Commento al Vangelo di domenica 7 Novembre 2021 – Comunità di Pulsano

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Domenica «dell’obolo della vedova»

L’evangelo di questa domenica contrappone i gesti ostentati di scribi ambiziosi e avidi di ricchezze all’atteggiamento umile e pieno di fede di una vedova povera, Nella trama dell’evangelo di Marco è significativo che la critica rivolta alla corsa ai privilegi e agli onori, a cui fa eco l’elogio della generosità di una donna del popolo, venga collocata proprio a questo punto: Gesù infatti sta per entrare nel santuario del cielo, dopo aver offerto tutto se stesso e dopo aver conosciuto la più profonda umiliazione. Possiamo immaginare i diversi sentimenti di coloro che portano la loro offerta al tempio. Fierezza e presunzione dei ricchi, desiderosi di mettere in mostra la loro generosità, che tuttavia intacca appena i loro beni. Discrezione e umiltà di una vedova povera che fa scivolare due monetine nella cassetta, privandosi del necessario, come un tempo la vedova di Sarepta aveva donato con fede al profeta Elia quel poco che le rimaneva per non morire di fame. Chi sarà preferito da Dio? Un rabbino del tempo di Gesù aveva già osservato che «due tortore offerte da un povero hanno più valore di mille sacrifici del re Agrippa». Gesù, Parola di Dio, lo conferma, additando ai suoi discepoli l’offerta del povero, che prefigura l’offerta che egli stesso farà del proprio corpo e del proprio sangue, sotto gli umili segni del pane e del vino.

Col suo obolo, la vedova offriva a Dio tutto quello che aveva per vivere. Nell’eucaristia, Gesù ci dona realmente se stesso con tutto quello di cui abbiamo bisogno per vivere. Da che parte vogliamo stare? Con gli scribi che si preoccupano di fare bella figura rinunciando soltanto a una piccola parte del superfluo, o con la vedova povera che dona tutto quello che ha per vivere?

Proseguiamo con l’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 87,3

La mia preghiera giunga fino a te;

tendi, o Signore, l’orecchio

alla mia preghiera.

Nell’antifona d’ingresso (Sal 87,3, SI) il Salmista è consapevole della sua fine prossima («vicino agli inferi sta l’anima mia» v. 4b) e per questo si rivolge verso l’unico suo “Rifugio” con la sua supplica. Questa è un’epiclesi affinché la sua voce giunga fino alla Presenza del Signore, davanti al trono della sua grazia, sempre propizia e favorevole. In parallelismo sinonimico, con una seconda epiclesi l’Orante chiede che il Signore tenda il suo orecchio benigno all’ascolto di questa voce supplicante (v. 3; e 30,3; 85,1). Il che, secondo la teologia simbolica così espressiva, non può avvenire se il Signore non scende proprio Lui, se non si fa vicino, come una Persona che accetta il colloquio con la persona del suo fedele.

Canto all’Evangelo Mt 5,3

Alleluia, alleluia.

Beati i poveri in spirito,

perché di essi è il regno dei cieli.

Alleluia.

Accoglie la proclamazione dell’Evangelo di oggi la rilettura cantata della prima beatitudine tra le beatitudini, quella dei poveri del Signore, che dal Padre Buono hanno ricevuto per primi il diritto di possedere per l’eternità il «Regno dei cieli», che in realtà sono Cristo Risorto e lo Spirito Santo (Mt 12,28 // Lc 11,20). La Chiesa che Lo celebra perennemente come suo Signore Risorto, Lo contempla anche questa Domenica del Tempo per l’Anno, privilegiato tra tutti, in un episodio della sua Vita in mezzo agli uomini, quando insegna, opera, o prega. Adesso insegna ai suoi discepoli quale sia la carità perfetta del Regno di Dio, quella di una donna anonima, che conosceremo nella sua folgorante bellezza di beata solo nella Luce eterna senza tramonto e beata senza tristezza.

Lo scriba che era andato da Gesù per sapere qual è il comandamento più importante e meritò di sentirsi dire da Gesù di non essere lontano dal regno di Dio (12,28-34), era stato una vera eccezione. Per quanto riguarda gli altri scribi non bisogna farsi illusioni e Gesù mette in guardia la folla affinché non si lasci abbindolare dalle loro apparenze e ipocrisie così da essere tratta in inganno. Marco sembra qui sunteggiare quanto Gesù in diverse occasioni aveva avuto modo di rimproverare ai maestri della legge (Cfr. Mt 23,1-36; Lc 11,39-52), fermando la sua attenzione specialmente sulla vanagloria (vv. 38-39), l’avidità e l’ipocrisia (v. 40).

Matteo nella sua requisitoria del c. 23 espone una serie più lunga e dettagliata di accuse agli esperti della legge (ben sette maledizioni), ai quali sono associati i farisei. Comunque anche il rapido elenco dei principali difetti degli scribi proposto da Marco bolla senza pietà questo gruppo. Le parole riportate dall’evangelista sono la misura della rottura definitiva di Gesù con questo gruppo dirigente, che ha un ascendente spirituale enorme sul popolo. Significativamente bisogna notare che questi giudizi di Gesù sugli scribi, insieme all’episodio della vedova nel tempio, costituiscono le ultime battute degli evangeli sinottici prima del discorso escatologico e dell’inizio della passione.

I lettura:  1 Re 17,10-16

La pericope narra del viaggio ordinato dal Signore al profeta Elia, che si reca a Sarepta, in Siria, da una vedova poverissima. Questa nella carestia infuriante ha solo un pugno di farina e un goccio d’olio, da farne una schiacciata per mangiare l’ultima volta con il figlioletto e poi morire. Sfinito dal viaggio, Elia chiede a questa vedova così provata, in apparenza stranamente, in realtà per provare la sua fede, di bere e di mangiare prima lui, ed è obbedito. Per questo annuncia alla vedova che esercitò la carità, che il Signore le moltiplicherà le provviste nella madia e nella giara dell’olio, per i 42 mesi della carestia. Non si sa, in questa pagina, quale sia la fede più grande: se quella di Elia o quella della vedova. Elia, uomo di Dio, accetta la sua estrema povertà e si rimette completamente, per vivere, a una pagana. E la vedova riesce a non perdere la sua ultima speranza, non sapendo neppure quale seguito potrà avere il dramma. Chi ha dato tutto non si stupisce poi di ricevere tutto. Per il significato della carità della vedova verso Elia, diremo nella lettura dell’Evangelo.

Esaminiamo il brano

38-39 – «Diceva loro»: Gesù mette in guardia la folla e, al di là della folla, la comunità dei discepoli da due atteggiamenti biasimevoli degli scribi: la vanità e l’ipocrisia.

«mentre insegnava»: non sono parole in libertà, ma vero e proprio insegnamento.

«Guardatevi»: l’imperativo presente dice che non si tratta di cosa nuova: il buon senso religioso già metteva in sospetto i pii israeliti e Gesù conferma quanto il sano istinto aveva intuito: «Continuate a guardarvi» oppure «Fate bene a diffidare di…» ecc.

«scribi»: gli scribi non hanno in Marco un ruolo particolarmente importante; tuttavia sono presentati come un gruppo organizzato, quasi sempre presente nelle discussioni con Gesù e a lui ostili fin dal principio (Cfr. 3,22-30). Nel corso della descrizione marciana del ministero di Gesù a Gerusalemme fino a questo punto gli scribi sono stati associati ai capi dei sacerdoti e agli anziani come avversari di Gesù (cfr. 11,18.27). Sarà questo stesso gruppo che in 14,1 ordirà il complotto per sbarazzarsi di Gesù.

Ai tempi del NT infatti gli scribi erano versati non soltanto nell’arte del leggere e redigere contratti ed altri documenti amministrativi, ma erano anche esperti di diritto e pertanto idonei a prendere parte attiva nella società giudaica. Dato che per il popolo ebraico la legge fondamentale era la Torah, gli scribi svolgevano il doppio ruolo di avvocati e di teologi.

Per il nostro evangelista gli scribi non sono interpreti della Scrittura, ma veri e propri teologi e dalle loro labbra, se si eccettua il caso di Domenica scorsa, non esce mai una citazione biblica; anzi lo stesso evangelista gode quando può citare testi biblici che contraddicono o demoliscono le opinioni degli scribi (Cfr. 7,5-13; 9,11-13; 12,35-36). Gli argomenti che essi propongono a Gesù provengono dalla loro problematica etica (7,5), dalle loro ipotesi messianiche (9,11 e 12,35) o dal loro concetto dell’onore di Dio (2,6-7; 3,22; 14,64).

Lo scriba ideale è descritto molto bene da Ben Sira (che sembra abbia gestito una scuola per aspiranti scribi) in Sir 38,24-39,11. Oltre all’arte fondamentale del leggere e dello scrivere, i futuri scribi dovevano studiare «la legge dell’Altissimo» e la sapienza degli antichi, viaggiare per allargare le loro esperienze, pregare regolarmente e chiedere a Dio la sapienza e attraverso tutte queste cose guadagnarsi l’immortalità che viene dall’avere un buon «nome».

L’ideale positivo dello scriba di Ben Sira trova conferma nel NT in ciò che spesso viene chiamato l’autoritratto di Matteo: «…ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

«in lunghe vesti»: il testo parla di «stole», che erano appunto vesti lunghe, che scendevano fino a terra. Ma poiché questo era il costume comune è probabile che si alluda piuttosto alla qualità preziosa di tali vesti o più concretamente a quelli scialli, detti tallit, che i rabbini usavano e usano ancora indossare sopra le veste ordinaria, ornandoli con lunghi filamenti. Seguono poi altre occasioni che venivano sfruttate dagli scribi per mettersi in mostra.

40 – «divoravano le case delle vedove»: così ha letteralmente e con molta efficacia espressiva il testo greco. Si riferisce all’uso di molti scribi che, con la scusa di assistere le vedove bisognose di consiglio e di conforto, sfruttavano la loro posizione di esperti della legge per farsi pagare profumatamente le loro prestazioni, approfittando anche della loro ospitalità. I legali con una reputazione di importanza e di religiosità potevano più facilmente procurarsi la nomina a tutori dei beni delle vedove e così appropriarsi di una parte di quei beni.

«casa»: (oikia) una coloritura semitica per indicare l’edificio con tutto quello che contiene, in roba e denaro: insomma l’intera proprietà. L’accenno alle vedove prepara il campo per il contrasto che segue in 12,41-44. Gesù accusa questi scribi di mettersi volutamente in mostra per attirare l’attenzione del pubblico al fine di accrescere la propria reputazione e mettersi in una posizione migliore per poter arricchirsi a scapito della categoria più indifesa della società giudaica. Per accrescere il loro prestigio arrivano a simulare anche una vita di preghiera ininterrotta; preghiere inutili, manca infatti la conversione del cuore. Per questo saranno giudicati più severamente! Ricordiamo qui la critica mossa contro l’ipocrisia nella preghiera in Mt 6,5-6 e l’insegnamento sul valore delle preghiere brevi in Mt 6,7-15 (in particolare 6,7-8).

«riceveranno una condanna più severa»: Dato che pregano principalmente per apparire al pubblico pii e devoti, la loro ricompensa consiste solo nell’essere notati dagli altri (cfr. Mt 6,5). E perché la loro preghiera non è sincera (poiché in realtà è mirata agli uomini anziché a Dio) Dio li giudicherà più severamente.

41 – «sedutosi»: Gesù prende l’atteggiamento solenne del Maestro. Quante volte chiama a se i discepoli nei momenti più importanti del suo rapporto con loro (Cfr. 3,13; 6,7; 8,1.34). Gesù insegna facendo parlare i fatti, cioè con una azione simbolica, alla maniera dei profeti, simile al modo in cui per far capire chi e come è il più grande nel regno dei cieli prese un bambino e lo mise in mezzo (Cfr. Mt 18,1-5).

«davanti al tesoro»: il termine greco è gazofilacio. Nel mondo antico i templi, compreso il Tempio di Gerusalemme (vedi 2 Maccabei 3), svolgevano anche la funzione di banca o di tesoro, e venivano spesso presi di mira da rapinatori o conquistatori in cerca di denaro e oggetti preziosi. In Mc 12,41-44 si suppone tuttavia che questo «tesoro» servisse alla raccolta delle offerte fatte dal popolo per la manutenzione del Tempio di Gerusalemme. Tra gli studiosi è aperta la discussione se il termine greco gazophylakion indichi il «tesoro» in senso generico o più concretamente una cassetta o un cofano per l’elemosina. Secondo la Mishnah (m. Sheqalim 6,5) nel santuario c’erano tredici cassette a forma di tromba, ciascuna destinata ad uno specifico tipo di offerta (tasse annuali, offerte per gli uccelli, ecc.).

«gettava»: Nel tempio erodiano le donne potevano assistere alle funzioni liturgiche accedendo in un atrio del tempio in una galleria a loro riservata. Da questo atrio era possibile, tramite una scalinata di 15 gradini, accedere al cortile riservato agli uomini. Vi era anche una sala o corridoio che Marco chiama con il termine greco «gazofilacio» dove sono collocate le 13 trombe o cassette a forma di imbuto per ricevere le offerte suddivise secondo le intenzioni degli offerenti. I frequentatori del tempio non gettavano il denaro personalmente, come noi oggi nelle cassette dell’elemosina, ma lo consegnavano al sacerdote incaricato, il quale poi lo metteva in questo o quel salvadanaio secondo l’indicazione dei singoli offerenti. Ciò spiega come Gesù fu in grado di osservare l’offerta della povera vedova. Stando alle circostanze, essa dovette portare il suo modesto obolo “come offerta libera” senza particolare destinazione, ed in tali casi era previsto il salvadanaio n° 13. Con il denaro così raccolto venivano offerti degli olocausti, per cui la donna intendeva compiere un semplice atto di culto a Dio. Le offerte per i poveri venivano raccolte altrove oppure infilate in un recipiente a parte. Il luogo delle offerte dove erano collocate le trombe, shopharót, era chiamato korbana, che significa come già sappiamo «offerta».

42 «venuta una vedova povera»: Nell’antico Israele, la donna alla quale era morto il marito non aveva nessun diritto all’eredità. Mentre era possibile combinare un matrimonio di levirato (cfr. Dt 25,5-10; Mc 12,18-27) e per la figlia di un sacerdote era possibile tornare alla casa di suo padre (cfr. Lv 22,13), per la maggior parte delle vedove non c’era altra soluzione che fare affidamento sui loro figli (se ne avevano) o sulla carità altrui. È per questo motivo che molti testi dell’AT (es.: Dt 14,29; Ger 49,11; Sal 68,6; 146,9) presentano Dio come il supremo difensore delle vedove (e degli orfani). I profeti dell’AT denunciano sovente lo sfruttamento delle vedove (es.: Is 1,17.23; Ger 7,6; Ez 22,7; Zc 7,10). La comparsa della vedova povera in Mc 12,42 era stata anticipata in 12,40 dall’accusa contro quegli scribi che «divorano le case delle vedove». Gesù si rivela spesso come il Figlio autentico del «Padre degli orfani e Giudice delle vedove» (Sal 67,6), Colui che si prende cura amorevole dei suoi piccoli e innocenti ad uno ad uno (Sal 10,14; 145,9). Intorno al Signore appaiono diverse figure esemplari di vedove. Anna la profetessa quando è ancora Bambino (Lc 2,36-38). La vedova di Pietro che guarisce dalla febbre maligna (Mc 1,29-31). La vedova di Naim alla quale, preso dalle divine viscere di misericordia, resuscita il figlio unico (Lc 7,12). Gesù rinvia alla provvidenza che Elia nella carestia che imperversava portò alla vedova di Sarèpta di Sidone, e almeno per il momento non a quelle d’Israele (Lc 4,25-26). Presenta l’esempio di preghiera assidua ed efficace quella della vedova che importuna il giudice iniquo (Lc 18,3-5).

Facciamo qui una «piccola Nota» sulle vedove nella Scrittura dell’A. T.

L’antico Oriente (Babilonia, Egitto) aveva una precisa legislazione che riguardava le vedove. L’A. T., che chiama il Signore «Padre degli orfani e Giudice delle vedove» (Sal 67,6; tratto ribadito da Dt 10,18), come si è accennato, non è da meno, e così ha una norme severe a favore delle vedove, facile oggetto di persecuzione (la vedova di un sacerdote, già ripudiata e che resta senza figli, Lev 22,13), di insidie se giovani, di sfruttamento. La vedova deve essere ammessa a partecipare alle feste gioiose, e lì partecipare ai conviti (di pentecoste, Dt 16,11; delle capanne (Dt 15,14); anche alle vedove debbono essere devolute le decime (Dt 26,12-13).  Ma lo stato di vedovanza presenta sempre una nota di dolenza, di abbattimento e di tristezza, se forse si eccettua il caso di Giuditta, ricca e giovane, restata vedova e scelta davanti al Signore. Se la vedovanza è desolazione, allora Gerusalemme distrutta che piange sulla sua miseria è assimilata ad una figura regale già felice e fiorente, il cui destino è la catastrofe (Lam 1,1; 5,3).

La legislazione dunque si prende molto cura delle vedove, alle quali si deve rendere giustizia ma avendo già prima misericordia per esse, e sopra si sono presentati alcuni testi, come Es 22,11 dall’antico «codice dell’alleanza» dovuto a Mosè. è prescritto che da esse non si prenderà neppure la veste in pegno (Dt 24,17). La vedova ha anche diritto di emettere liberamente voti al Signore, senza controllo dei parenti e di scioglierli dopo l’adempimento (Num 30,10).

Inoltre, l’A. T. presenta una lunga serie di figure di vedove, tutte molto pie e meritorie, da ricordare:

  1. Tamar, l’irregolare (Gen 38,12-30), che tuttavia merita di diventare anche lei l’antenata di Gesù (Mt 1,3).
  2. Rut la Moabita, privilegiata per essere l’antenata di David (libro di Rut; e vedi l’Evangelo della precedente Domenica XXXI).
  3. La vedova sapiente di Tekoa, che induce David a perdonare il figlio Assalonne che aveva ucciso il fratello Amnon, che aveva violato la sorella Tamar (2 Sam 14,1-24).
  4. La vedova di Sarefta beneficata d Elia (1 Re 17,8,24).
  5. Giuditta, chiamata la vedova bella, che salva il suo popolo assediato, e resta la figura della comunità orante (libro di Giuditta).
  6. La sfortunata Sara, restata vedova sette volte per l’opera maligna del diavolo, ma alla fine è compensata dal matrimonio con Tobiolo, procurato dall’arcangelo Raffaele (libro di Tobia).

«due monetine»: la povera vedova getta due sole monete, per il valore di un quadrante romano. La descrizione vivace dì Marco è dallo stesso evangelista tradotta per i suoi destinatari romani: la parola greca leptés (= leggera, sottile, spicciolo) è riportata anche con il termine latino kodràntes (= quadrans, quattrino) che indicava la più piccola moneta in circolazione a Roma. La presenza in Marco di termini derivati dal latino, particolarmente nelle frasi esplicative come questa, è quantomeno coerente con l’ipotesi che il vangelo sia stato composto a Roma. Il quadrante romano era 1/4 di «asse», a sua volta 1/10 di denaro romano; questo era circa una giornata di salario. L’asse era del valore di 12 grammi di rame. 1/40 della giornata di salario di un operaio: gli «spiccioli», oggi forse meno di 10 centesimi di euro che nessuno più raccoglie se caduti in terra!

43 Gesù richiama il fatto ai discepoli. È una vera e propria convocazione con un esordio solenne.

«In verità»: traslitterazione dell’ebraico ‘amen = certamente, veramente, sinceramente. Nell’uso del Giudaismo e della Chiesa sì riferisce a ciò che precede (è posto alla fine di un discorso o di una preghiera); nelle parole di Gesù si riferisce sempre a quanto segue (è posto al principio), conferendo solennità alla formula. Quindi con essa Gesù è come se affermasse: «Io vi dico». Il suo insegnamento è impartito con autorità e autonomia. Mc lo usa 12 volte; Mt 30; Lc 5; Gv 25 ma nella forma raddoppiata: «Amen, amen»,

44 – «quanto aveva per vivere»: nella versione greca si dice: «tutta la sua vita (bios)» ; la donna ha espresso il dono totale di sè, ha attuato, anche secondo l’interpretazione ebraica il comando dell’amore a Dio con tutto ciò che aveva per vivere. Potremmo tradurre che si era tolto il “pane di bocca” per darlo al tesoro del tempio.

Siamo davanti ad un paradosso: da una parte gli «intellettuali» che cercano e discutono soluzioni aggiornate e moltiplicano invece i dubbi e «divorano le case delle vedove»; dall’ altra l’azione di una povera donna che poteva fare a meno di contribuire al sostentamento del culto sacrilego di quei mercanti del tempio che invece diventa modello di fede.

Le parole di Gesù più che di lode sembrano un lamento; poco dopo, nel racconto di Marco, mentre i discepoli lo invitavano ad ammirare le belle costruzioni del tempio, egli esplode in una tremenda profezia: «Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta».

La vedova è senz’altro generosa. Ma non è forse generosa fino all’eccesso? Gesù approva veramente il suo comportamento? Finora in Marco 11,12 il Tempio di Gerusalemme e i suoi gestori sono trattati da un punto di vista piuttosto critico (cfr. in particolare 11,15-19) e in 13,2 Gesù preannuncerà la distruzione del Tempio – un evento che si sarebbe avverato nel 70 d.C. per mano dei Romani. Così il contesto di Mc 12,41-44 solleva la domanda se la generosità della vedova debba essere intesa come un’occasione di lode (l’interpretazione tradizionale) o di lamento (interpretazione suggerita da Addison G. Wright e da altri). Se interpretata come motivo di lamento, l’azione della vedova serve ad illustrare i pericoli associati alla religione cristiana istituzionale che consentiva all’istituzione del Tempio di manipolare questa donna generosa fino a convincerla di privarsi di quel poco che possedeva. Come minimo la dovuta attenzione al contesto marciano lascia aperta la questione se la vedova sia presentata come un modello da imitare per la sua sincerità e generosità o come qualcuno degno di compassione per essere stato vittima di uno sfruttamento religioso.

Da notare che i discepoli, in genere sempre attenti e curiosi, di fronte all’episodio non manifestano reazioni. Ancora non sono in grado di capire l’importanza del fatto. Occorrerà la Pentecoste dello Spirito Santo, come mostrerà poi il libro degli Atti, nell’intensa vita di carità della primitiva comunità.

La vedova per noi oggi appare qui come la figura che rappresenta la Chiesa dei poveri del Signore, dei suoi tementi, pii e devoti e oranti, la Chiesa che è la Sposa ancora “vedova” del suo Sposo divino, che nella speranza mai venuta meno invoca affinché venga, e nelle grandi feste benedice «Colui che viene» che come il «benedetto dal Nome del Signore» viene a visitare finalmente questo popolo in attesa (Sal 117, 26). A quei poveri aveva parlato il sapiente d’Israele un tratto che si addice in modo mirabile alla vedova:

Di buon animo rendi gloria a Dio,

e non diminuirai le primizie delle tue mani,

e in ogni dono rendi gioioso il volto tuo,

e nell’esultanza santifica le decime tue,

dona all’Altissimo secondo il dono suo,

e con occhio benevolo rendi prodighe le tue mani,

poiché il Signore è ricompensatore,

e ti restituisce sette volte tanto (Sir 35,10-13).

Il testo non riporta quali grandi grazie divine avesse ricevuto quella Ebrea, ma Gesù, ammirato, annota come le viveva. E senza dirlo rimanda a 3 opere spirituali e fondanti della Legge che il Signore gradisce fino alla fine dei tempi, e che appunto questa vedova adesso, davanti al Figlio di Dio, ha adempiuto nella semplicità del suo cuore pieno di nascosta carità: è entrata nel tempio per pregare il Signore, poi nell’uscire ha fatto l’elemosina a Lui nei fratelli, quindi per quel giorno (e chi sa quanti altri ancora) digiuna. Questa vedova senza nome è una dei «poveri del Signore», discreta, umile e fedele.

La Chiesa fece tesoro dell’insegnamento divino sulle vedove. S. Ignazio Vescovo d’Antiochia, glorioso Martire a Roma (verso il 107-110) nella struttura della comunità pone le vedove dopo i Vescovi e i Presbiteri e i diaconi, come una specie di ordine consacrato, e presta ad esse molta cura. Si ritrova questo nei Padri dei secoli 2° 3°, per i quali le vedove vanno sempre prima delle vergini (S. Ippolito di Roma, etc.). Sotto le persecuzioni appariva più che chiaro ai Padri l’essenza della Chiesa, la quale era contemplata come «la Vergine» che si prepara per lo Sposo, come «la Sposa vincolata» allo Sposo divino dalle Nozze consumanti irreversibili, fedeli, feconde, come la «Madre sempre nel parto» doloroso (per i Martiri), come «l’Orante» perenne, e infine come «la Vedova» che ha momentaneamente perduto lo Sposo, e Lo invoca con desiderio e Lo attende con ansia. Ora, le vedove nella Chiesa erano considerate e onorate come il “segno” vivente della Chiesa stessa, della sua stessa misteriosa vedovanza operante, sofferente e orante. E ad esse, sotto la cura immediata della Gerarchia, riconosceva questa condizione dolorosa ma privilegiata in sé, anche tramite un rito di benedizione del resto non apostolico e quindi non necessario, e riservando così alle vedove un posto segnalato tra tutti gli ordini dei fedeli.

Ancora nella redazione della metà del secolo 4°, ma con materiale molto più antico, le Costituzioni apostoliche dedicano l’intero Libro III alla condizione delle vedove nella comunità, con i numerosi problemi che ne derivano.

Poi si è sempre più trascurata e quindi messa da parte la vedovanza come stato di consacrazione nella Chiesa. Le antiche Liturgie conservano sempre un rito di benedizione, così l’antico Sacramentario gelasiano e altri Sacramentari, che presentano diverso formulari di Messe «per la benedizione delle vedove». Ma tale rito è sempre meno usato e resta come una reliquia. L’attuale Messale Romano ha formulari per «diverse occasioni», ma non nomina le vedove. Il che la dice lunga sull’attuale stato di totale disinteresse per loro.

In realtà, oggi come sempre, la Chiesa in ogni minima Parrocchia possiede nelle sue vedove un formidabile esercito silenzioso, con un incalcolabile potenziale spirituale, queste donne provate dal dolore, sempre presenti e assidue alla preghiera, spesso discrete dispensatrici di carità, nulla rivendicando per se stesse, anche perché mai nessuno ha mai insegnato ad esse la loro immensa dignità cristiana.

Nessuno pensa di reintrodurre un “ordine” delle vedove (un ennesimo ordine inutile come quelli esistenti). Tuttavia si dovrebbe ripensare la questione, e quindi considerare e porre in funzione e sviluppare la loro condizione consacrata, che alle vedove deriva dal loro battesimo e dal loro matrimonio e dirigerle alla diaconia che ad esse compete, per i poveri, i sofferenti, le orfane, le ragazze. Come fece Paolo, in condizioni della Chiesa quasi identiche a quelle attuali, quando la sapienza apostolica sapeva utilizzare ogni risorsa divina, umana e materiale.

Nel deserto attuale, a chi rivolgersi e a chi chiedere affinchè Cristo Risorto sia annunciato? I poveri sfamati, i piangenti consolati…Vogliamo davvero avviare questa “nuova” evangelizzazione che è poi quel programma meraviglioso delle beatitudini?

Vi sono alcuni che danno poco del molto che hanno, e per essere ricambiati, e questo desiderio segreto avvelena il loro dono. Vi sono altri che hanno poco e lo danno tutto. Essi credono nella vita e nella sua generosità, e le loro mani non sono mai vuote.

C’è chi dà con gioia, e questa gioia è la sua ricompensa.

C’è chi dà con rimpianto, e questo rimpianto lo rattrista.

E c’è chi dà senza provare né rimpianto né gioia, inconsapevole della propria virtù; costoro sono come il mirto laggiù nella valle, che sparge nell’aria il suo profumo. Attraverso le loro mani Dio parla, e attraverso i loro occhi sorride alla terra. È bene darebbe ci chiedono, ma è meglio capire quando non ci chiedono nulla; e per chi è generoso, cercare chi riceverà il dono è una gioia più grande del dono stesso.

Che cosa vorresti mai trattenere? Tutto quanto possiedi sarà dato un giorno. Per questo da’ oggi, perché la stagione dei doni sia tua e non dei tuoi eredi.

Si dice spesso: «Vorrei dare, ma soltanto a quelli che lo meritano». Non fanno così le piante del tuo orto, né le greggi del tuo pascolo. Esse danno per vivere, perché tenere è morire. Senza dubbio colui che è degno di ricevere i suoi giorni e le sue notti, è degno di ricevere tutto da te.

E chi ha meritato di bere all’oceano della vita merita di dissetarsi al tuo ruscello.

(Khalil Gibran, Il profeta)

Se aspettiamo di essere ricchi, prima di diventare donatori, moriremo nell’indigenza. Spalanchi la sua povertà sulla miseria dei fratelli e sarà la ricchezza vicendevole, fatta di gioia e di speranza immortale.

La discrezione, oltre che accondiscendenza alle disposizioni naturali, è un dono dello Spirito santo, da chiedersi con insistenza in luogo di quello zelo che, straripando, fiacca e guasta invece di aiutare e di edificare. Il Signore si accontenta di poco perché conosce le forze di ognuno.

(Primo Mazzolari)

II Colletta:

O Dio, Padre degli orfani e delle vedove,

 rifugio agli stranieri, giustizia agli oppressi,

sostieni la speranza del povero che confida nel tuo amore,

perché mai venga a mancare la libertà

e il pane che tu provvedi,

e tutti impariamo a donare

sull’esempio di colui che ha donato se stesso,

Gesù Cristo nostro Signore. Egli è Dio…