Commento al Vengelo di domenica 2 giugno 2019 – CEI

Ascensione del Signore

Perché state a guardare il cielo?

L’Ascensione definisce uno spartiacque tra la presenza fisica, corporea, di Gesù, nel suo ministero terreno, e una nuova forma di presenza, la sua presenza ordinaria di Risorto. In prima battuta, a uno sguardo più superficiale, ciò che si percepisce è l’assenza. Gesù non è più visibile, non può più parlare, operare segni, essere oggetto dei sensi corporei. Soprattutto, non può più scontrarsi con i suoi avversari. Coloro che hanno fatto in modo di toglierlo di mezzo, non devono più preoccuparsi di confrontarsi direttamente con la sua ingombrante figura. Comprendiamo dunque che il primo sentimento dei discepoli, nella fase del distacco e anche oltre, sia fondamentalmente la nostalgia: essi stanno a guardare il cielo, come per allontanare la definitività del distacco e ricevono il rimprovero dei due misteriosi uomini in bianche vesti (Atti 1,11).

Nostalgia di Gesù?

Il brano fa emergere non solo la nostalgia dei discepoli, che hanno goduto della sua presenza, e poi ne sono stati privati, ma la nostra nostalgia di credenti che non hanno mai potuto conoscerlo in quel modo. Essa prende la forma del rimpianto e del desiderio di esperienze eccezionali.

La risposta degli angeli rifiuta un simile modo di porsi. Si tratta di un aperto rimprovero: “Perché state a guardare il cielo?”. La fame di straordinarietà spirituale è estremamente difficile da placare: ci sono persone, talvolta anche gruppi, che passano da un santuario all’altro, da un’esperienza comunitaria all’altra, da un evento all’altro, sempre a caccia di emozioni, per così dire “spirituali”. Il rimprovero degli uomini in bianche vesti (“perché state a guardare il cielo?”) con cui l’evangelista conclude la narrazione dell’elevazione di Gesù ci mostra quanto antica sia la tentazione della straordinarietà. Anche Paolo nei confronti dei Corinti deve affrontare un problema simile (cf. 1Cor 12,4-11.31 e 14,12-19: i doni dello Spirito devono servire all’edificazione della comunità).

La presenza quotidiana del Risorto

In effetti il mistero dell’Ascensione non dice solo l’assenza: dice soprattutto una modalità nuova, più ampia, più completa di presenza. La seconda lettura ne parla diffusamente: «abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente» (Eb 10,19-20). Il sangue di Cristo, l’offerta della sua vita, compiuta una sola volta, crea una nuova situazione di comunicazione e di accesso a Dio. Non abbiamo più bisogno di segni straordinari, perché è straordinario ciò che possiamo vivere nella quotidianità della liturgia e nella quotidianità dell’esistenza: portare in ogni realtà mondana il segno della presenza e della carità operante di Cristo, per mezzo del suo Spirito.

Il progetto del Padre, quello per cui Gesù risorto sta “alla sua destra”, non è di manifestare di nuovo il suo Figlio attraverso rivelazioni straordinarie, ma che egli, con la sua carità, sia reso presente nella quotidianità dell’esistenza dei credenti, e in tal modo testimoniato al mondo. In effetti è la quotidianità che plasma la persona, o la sfigura. Il peso dei libri a lungo andare può deformare l’asse di uno scaffale, senza che sia esercitata alcuna azione diretta. L’usura del movimento può, nel tempo, provocare la rottura di un pezzo meccanico, senza che si sia verificato nessun trauma apparente. Allo stesso modo le azioni quotidiane (il lavoro, gli spostamenti, i riti della vita familiare, le evasioni nel mondo virtuale) sono tra i fattori decisivi per definire il nostro modo di essere, che noi lo vogliamo o no. O la nostra quotidianità è abitata, giorno per giorno, dal Risorto, dalla preghiera, dal riferimento alla sua parola, è costantemente imbevuta della sua carità; oppure si inaridisce. Diventa un vuoto ciclo di schiavitù (un lavoro privo di senso, una vita familiare ripetitiva e logorante, relazioni umane assenti o superficiali) ed evasione (il “tempo libero”, il tempo della vacanza, la fuga nella realtà virtuale, sempre più accessibile attraverso le nuove tecnologie, ma anche sempre più avida di tempo e di attenzione).

La santificazione del lavoro

Diventa dunque decisiva la testimonianza di tutti i battezzati, soprattutto laici, nei luoghi della quotidianità: in primo luogo, nei luoghi e nei tempi del lavoro. Si tratta di una responsabilità grande: neppure il papa può fare ciò che un battezzato, alimentato dalla Parola, confermato nella forza dello Spirito, può testimoniare nel luogo del suo lavoro, nella sua quotidianità. È vero che esistono congregazioni religiose che hanno come carisma proprio la presenza e la testimonianza sui luoghi di lavoro. Si sono verificate lodevoli iniziative personali di presbiteri e consacrati, che hanno scelto di stare lì dove gli uomini del loro tempo trascorrono ore e ore della loro esistenza. Ma nessuna nobile iniziativa da parte di persone ordinate e consacrate può sostituire la testimonianza quotidiana da parte di coloro che, come battezzati, hanno la missione di “ordinare a Dio le realtà mondane”, come si legge nella Costituzione del Vaticano II Gaudium et Spes:

Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. […] Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. (GS 43)

Testimoniare la conversione

Si rende dunque necessaria una profonda conversione, per uscire dal ciclo diabolico di schiavitù ed evasione, che deforma in noi l’immagine di Dio. La schiavitù sta sia in un lavoro forzato, asservito unicamente alle leggi del guadagno e alle logiche spersonalizzanti della finanza, sia nell’assenza di lavoro, che costringe la persona ad accettare qualunque compromesso, pur di conservare una autonomia e un senso di dignità. Convertirsi significherà da un lato vivere la propria professione, anche nei suoi aspetti di tensione e contraddizione, conservando in sé l’immagine di figli di Dio, fratelli e sorelle in Cristo. Dall’altro significherà abbandonare la logica perversa dell’evasione: il tempo libero dovrà essere tempo di relazione, di comunione, di ri-creazione, mantenendo uno spazio per la preghiera e l’ascolto della Parola divina.

Si potrà testimoniare una simile conversione se la si è vissuta in prima persona. Si potrà diventare sul proprio luogo di lavoro anche testimoni di riconciliazione e perdono: perché giorno per giorno il luogo dell’azione umana sia luogo di umanizzazione, e non di deformazione del progetto di Dio.

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