Il commento alle letture di domenica 10 Maggio 2020 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.
Un Popolo Sacerdotale sulla “via” di Cristo
Gesù, la Via
La Chiesa è il popolo in cammino verso il Regno, dove Cristo ormai è andato a prepararci un posto, per ritornare poi a prenderci per sempre con sé. Per arrivare al Regno, la Chiesa sa che non ha altra strada che Cristo. Lui solo è “la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Vangelo: Gv 14,1-12). Gesù è la via (At 9,2; Gv 10,9) verso la verità (Gv 1,14.17; 8,31-32; 18,37) e la vita (Gv 1,3; 5,21.26; 10,10.28); e al contempo è la via perché è la verità e la vita.
La Chiesa annuncia al mondo questo scandalo: non si arriva a Dio tramite visioni, apparizioni, mirabolanti esperienze; non ci portano a Dio nessuno dei grandi personaggi che hanno calcato la scena umana: filosofi, pensatori, intellettuali, santoni, mistici, fondatori di varie religioni. L’unica “via” a Dio, l’unica “verità”, la sola “vita” del mondo, l’“unico maestro e unica guida” (Mt 23,8.10) è il falegname di Nazareth, il “figlio del carpentiere” (Mt 13,55), quel Galileo nato a Betlemme in una stalla e morto crocifisso a Gerusalemme come un malfattore. In lui, Dio è diventato il nostro vicino di casa, si è fatto l’uomo della porta accanto. Ma Gesù è nel Padre ed il Padre in lui: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30.38; 14,10-11). Gesù è davvero l’“Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23). La contemplazione del suo volto, la fede in lui sono l’esperienza di Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9).
Una Chiesa tutta ministeriale
Gesù ha confermato il suo essere Dio con le sue grandi opere, soprattutto con la sua resurrezione. Ma afferma: “Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi” (Gv 14,12). La sua Chiesa è chiamata a compiere opere addirittura maggiori di quelle del Maestro. E per questo che la Chiesa sarà tutta ministeriale. La prima Lettura ci narra l’istituzione del diaconato, che si pone accanto all’episcopato e al presbiterato (At 6,1-7). La seconda Lettura va oltre: se in Israele esisteva una tribù specificamente deputata al culto (Nm 1,48-54; 3,5-51), ora tutti i credenti in Cristo sono chiamati ad essere popolo sacerdotale: “Stringendovi a lui, pietra viva…, anche voi venite impiegati… per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio” (1 Pt 2,4-5). Gesù infatti “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,6; 5,10; 20,6). “In tutto il Nuovo Testamento coloro che noi oggi chiamiamo sacerdoti non vengono chiamati così. Addetti al culto sono tutti i cristiani. Apparteniamo tutti alla tribù di Levi… Tutti i battezzati realizzano un nuovo tipo di sacerdozio, in quanto siamo consacrati a servizio di Dio nella testimonianza di tutta la vita, per offrire a lui il sacrificio di noi stessi, quale autentico culto in spirito e verità.” (A. Fontana).
Talora invece la Chiesa presenta ancora una veste troppo “clericale”, in cui alcuni sono nella sfera del “sacro”, e gli altri in quella del “mondo”: ma il Nuovo Testamento ci invita a una visione innovativa, in cui tutti, pur nelle diverse e reciproche competenze, sono chiamati a consacrare il mondo a Dio nella preghiera e nell’offerta innanzitutto di se stessi.
Spesso si ha la sensazione di una Chiesa a due marce, con cristiani di “serie A”, il clero e i religiosi, e gli altri, i laici, di “serie B”. Quante volte poi sentiamo nella Chiesa reciproche accuse tra clero e laici: i laici che accusano il clero di scarsa evangelicità, di non vivere la chiamata alla povertà…; il clero che si lamenta che i laici non collaborano, si disinteressano dei valori della fede, hanno una pratica religiosa solo formale, non hanno una coerente vita cristiana… Occorre arrivare a una Chiesa in cui tutti, nell’ambito degli specifici ministeri e carismi, si sentono corresponsabili di testimoniare e annunciare al mondo la gioia della sequela del Signore.
Afferma Mazzinghi: “Non si tratta, come spesso si è creduto di fare nel postconcilio, di rivalutare i laici attribuendo loro funzioni clericali o para-clericali, magari in ambito solo liturgico. Si tratta piuttosto di lavorare in vista di un’ecclesiologia di comunione e, insieme, in vista di una ministerialità globale della Chiesa. Ricordiamo al riguardo una vera e propria perla del Concilio: «C’è nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione» (Apostolicam actuositatem, n. 2). In altre parole, il discorso sui laici e sul loro ruolo nella Chiesa non può nascere dalla considerazione delle emergenze: in particolare quella relativa al fatto che non ci sono più preti; per questa ragione dobbiamo affidare per forza qualcosa ai laici… Avremmo soltanto una clericalizzazione e, insieme, una maggior e ben più drammatica deresponsabilizzazione del laicato”.
Come scrisse Yves Congar, è forse addirittura improprio parlare di “teologia del laicato”, perché sottolinea troppo la distinzione tra clero e laici, secondo la visione tomistica del ministero sacerdotale che dà eccessivo rilievo alla questione dei “poteri”, e che non sottolinea invece a sufficienza l’aspetto della comunionalità ecclesiale, in linea con la Scrittura e la tradizione di tutto il primo millennio. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ricentrato il laicato nella cristologia, affermando che ciò che unisce tutti i cristiani è l’essere “incorporati a Cristo in forza del Battesimo” (Lumen gentium, n. 31): ne consegue che tutti i cristiani sono ugualmente chiamati alla santità, e che la relazione tra clero e laici non deve essere pensata in termini di “verticalità”, ma di “comunionalità”, perché il ministero pastorale è a servizio (“diakonìa”) di tutto il popolo di Dio (Lumen gentium, nn. 24; 37).
I laici partecipano dei “tria munera Christi”, i “tre doni di Cristo”, quello profetico, quello sacerdotale e quello regale (Lumen gentium, nn. 32-33), così come i vescovi, i presbiteri, i diaconi. La caratteristica dei laici è il loro carattere secolare: secondo l’interpretazione teologica, il carattere secolare si caratterizza attraverso la proprietà, il matrimonio e la libertà (scuola “teologico-canonistica”), o per altri secondo uno specifico carisma (scuola “di Navarra” o dell’Opus Dei); secondo la visione sociologica la categoria del laicato è ormai superata, e ciò che solo importa è essere cristiani (cosiddetta “scuola milanese”). “Con tutto ciò, si può proporre una terza interpretazione in chiave di ministerialità. Tale interpretazione si basa su una constatazione di portata universale per tutta l’ecclesiologia, che Paolo VI ricordò, affermando, nel 1972, che «tutta la Chiesa ha un’autentica dimensione secolare» (citato da Giovanni Paolo II nell’omelia finale del Sinodo sui laici di 1987 e ripreso nella Chistifideles laici, n. 15)” (S. Pié-Ninot): tutta la Chiesa è immersa nel mondo e vive a servizio del mondo, e tutti, clero e laicato, sono chiamati a costruire in esso già oggi l’inizio del Regno di Dio.
In una Chiesa tutta comunionale e ministeriale, anche le donne esercitano i loro carismi e ministeri. Afferma il cardinal Martini: “Nella Bibbia vi sono donne che dirigono comunità: penso a Lidia di Filippi e a molte collaboratrici di Paolo a capo delle sue comunità. Nel Nuovo Testamento incontriamo le diaconesse, presenti nella Chiesa primitiva e fino al Medio Evo”: e Papa Francesco ha creato una seconda Commissione per lo studio del problema. Va quindi rivisto profondamente, al di là delle solite dichiarazioni di facciata, il ruolo delle donne nella Chiesa.
Inoltre, anche per portare avanti il dialogo ecumenico, bisogna che, pur nella fedeltà alla Scrittura e alla Tradizione, si ripensino, come più volte hanno anche auspicato gli ultimi Papi, i modi di vivere i ministeri e anche il primato del Vescovo di Roma. Giovanni Paolo II, in modo particolare nell’Enciclica “Ut unum sint”, ha voluto rivolgere specialmente ai pastori ed ai teologi l’invito a “trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova…, giacché per delle ragioni molto diverse e contro la volontà degli uni e degli altri, ciò che doveva essere un servizio ha potuto manifestarsi sotto una luce abbastanza diversa… Lo Spirito Santo ci doni la sua luce…, affinché possiamo cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri” (n. 95).
Occorre quindi che anche il ministero petrino venga ripensato nelle sue modalità di espressione, come ricordava l’allora cardinal Ratzinger quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “«La Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo» (Lumen gentium, n. 48). Anche per questo, l’immutabile natura del Primato del Successore di Pietro si è espressa storicamente attraverso modalità di esercizio adeguate alle circostanze di una Chiesa pellegrinante in questo mondo mutevole. I contenuti concreti del suo esercizio caratterizzano il ministero petrino nella misura in cui esprimono fedelmente l’applicazione alle circostanze di luogo e di tempo delle esigenze della finalità ultima che gli è propria (l’unità della Chiesa). La maggiore o minore estensione di tali contenuti concreti dipenderà in ogni epoca storica dalla «necessitas Ecclesiae». Lo Spirito Santo aiuta la Chiesa a conoscere questa «necessitas» ed il Romano Pontefice, ascoltando la voce dello Spirito nelle Chiese, cerca la risposta e la offre quando e come lo ritiene opportuno”.
Occorre infine che nella Chiesa sempre più si valorizzino i “carismi” che ancora oggi lo Spirito suscita in essa, dando spazio a quel pluralismo di espressioni e doni che non può che arricchire la vita ecclesiale.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha quindi parlato di “sacerdozio comune dei fedeli”: “Il sacerdozio ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito…, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo…; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’Eucarestia… Partecipando al sacrificio eucaristico…, offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa” (Lumen gentium., nn. 10-11). “L’Eucarestia è azione di Cristo e della Chiesa: il sacerdote ha il compito specifico di presiederla, ma tutti la celebrano, soprattutto accogliendo il dono che Dio ci fa in essa affinché noi lo viviamo in tutta la nostra vita. Non è il semplice fatto di dire Messa che «dà gloria a Dio e salva le anime», ma è la nostra vita stessa che deve dare gloria a Dio, diventando Eucarestia quotidiana” (A. Fontana). Celebrare l’Eucarestia significa per tutti diventare “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1; 15,16; Eb 13,15): essere cioè “uomini eucaristici”, di dono, di servizio, di comunione. Uniti a Cristo, potremo realizzare opere più grandi di quelle da lui compiute!
Carlo Miglietta