XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B
Nel vangelo di oggi troviamo Cristo che ritorna a Nazareth, anzi Marco dice “nella sua patria” (Mc 6,1), quasi ad estendere Nazareth a tutta la nazione e a tutto il suo popolo. Di sabato entra nella sinagoga e si mette ad insegnare, come aveva già fatto (cf Mc 1,21) ma è solo da Luca che sappiamo il contenuto, solo lui precisa cosa Cristo sta dicendo, cosa insegna.
Ciò che dice colpisce fortemente gli ascoltatori. Quando Cristo ha parlato per la prima volta ha provocato una forte reazione del demonio, di quello spirito immondo che era dentro un uomo che stava lì nella sinagoga. Adesso la reazione veemente proviene direttamente dagli ascoltatori ed è più grave perché siamo già nel capitolo sesto di Marco, Cristo è già entrato nel paese dei pagani, ha già cominciato la liberazione dal male anche tra i pagani, cioè anche dell’uomo come tale, non solo dell’uomo religioso, appartenente all’antica alleanza. Nel territorio di Israele ha guarito l’emorroissa e rianimato la figlia di Giairo, episodi che agganciati simbolicamente al numero 12 ci rimandano a Israele e quindi pare logico che Marco intenda estendere la situazione della sinagoga su tutto il popolo.
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Ora troviamo Gesù tra i suoi compaesani e avviene un rifiuto. È una situazione che resiste alla venuta del Messia. Cristo non viene accettato e percepito come Colui che è mandato dal Padre per la salvezza degli uomini ma comanda la religione, l’istituzione religiosa della sinagoga che tiene il popolo in un regime religioso di schemi e dottrina dove l’autorità blocca e punisce ogni slancio verso Cristo. La parola di Cristo li colpisce, questa è la portata reale di quello che viene tradotto con stupore, e li colpisce in modo negativo. Si potrebbe addirittura tradurre con li ferisce, li sciocca. Ma in loro prevale un orizzonte dell’ordine della natura come direbbe Berdjaev, cioè quello del sangue, della parentela, del villaggio dove si viveva insieme e dove perciò si creano delle categorie sugli altri che pretendono di essere esaurienti. Che pretendono di conoscere l’altro.
Li turba che Cristo dica che in Lui si sta compiendo l’attesa, in Lui si sta compiendo la promessa di Dio, che Lui sia l’Inviato, ricolmo dello Spirito, che su di Lui che scende lo Spirito del Signore e lo consacra come Messia, come Salvatore. È ciò che i capitoli precedenti hanno reso semplicemente ovvio ma che non può entrare negli schemi teologici degli scribi e di quelli che li seguono. Perché lungo i secoli l’attesa ha creato una immaginazione certamente grandiosa del restauro del Regno di Davide e ora, proprio a Nazareth, proprio nella zona dello zoccolo duro della discendenza davidica, Cristo sta spaccando questo schema improntato sui criteri di questo mondo, sul potere del mondo. Scandalizza accettare che il tempo messianico e la salvezza avverrà in un modo così quotidiano, così feriale e attraverso un lavoratore, un carpentiere.
Ma il Vangelo insiste proprio che la fede, accoglienza di una vita nuova, si realizza nel quotidiano, lontana dalle dinamiche religiosamente umane che fanno leva su forza e potenza. La fede trasfigura il feriale nella festa nel compimento, la religione cerca le cose straordinarie che diano ragione del nostro sforzo.
A Cristo questo rifiuto costa ma sa che “un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e tra i suoi parenti” (Mc 6,4). Infatti “È venuto tra i suoi e non l’hanno accolto” (Gv 1,11).
I suoi sono sicuramente i più vicini, il suo villaggio, la sua gente. Ma non si riesce a cogliere che lui realizza una nuova unione tra gli uomini, non più fondata sul sangue dei genitori ma che sarà parentela del suo sangue, come afferma Cabasilas nella sua teologia sull’eucaristia. Sarà la figliolanza che compie la volontà del Padre il nuovo principio dell’unità dell’umanità (cf Mc 3,35). Ma in questo rifiuto c’è ancora di più, riguarda l’umanità stessa: viene come uomo, come Figlio di Dio e non è accettato proprio perché è venuto come uomo, uomo come noi mentre noi aspettavamo e volevamo qualcosa di speciale.
Se ne parla gettando discredito su di lui, Marco mette in evidenza che si chiedono se sia figlio di Maria (cf Mc 6,3) quando in tutta la loro tradizione l’identità della persona si trasmette attraverso la paternità. Sono vicini alla verità e non riescono a comprenderla. Indicarlo come figlio di Maria può voler dire da un lato che ciò che Lui fa non è secondo la loro tradizione, in quanto la paternità rimanda alla continuità della tradizione. Dall’altro lato il fatto che non dicano figlio di Giuseppe maschererebbe l’accusa di interrompere una tradizione, di essere un innovatore e perciò di essere nell’errore. Ma ben più gravemente in questo “figlio di Maria” potrebbe celarsi un dubbio sulla paternità, che, se così fosse, svelerebbe ancora di più la loro “ignara” vicinanza alla verità: perché infatti Lui non è figlio di Giuseppe così come è figlio di Maria.
Lui è il Figlio del Padre e loro non riescono ad arrivarci, sono molto vicini però non arrivano. E questo dice una grossa verità sul cammino del cristiano. La conoscenza, la visione dipende dalla vita nello Spirito e non dalle nostre considerazioni e conclusioni che possono spesso basarsi su una lettura razionale secondo la natura o addirittura sulla menzogna se non a volte addirittura partire da una cattiveria.
Gesù non viene accettato, è rifiutato, mandato via e si stupisce della loro incredulità.
Qui davvero c’è lo stupore, Lui si stupisce di come sono increduli davanti a una verità che risulta palese: “Io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse” (Gv 14,11).
Ma non c’è opera che possa scardinare la sclerosi religiosa, non c’è parola che possa smuovere una testardaggine che diventa espressione della cattiveria dell’uomo che necessita redenzione ma non la accoglie, perché per vedere il regno di Dio bisogna rinascere dall’alto, quello che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito (cf Gv 3,1-13). Bisogna avere la vita dello Spirito per capire lo Spirito, la vita puramente biologica non può andare al di là di sé stessa. Bisogna avere una vita che ha una intelligenza relazionale, che considera l’altro, una mentalità dell’alleanza. Infatti già la storia del padre della fede, Abramo, comincia con “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa del tuo padre…” (Gen 12,1).
P. Marko Ivan Rupnik – Fonte