Commento al Vangelo di domenica 22 ottobre 2017 – don Mauro Orsatti

VALORE COMMERCIALE E VALORE TEOLOGICO DI UNA MONETA

Discussione sulla tassa all’imperatore

Mt 22,15-22

Il confronto tra autorità umana e autorità divina ha innescato una discussione che il tempo non riesce a smorzare. Partendo dal brano che discute la liceità o meno di pagare le tasse all’imperatore, sono affiorate numerose interpretazioni che oscillano su un ampio ed eterogeneo arco di possibilità.

Qualcuno vi ha letto una netta distinzione tra sfera temporale e sfera spirituale, senza che tra le due sussista una relazione, in quanto appartenenti a piani diversi. Una sana laicità e la capacità di una serena scelta religiosa sarebbero il frutto della discussione tra Gesù e i suoi avversari. Altri adducono il testo evangelico come fondamento teologico della proverbiale alleanza “trono e altare”, in cui uno fa da supporto all’altro. Altri ancora spingono l’interpretazione all’estremo fino ad ipotizzare uno stato “sacralizzato” e una chiesa “temporalizzata”, oppure l’egemonia dell’uno verso l’altro. La recensione delle proposte potrebbe continuare, mostrando la bizzarra e fantasiosa capacità interpretativa di certi autori.

Senza la presunzione di proporre una nuova via, riprendiamo in mano la tematica partendo dal contesto. Quindi fissiamo l’attenzione al brano in quanto tale, proponendo un breve commento ed richiamando il valore del denaro al tempo di Gesù. Alla fine diamo attenzione a ciò che, normalmente negletto, può offrire qualche elemento utile ad una maggiore lettura cristologica del brano.

Contesto e organizzazione del brano

Ogni brano è come il segmento di una linea continua. Una visione d’insieme, o almeno dell’immediato contesto, fornisce le coordinate che spesso aiutano a tracciare un quadro più logico e più completo.

La situazione tra Gesù e i suoi avversari, già tesa fin dall’inizio della vita pubblica, diventa incandescente man mano si avvicina la fine. Con l’ingresso solenne nella città santa, il barometro dell’umore degli avversari tende notevolmente al brutto. Ciò non sorprende, se scorriamo le pagine evangeliche e notiamo i duri colpi inferti dal Maestro con parole di fuoco e con gesti forti. Ricordiamo la scena al tempio dove Gesù, animato da santo zelo, rivendica la purezza del luogo e la genuinità delle intenzioni, bollando inesorabilmente i presenti con l’accusa di aver trasformato la casa di preghiera in una spelonca di ladri (cf 21,13). La maledizione al fico senza frutto risuona come cupa minaccia ad un popolo che non produce quei segni di santità, richiesti dalla sua condizione di destinatario privilegiato del Vangelo. A suggello della parabola dei due figli, il detto «i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» sta come una mannaia sul collo dei benpensanti, prodighi nel condannare gli altri, ma avari nel dare spazio alla loro conversione. Sono parole dure che riducono al minimo la possibilità di intesa tra il Maestro e i suoi ascoltatori, poco disponibili ad una revisione di vita.

A colmare la misura e a far tracimare il vaso contribuiscono due roventi parabole che precedono immediatamente il nostro testo. La prima parla dei vignaioli che tradiscono la fiducia del loro signore e, da dipendenti, si trasformano in rivoltosi e in assassini. La loro sorte è decretata senza mezza misura dagli stessi ascoltatori: «(Il padrone) farà morire miseramente quei malvagi e darà in affitto la vigna ad altri contadini che gli consegneranno i frutti a suo tempo» (21,41). Senza avvedersene, gli ascoltatori hanno formulato un giudizio che sancisce la loro condanna: si sono autocondannati. La seconda parabola, non meno impietosa della prima, rivela il passaggio del regno dagli invitati della prima ora che con il loro rifiuto hanno disdegnato la preferenza loro accordata, a quelli, raccogliticci, che non presagivano certo di trovarsi un giorno commensali alle nozze del figlio del re (cf il nostro commento al capitolo precedente).

Tale contesto aiuta a capire lo stato di tensione e l’aria pesante che si è creata. Fino a questo punto l’iniziativa è stata prevalentemente di Gesù. Ora, a partire dal nostro brano, cambia il “regista”. Sono gli avversari a prendere in mano le redini e a dirigere il gioco. Tentano di risalire la china, dopo essere stati precipitati nel baratro dell’abiezione dalle parole crude, ma veraci, di Gesù. Occorre salvare l’immagine e riprendersi la rivincita. Da qui tre tentativi che sono, nell’ordine, il nostro brano, la questione sulla risurrezione dai morti e l’identificazione del comandamento più importante.

I tre casi presentano una coalizione che sarebbe più corretto definire una “associazione a delinquere”. L’evangelista specifica l’identità degli oppositori: nel primo caso sono i discepoli dei farisei con gli erodiani (v. 16), nel secondo i sadducei (v. 23), nel terzo un dottore della legge, del gruppo dei farisei (v. 35). Poiché è risaputo che farisei, erodiani e sadducei erano gruppi diversi e inconciliabili per estrazione sociale, per dottrina teologica, per pensiero politico, si conclude che la coalizione “a largo spettro” è solo funzionale allo scopo: battere l’acerrimo e comune nemico, Gesù.

Per quanto concerne la struttura, il brano si muove con un’andatura classica e chiara. In forma schematica vi leggiamo: un’introduzione (v. 15), la parte centrale costituita dalla disputa dove dominano dapprima gli avversari (vv. 16-17), e poi Gesù che prospetta qualcosa di nuovo (vv. 18-21), una conclusione (v. 22). La costruzione è armonica perché parte da un movimento di avvicinamento degli avversari per un conciliabolo nel tentativo di intrappolare Gesù, e si conclude con un loro allontanamento, non dopo aver accolto con sorpresa la risposta. Gli avversari accusano il colpo e devono registrare lo smacco. La contrapposizione è da notare anche nelle parole: gli avversari fanno riecheggiare parole “mielate” e subdolamente velenose, Gesù, invece, si esprime subito molto chiaramente, smascherando la malvagità degli interlocutori. Alla fine si impone la sua parola, accettata perché veritiera, coerente, completa.

Breve commento

In apertura del brano compaiono i farisei che battono in ritirata. La parabola degli invitati, appena conclusa, aveva azzerato la loro presuntuosa sicurezza. Essi potevano facilmente specchiarsi – e vergognarsi – negli invitati che avevano anteposto futili interessi all’invito a nozze del figlio del re.

Il ritiro dei farisei non segna una pausa delle ostilità contro Gesù. Essi si riuniscono per concertare un nuovo piano di attacco, sempre nella speranza che sia la volta buona per eliminare il pericoloso nemico. Le loro intenzioni malvagie sono conficcate nel verbo «coglierlo in fallo». Il lettore, ora in possesso di un’ideale bussola di comprensione, può facilmente intuire un’aria di tempesta che non lascia presagire nulla di buono. I farisei preferiscono rimanere nelle quinte e inviano i loro discepoli insieme agli erodiani. Costoro sono gli amici o i partigiani di Erode Antipa, tetrarca della Galilea e della Perea. La loro presenza denuncia l’intento di arrestare Gesù. Infatti, senza il loro appoggio, non era possibile intraprendere un’azione legale contro Gesù. Sapere che gli erodiani erano politicamente favorevoli ai romani, aiuta a capire il seguito, soprattutto la trappola.

Le parole iniziali degli avversari sono patinate di complimenti, forse con l’intento di guadagnarsi un’attenzione di primo piano. A Gesù viene dato il titolo di «maestro». Potrebbe sembrare un modo abituale per indirizzarsi a persone che godono stima e fama, ma l’uso che ne fa Matteo è rivelatore: lo troviamo spesso in bocca a persone che sono spiritualmente distanti o ostili al Maestro (cf 9,11; 12,38). Meno usuale l’adulazione «sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità». È invece di conio biblico l’espressione «via di Dio» (cf Dt 8,6; At 9,2), che valorizza Gesù come colui che insegna la volontà di Dio, dimostrandosi così genuino maestro. Essi aggiungono un dato vero e incontestabile: «non guardi in faccia alla gente». Infatti l’autonomia di Gesù risulta ben documentata anche dalle controversie che precedono il nostro brano. Egli è un uomo interiormente libero, alieno da qualsiasi servile dipendenza, sganciato da qualsiasi condizionamento, capace di esprimere con assoluta chiarezza e senza remore il proprio giudizio su fatti e persone. Gli avversari sono quasi costretti dalle circostanze a riconoscergli tale prerogativa.

Le parole seducenti lasciano subito il posto a quelle insidiose. La trappola è pronta a scattare: «Dunque, di’ a noi il tuo parere: È lecito o no, pagare il tributo a Cesare?». Viene chiesto a Gesù di prendere una precisa e personale posizione su un argomento scottante, il pagamento delle tasse a Cesare. Questo è il nome comune dato a tutti gli imperatori di Roma. In quel momento regnava Tiberio. Il nocciolo della domanda non investe tanto la liceità del pagare le tasse, quanto il fatto che il denaro era dato all’occupante pagano. Il problema finanziario diventa questione politica e teologica. Per capire questo occorre, chiarire un poco la questione del tributo.

Pagamento delle tasse

Le tasse sono un onere per tutti i contribuenti, ieri come oggi. Lo diventano ancora di più quando sono un segno di sudditanza. Quest’ultimo fattore gioca un ruolo pesante nella storia di Israele. Fin dal ritorno dall’esilio i giudei avevano pagato ai dominatori di turno: Persiani, Tolomei, Seleucidi, Romani. Il sistema tributario era fluttuante e la pressione fiscale si inaspriva in occasione di guerre. Quando la Giudea divenne provincia imperiale, la popolazione aveva alle spalle una lunga storia di gravami fiscali. Secondo Giuseppe Flavio, al tempo di Archelao erano versati quattrocento o seicento talenti.

Due erano le principali imposte dirette, quella fondiaria (tributum soli), pagata in natura, e quella sul reddito (tributum capitis), pagata in denaro. Questa era dovuta da tutti coloro che avessero compiuto il tredicesimo anno di età, fino al sessantesimo. Certamente nessuna tassa è amata, ma, come si esprime M. Hengel,

 «la più odiata era, probabilmente, quella personale e sul reddito, gravante sul singolo individuo».

Quanto fosse invisa questa tassa, lo si percepisce dal nome stesso, che conserva la sua origine latina: la traduzione italiana «tributo» rende il greco kênson che traslittera il latino census. Tale nome entra nella lingua ebraica e aramaica con il significato peggiorativo di «multa». Ogniqualvolta veniva pronunciata la parola «censo», essa evocava in un ebreo un pesante onere, segno della sua sudditanza. Quindi, sia la lingua greca, sia quella ebraica non fanno che traslitterare il nome latino. Il senso di dipendenza si percepiva anche solo nel pronunciare la parola «censo». Che cosa stava dietro a questa parola, lo si evince dalla seguente citazione dello storico E. Schürer:

 «Se si anteponeva a tutto la fede nell’elezione di Israele, il soggiogamento del popolo di Dio ai pagani appariva come una mostruosità da rimuovere ad ogni costo. Israele non doveva riconoscere altra sovranità se non quella di Dio e del suo unto della casa di David. Il dominio dei pagani era contrario alla Scrittura. Da questo punto di vista, era discutibile non solo se si dovesse, ma anche se fosse legittimo obbedire alle autorità pagane, pagando loro il tributo richiesto (Mt. 22,17ss.; Mc. 12,14ss.; Lc. 20,22ss.)».

Si incrociano diversi motivi che rendono ostica questa tassa. Il giudeo che riconosceva l’autorità di Cesare metteva in dubbio la propria sottomissione a Dio. Inoltre la tassa somigliava a quella che ogni ebreo doveva pagare per il tempio (cf Mt 17,24). Perciò i mestatori politici, per creare confusione, cercavano di dare un significato religioso, equiparando il tributo a Cesare con quello per il tempio. Non fu mai intenzione dei Romani dare un significato religioso alle tasse, ma la domanda posta a Gesù sottende l’equivoco di scambiare un tributo puramente fiscale in tributo religioso.

C’era sufficiente materiale per formare una pericolosa miscela esplosiva. Bastava poco perché la situazione scoppiasse, con conseguenze non facilmente prevedibili. La questione non nasceva in questo momento. Da tempo gli ebrei si interrogavano sul problema, ma avevano maturato soluzioni diverse e contrastanti. Gli erodiani erano favorevoli al pagamento del tributo, in quanto molto legati a Roma. I farisei erano rassegnati al pagamento, in cambio della libertà religiosa di cui godevano. Il gruppo degli zeloti era decisamente contrario.

Il pensiero di Gesù

Ora è Gesù che deve manifestare la sua personale opinione: «Di’ a noi il tuo parere». La domanda era ben congegnata, pronta a far scattare la trappola: «È lecito o no». Sembra che Gesù debba scegliere tra l’accoglienza del tributo da pagare o il suo rifiuto. Nella prima ipotesi, si sarebbe rivelato filoromano, rinnegando o adombrando il pensiero giudaico che considerava il pagamento come una sudditanza. Nel caso avesse sostenuto l’illegittimità della tassa, si poneva in rotta di collisione con i Romani. Gli erodiani sarebbero stati pronti a denunciarlo come un sovvertitore dell’ordine pubblico, un ribelle alle leggi di Roma. Qui si comprende meglio l’importanza della loro presenza. Molto subdolamente i farisei li hanno arruolati e inseriti in una lega, eterogenea nei membri, ma omogenea nella finalità.

Gesù reagisce denunciando subito la cattiveria della domanda e mostrando di saper leggere le intenzioni. Bolla i suoi avversari con il pesante titolo di «ipocriti». Sposta quindi la domanda dal piano puramente teorico a quello pratico, chiedendo di avere una moneta. Il termine greco nómisma, usato solo qui in tutto il NT, significa propriamente «moneta legale». Gli viene presentato un «denaro» (equivalente a uno stipendio giornaliero medio, cf 20,2), una moneta d’argento dell’impero, con la quale nelle provincie si pagava il tributo all’imperatore. La richiesta di Gesù di vedere una moneta è immediatamente soddisfatta: ciò significa la facilità di reperire tale moneta in tasca ai suoi interlocutori e la loro disponibilità a farne uso. Quindi i giudei portano con sé il denaro romano e, com’è facile presumere, ne fanno uso regolare.

Ora, secondo la tecnica della controversia, Gesù pone una controdomanda circa l’identità dell’effigie e l’iscrizione, i due segni inequivocabili di appartenenza. I suoi avversari rispondono che immagine e iscrizione sono di Cesare. L’immagine era quella dell’imperatore Tiberio, ornata con una corona d’alloro tipica della dignità divina. Sua era anche l’iscrizione che lo proclamava «figlio del divino Augusto» e «sommo pontefice». Non si vergognano di far circolare una valuta pagana, segno della loro sottomissione all’occupante straniero. Nella prassi smentiscono quanto in teoria vogliono sostenere e che hanno implicitamente racchiuso nell’insidiosa domanda.

A questo punto Gesù dà la risposta completa, costruita in modo simmetrico: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Ciò che appartiene a Cesare è ben definito nel contesto immediato della discussione: è il denaro, simbolo del potere economico e amministrativo. I giudei facevano uso della moneta romana con notevoli vantaggi. Perciò, dovevano anche assoggettarsi agli obblighi civili che non interferivano su quelli religiosi. Sul pagamento delle tasse non si pone nessuna questione di principio. Il resto è di Dio. Per Lui si deve avere una donazione totale, che antepone gli interessi del regno e fa posporre gli affetti familiari (cf 10,34-37). Non viene detto espressamente che cosa appartenga a Dio.

La salomonica risposta di Gesù trova impreparati i suoi avversari che restano meravigliati. Non rimane loro che andarsene. Volevano tendere un laccio a Gesù e sono rimasti intrappolati dalla parola di verità, quella che inchioda all’evidenza di una logica che supera la miopia umana.

Il peso teologico dell’episodio gravita attorno alla risposta di Gesù. Una più approfondita analisi consentirà di cogliere meglio il senso delle sue parole.

Una nuova attenzione

Non si dà normalmente grande peso al versetto finale e soprattutto al verbo «rimasero meravigliati». Essendo dei nemici che parlano a Gesù per tendergli un trabocchetto e che si aspettano una sua parola da usare contro lui, la reazione più attesa sarebbe quella dello scandalo, di una sorpresa al negativo. Invece è una sorpresa al positivo. Possiamo meglio documentare la nostra osservazione proponendo una breve rassegna del verbo “meravigliarsi” (thaumazô) nel vangelo secondo Matteo.

Il verbo vi ricorre sette volte. In quattro casi sono le folle o i discepoli che si meravigliano davanti a qualcosa di straordinario, miracolo o altro (8,27; 9,33; 15,31; 21,20). Una volta è Gesù stesso a meravigliarsi, quando sente le sagge parole del centurione di Cafarnao (8,10). Infine, viene registrata la sorpresa di Pilato, che si meraviglia davanti al silenzio di Gesù che non reagisce alle accuse dei suoi nemici (27,14). Nei sei casi appena elencati, si tratta di una meraviglia positiva. Abbastanza logico pensare che lo sia anche nel nostro passo, l’ultimo caso da considerare.

Accettato il senso positivo del verbo, occorre tener presente che gli avversari di Gesù sono i discepoli dei farisei e gli erodiani, due gruppi che politicamente e teologicamente avevano idee parecchio distanti. Se tutti rimangono sorpresi della parola di Gesù e si ritirano in buon ordine, significa che non hanno nulla da eccepire. In qualche modo si rispecchiano in tale risposta.

Gli erodiani non possono accusare Gesù di essere un sovversivo o un antiromano, perché riconosce il diritto dell’imperatore. La domanda formulata verteva proprio sulla tassa: «È lecito o no, pagare il tributo a Cesare?». Gesù ne ammette la liceità. Sull’altro versante, i farisei sentono che il diritto di Roma è integrato e avvalorato dal diritto di Dio. Non sono bendisposti nei confronti dei Romani, tuttavia alimentano la speranza che un giorno la situazione cambierà, come citato in questa preghiera, presa dai Salmi di Salomone:

«Affretti Dio su Israele la sua misericordia; ci libererà dalla sozzura di nemici impuri. Il Signore è nostro re, in eterno e per sempre».

Anch’essi si ritrovano nella risposta di Gesù.

All’ «o…o» della domanda sembrerebbe far da contrappunto l’ «e…e» della risposta. La cosa non convince. Non si esce dal problema in uno stato di parità. Come in tanti altri casi, Gesù non si limita a risolvere una questione, sia pure spinosa, ma apre prospettive inedite e impensabili. Non la questione teorica della liceità del potere politico, bensì la sua persona era l’oggetto, non dichiarato, della controversia. Non si può parlare qui di semplice disputa a carattere politico.

Il valore commerciale e teologico del denaro

Le prime monete furono coniate in Asia Minore, molto probabilmente dal re Creso di Lidia, verso il 650 a.C. Alcuni studiosi ritengono che siano stati i mercanti ad avere inventato le monete, perché esse facilitavano il commercio. Effettivamente il loro impiego semplificò la vita anche in molti altri settori, come il pagamento di tasse, l’acquisto e la vendita di beni immobili e altro ancora.

Nella Palestina del primo secolo coesistevano i sistemi monetari greci e romani e il Nuovo Testamento li conosce entrambi. La dracma d’argento era la base del sistema greco, reso quasi universale da Alessandro Magno nel IV secolo a.C. Luca riporta la parabola della donna che ha perduto e poi ritrovato una dracma (cf Lc 15,8-10). Le monete romane cominciarono a circolare in Palestina dopo Pompeo, nel I secolo a.C., ed erano ampiamente usate sotto Erode il Grande. Il denaro era l’unità base del sistema romano. Ed è precisamente un denaro che viene presentato a Gesù durante la discussione che abbiamo sopra esaminato.

La moneta aveva un suo valore commerciale, stabilito dal tipo di moneta e dal tempo. Occorre richiamare e sottolineare il ruolo simbolico e, per certi aspetti, di vera propaganda, legato ai soldi. Con una moneta non si poteva acquistare molto, ma essa ricordava l’identità del sovrano e le virtù o i valori richiesti ai cittadini e ai popoli sottomessi. Sulla moneta infatti era impressa l’immagine del sovrano e qualche scritta. Numerose monete imperiali coniate al tempo dell’imperatore Traiano (98-117 d.C.) e valide ancora molto tempo dopo, riproducevano l’immagine dell’imperatore e spesso la parola pietas. La traduzione italiana “pietà” rende poco il senso profondo di quel termine latino, che designava una virtù da tradurre piuttosto con “devozione filiale”, intesa come obbedienza e sottomissione verso l’imperatore e i suoi dei. La moneta veicolava quindi una specie di propaganda che rammentava al possessore chi fosse l’imperatore e che a lui si doveva appunto pietas.

Tenuto conto di tutto questo, comprendiamo meglio la risposta di Gesù che raggiunge lo scopo in due modi, creando unità e richiamando le esigenze di Dio.

La discussione è servita a togliere l’illusione che una lotta contro l’autorità politica sia sufficiente a ridare smalto all’anemica vita spirituale del popolo. Gesù non ha demonizzato l’autorità politica, le ha, anzi, riconosciuto una funzione storica. Ne viene un primo insegnamento per il credente.

La storia della salvezza radica il cristiano nella concretezza del quotidiano, lo fa giocare in attacco e non in difesa, lo impegna per la costruzione della città terrena e gli conferisce la “doppia cittadinanza”, quella terrena e quella celeste. Scriveva Paolo VI nell’enciclica Octogesima Adveniens:

«La nascita di una civiltà urbana non è una vera sfida alla saggezza dell’uomo, alla sua capacità organizzativa, alla sua immaginazione verso il futuro? […] Che i cristiani coscienti di questa nuova responsabilità, non perdano coraggio davanti all’immensità della città senza volto, ma si ricordino del profeta Giona […] Nella Bibbia la città è sovente il luogo del peccato e dell’orgoglio; orgoglio di un uomo che si sente abbastanza sicuro di costruire la sua vita senza Dio, e persino per affermarsi potente contro di lui; ma esso è anche Gerusalemme, la città santa, il luogo dell’incontro con Dio, la promessa della città che scende dall’alto».

La maturità cristiana consiste anche nella capacità di lavorare, gomito a gomito, con ogni uomo e con ogni istituzione, animati da buona volontà per costruire la città umana. Viene così superata ogni discriminazione religiosa, etnica, sociale.

Gesù chiede di andare oltre. Stabilito il diritto di Cesare e il dovere del popolo nei suoi confronti, Gesù rivendica il diritto di Dio. Lo rivendica come primo. Il collegamento tra i due membri (Cesare-Dio) va letto piuttosto come un «ma»: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare, ma a Dio quello che è di Dio». Quasi a dire: «Sta bene il diritto di Cesare, ma non dimenticate e soprattutto anteponete il diritto di Dio». Gesù anticipa, con parole diverse, l’esigenza del comandamento più importante, come dirà poco dopo (cf 22,34-40). L’esigenza di Dio trascina con sé l’esigenza di rispettare il diritto dell’imperatore. Dio rimane comunque il primo e fonda il diritto dell’uomo. Perciò è da escludere una lettura «e…e» a tutto vantaggio di un «ma». Stabilito questo nesso, ne deriva che in caso di conflitto, dovrà essere salvaguardato il diritto di Dio (cf At 4,19; 5,29). Altrimenti, in situazione ordinaria, si profila una coesistenza: così intenderà la comunità primitiva il suo rapporto con lo Stato (cf Rm 13,1-7; 1Pt 2,13-17), compreso il dovere di pagare le tasse (cf Rm 13,7).

La risposta di Gesù è la trasposizione in parole del suo atteggiamento. Egli ha conservato nella sua vita una grande attenzione al Padre e agli uomini. Si è sottomesso a Maria e a Giuseppe, ha accettato un giudizio degli uomini, anche se iniquo, ha sempre conservato il suo legame con il Padre, ponendolo al di sopra di tutto. Era un primato che includeva tutto il resto. Ha sempre fatto nella sua vita una lettura teologica complessiva, orientando verso una pienezza.

In questa visione completa e integrale sta la meraviglia manifestata da erodiani e da farisei. La novità scaturisce dalla capacità di Gesù di una visione “olistica”, cioè complessiva, della realtà e dalla sua sensibilità nel riferire tutto a Dio. La sua vita certifica e conferma quanto espresso a parole. Perciò il brano lascia trasparire la finezza cristologica che supera di gran lunga la questione, occasionale e marginale, di pagare o meno il tributo a Cesare.

DOMANDE ALLA VITA E PER LA VITA

  1. Ho una visione della vita unificata, capace di apprezzare i diritti dell’autorità pubblica e quelli di Dio? Preferisco forse distinguere per ricavarne un tornaconto personale?
  2. Sono attento a compiere i miei doveri di cittadino partecipando attivamente alla vita sociale e politica del mio quartiere e città ? Mi informo sulle vicende e cerco di dare il mio giudizio in modo sereno, equilibrato, motivato? Sono capace di una critica schietta e costruttiva? Collabora volentieri con chiunque ricerchi il vero bene? Sono forse classista nei miei interventi?
  3. Pago regolarmente e con precisione le tasse e i tributi che devo allo Stato, al Comune o a qualsiasi altra Istituzione pubblica? Coltivo forse una mentalità che favorisce il frodo e l’evasione fiscale? Ricordo qualche esempio negativo da evitare? E qualche esempio positivo da seguire?
  4. Favorisco e diffondo il pensiero che “lo Stato siamo noi” e che i miei contributi economici sono un aiuto alla collettività?
  5. Riconosco il “diritto di Dio”, non come tassa da pagare, ma come bene da condividere? Lo riconosco come “Padre nei cieli” che ha amorevole cura per i suoi figli? Oppure è solo “l’Essere Superiore”? Affermo con la parola e con la vita il primato di Dio? Gli lascio lo spazio, il tempo e l’affetto che merita? Potrei fare qualcosa di meglio su questo aspetto?

PREGHIERA

O Padre che sei nei cieli,
ma che abiti anche sulla terra perché essa è tua e noi siamo tuoi,
riconosciamo il tuo primato di Creatore e Signore dell’universo,
soprattutto riconosciamo il tuo primato di amore
che ci rende capaci di amare e di apprezzare
la città in cui viviamo, la nostra Italia, l’Europa e il mondo intero.
Vogliamo essere cittadini del mondo, pronti ad impegnarci
con cristiana passione là dove la tua Provvidenza ci ha collocati
per la costruzione di un mondo migliore,
sulla base di una civiltà dell’Amore che ha in Te, in Gesù Cristo e nello Spirito Santo
il suo modello e la sua sorgente.

AMEN.

Fonte

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XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Mt 22, 1-14
Dal Vangelo secondo  Matteo

15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 22 – 28 Ottobre 2017
  • Tempo Ordinario XXIX
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo A
  • Salterio: sett. 1

Fonte: LaSacraBibbia.net

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