Giudei.

Anche altrove S. Luca dimostra simpatia per i Samaritani: si ricordi appunto la parabola del buon Samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, ebrei, passati avanti senza curarsi di lui, si china sull’uomo ferito e lo aiuta con tutti i suoi mezzi, che Gesù porta ad esempio del vero amore del prossimo (cf. Lc 10,30-37).

Come si vede, anche la parabola del buon Samaritano, in ultima analisi, vuol dire che la salvezza portata da Gesù non solo si allarga oltre i confini d’Israele, ma addirittura che i «lontani» sono talora più vicini a Dio di quelli che dovrebbero essergli più «prossimi».

Meditazione

La prima lettura presenta la guarigione dalla lebbra dello straniero Nàaman ad opera del profeta Eliseo e il vangelo narra la guarigione, ad opera di Gesù, di dieci lebbrosi di cui uno solo, uno straniero (un samaritano), torna a ringraziarlo. Il tema dell’azione di grazie, della capacità eucaristica lega le due letture. Nàaman, che voleva sdebitarsi con Eliseo per la guarigione ottenuta e che incontra il rifiuto del profeta, ottiene un po’ di terra d’Israele per poter venerare il Signore, Dio d’Israele. La gratitudine appare così nella sua dimensione teologale. Il profeta scompare davanti al Signore, vero autore del beneficio, e Nàaman rivolge a Dio il suo ringraziamento. Anche il vangelo presenta la dimensione eucaristica della fede: il ringraziamento del samaritano a Gesù (Lc 17,16) esprime la sua fede (Lc 17,19).

Il testo di 2Re mostra la difficoltà, soprattutto per un uomo importante, ricco e potente come Nàaman, di riconoscersi debitore: coprire di denaro e preziosi chi lo ha beneficato significherebbe «sdebitarsi», far divenire l’altro grato nei suoi confronti, e così non perdere la propria grandezza e la propria immagine di uomo che «non deve nulla a nessuno». La gratitudine è difficile e richiede la messa a morte del proprio narcisismo per entrare nel novero di coloro che si sanno graziati.

La difficoltà del ringraziamento emerge anche dal vangelo: di dieci lebbrosi guariti, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È colui che ha saputo vedersi guarito (Lc 17,15). Occorre il rispetto (nel senso etimologico di guardare indietro: respicere) per giungere al riconoscimento di ciò che è avvenuto e quindi alla riconoscenza, al ringraziamento. Il guardare indietro è anche lavoro di memoria e la memoria è costitutiva dell’eucaristia come del movimento umano della gratitudine: spesso ci rendiamo conto solo dopo molto tempo di ciò che dobbiamo a persone che abbiamo incontrato nel nostro passato e che hanno lasciato tracce importanti in noi.

Il samaritano ha saputo vedersi guarito, dunque ha saputo prendere una distanza fra sé e sé e considerare ciò che è venuto a lui dal Signore. Allora è entrato nella salvezza ritornando indietro, cambiando strada, ovvero, immettendosi in un movimento di conversione. Ritornare da Gesù senza andare al tempio a farsi vedere dai sacerdoti perché venga verificata la guarigione, significa confessare che ormai la presenza di Dio ha trovato in Gesù il suo tempio, la sua manifestazione: è ringraziando Gesù che il samaritano rende gloria a Dio (Lc 17,18). E Gesù pronuncerà l’oracolo di salvezza nei suoi confronti: «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). Il vero culto è nella relazione con il Signore Gesù: è davanti a lui che il samaritano si prostra e rende grazie.

Le parole di Gesù sulla fede del samaritano significano che la salvezza è veramente tale se la si celebra: il dono di Dio è veramente accolto quando per esso si sa ringraziare, ovvero riconoscerne e confessarne l’origine. Solo nel ringraziamento il dono è riconosciuto come dono. Per questo il cuore del culto cristiano si chiama eucaristia: di fronte al dono di Dio non vi è altro da fare che entrare nel ringraziamento, divenire eucaristici (cfr. Col 3,15), vivere nel rendimento di grazie.

Tutti guariti, uno solo salvato. Questa la situazione dei dieci lebbrosi che Gesù ha incontrato. Nella rivelazione biblica ed evangelica guarigione e salvezza sono spesso associati e la salvezza appare significata e anticipata dalla guarigione. Oggi, di fronte alla svalutazione culturale di una salvezza oltremondana, il rapporto salvezza-guarigione viene capovolto e la salvezza è declinata come dilatazione del sé qui e ora, guarigione di tutti gli aspetti fisici e psichici dell’esistenza per poter vivere una vita «espansa», «piena». Ma la riscoperta della dimensione terapeutica della fede non può scadere in asservimento dello spirituale ai bisogni dell’individuo e non può dimenticare la dimensione tragica dell’esistenza, il non-guarito, il malato fin dalla nascita, la sofferenza innocente, il male che non passa. Non può dimenticare la croce di Cristo.

Commento a cura di don Jesús Manuel García

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