La parola di Dio proclamata in questa domenica è molto ampia e offre spunti diversi al nostro cammino di fede. Il brano evangelico di Luca, in particolare, accostando il detto di Gesù sulla fede a quello sui ‘servi inutili’ – parole differenti che a prima vista sembrano armonizzarsi a fatica tra loro apre più di un orizzonte di comprensione. Può pertanto risultare non agevole orientarsi in questa molteplice ricchezza. Il profeta Abacuc, che ascoltiamo nella prima lettura, porge una traccia per non smarrirsi, concludendo il suo oracolo con una affermazione fondamentale, che costituirà uno dei cardini sui quali l’apostolo Paolo incentrerà la sua riflessione teologica: «il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4; cfr. Rm 1,17; Gal 3,11).
Sempre Paolo, al capitolo terzo di Galati, fa esplicito riferimento all’esperienza di Abramo, il quale «ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia… E che nessuno sia giustificato davanti a Dio per la Legge risulta dal fatto che il giusto per fede vivrà» (Gal 3,6.11; cfr. Gen 15,6). ‘Accreditare’ è un verbo che viene dal linguaggio cultuale e originariamente alludeva all’approvazione con cui il sacerdote confermava che un sacrificio era stato compiuto secondo le norme stabilite dal rito. Ora è la fede di Abramo a venire accreditata non da un sacerdote, ma da Dio stesso; come dire: il vero sacrificio gradito a Dio è quello della nostra fede. Se il sacrificio di animali era il modo con cui si riteneva di poter entrare nella giusta relazione con Dio, il cammino di Abramo rivela invece che ciò che ci consente di dimorare nella comunione con Dio è la nostra fede.
Dunque, Abacuc mette al centro della liturgia di questa domenica il tema della fede, suggerendoci in tal modo anche una chiave di lettura del testo di Luca. Alla domanda degli apostoli – «Accresci in noi la fede!» (v. 5) – Gesù risponde con un’immagine vivace e paradossale, tipica del suo linguaggio: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v. 6). La traduzione non è del tutto felice e può essere migliorata. Luca infatti, a differenza di Marco e Matteo (i quali usano la preposizione ean seguita dal congiuntivo: il modo in cui il greco esprime una condizione eventuale), ricorre alla preposizione ei seguita da un indicativo per esprimere una condizione reale. Occorre perciò intendere: «se avete fede quanto un granellino di senape, potete dire a questo gelso… ed esso vi obbedirà». Gesù riconosce che i discepoli hanno già fede, una fede ancora piccola, fragile, immatura, eppure è già fede, e come tale è già capace di parlare al gelso e di farsi ascoltare, è già nella possibilità di operare cose grandi. Perché nella possibilità della fede dimora la possibilità stessa di Dio, colui al quale nulla è impossibile.
Gli apostoli domandano a Gesù: «accresci la nostra fede», perché evidentemente ne avvertono tutta la povertà. Nella sua risposta Gesù ricorda loro che per quanto piccola, la loro fede è già fede, e come tale basta. Anche una fede molto piccola – come un granello di senape, il più piccolo di tutti i semi come si dice nelle parabole del regno – «è già efficace, purché sia una fede autentica. Quindi, non importa la quantità della fede, ma la fede in quanto tale» (G. Rossè).
In tutta la tradizione sinottica, anche in Luca 13,18-19, il grano di senape è metafora del regno di Dio. Viene seminato nella storia come il più piccolo dei semi, ma poi cresce e diventa il più grande di tutti gli ortaggi, o un arbusto, come più realisticamente Luca scrive. È piccolo, ma straordinariamente efficace. Come il Regno, così deve essere la fede, anch’essa conforme alla sua logica. Piccola, ma autentica; povera, ma efficace. Qui c’è tutto il paradosso della fede, che la parola di Gesù ricorda. Per essere grande, la fede deve rimanere piccola. Tanto più accetta la propria povertà, la propria dipendenza, la propria mescolanza con l’incredulità, tanto più è grande e potente, perché diventa spazio in cui può abitare e manifestarsi la potenza stessa di Dio. Avere fede, infatti, significa proprio questo: non fidarsi di sé e delle proprie possibilità, ma affidarsi, con estrema confidenza e fiducia, alla possibilità stessa di Dio. È la logica paradossale di Dio e della Pasqua: quanto più il credente scopre la propria debolezza e la vive nell’affidamento, tanto più sperimenta nella propria vita la forza rigeneratrice di Dio. È nella morte che si manifesta la potenza della risurrezione. Anche in quel morire alla propria presunzione, al proprio desiderio di grandezza, alla propria autosufficienza. Come scrive Paolo: «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). È quando la fede è piccola che è grande.
I Dodici domandano a Gesù il dono della fede, ma in questa domanda si manifesta già la loro fede. Infatti:
- chiamano Gesù ‘Signore’ con un titolo pasquale che appartiene solo a Dio;
- riconoscono la loro povertà e la loro mancanza;
- chiedono a Gesù di riempire questo loro
E cosa è la fede se non questo: riconoscere la signoria di Gesù e affidarsi a essa in tutti i nostri bisogni e le nostre povertà? Ci può essere fede più grande di questa? Con la loro domanda i discepoli mostrano che questa è appunto la dinamica della fede: la fede alimenta se stessa, trova in se stessa il proprio nutrimento. La fede conduce ad affidare la nostra povertà al Signore, ed è proprio in questo affidamento che matura e cresce.
Dopo questo detto sulla fede, Gesù narra la parabola dei padroni e dei servi. Sembra sopraggiungere all’improvviso, senza collegamento alcuno con il contesto che precede, ma il nesso è meno labile di quanto appaia a prima vista. Infatti, solo chi vive una fede piccola come un grano di senape può dire di sé «sono un servo inutile». Ed è proprio in questa inutilità che si manifesta la grandezza della sua fede.
Il servo deve riconoscersi inutile, senza merito, senza diritto, non perché sia alla completa mercé del suo padrone; ma proprio per il motivo opposto. Perché solo se riconosce che il suo servizio non gli conferisce alcun merito e alcun diritto, solo così può assaporare tutta la bellezza e la gratuità del dono di Dio. Sapersi servi inutili e immeritevoli significa scoprire il volto del Dio della gratuità e dell’amore immeritato. Nella parabola ciò viene espresso in forma negativa: Dio non deve nulla a nessuno. Dio non è qualcuno a cui si possa presentare il conto o da cui reclamare un debito. In positivo questo sta a significare che tutto ciò che dà lo dona gratuitamente, perché è buono, come ricorda la parabola degli operai dell’ultima ora (cfr. Mt 20,1-16). Non perché noi con il nostro servizio o il nostro lavoro abbiamo meritato qualcosa da lui, ma perché egli è buono. E dona gratuitamente.
L’inutilità del servo ha tuttavia un altro risvolto: la logica della gratuità trasforma nello stesso tempo sia l’atteggiamento del servo sia quello del suo padrone. Infatti, rompere la logica della ricompensa per aprirla alla gratuità significa anche aprire il rapporto alla reciproca fiducia. Da una parte il servo non avanza pretese per il suo lavoro; dall’altra parte anche il padrone non condiziona la sua fiducia a quanto il servo farà o non farà. Non gli dice: se ti comporterai bene, ti ricompenserò. Gli dice più semplicemente: fa quello che devi fare perché io ho fiducia in te. L’inutilità del servo evidenzia la confidente fiducia del suo padrone. Una fiducia preveniente, già data in anticipo. La logica della ricompensa mette al centro dell’attenzione del padrone il lavoro del servo: ciò che il servo farà o non farà. La fiducia del padrone mette al centro invece la persona del servo: ciò che lui è. L’inutilità è liberante tanto per il servo quanto per il padrone. Dio è così: un Signore che rimane consapevole dell’inutilità dei suoi servi e proprio per questo motivo si dispone ad amarli e apprezzarli non per quello che fanno o non fanno, ma per quello che sono.
Fonte: Monastero Dumenza
Letture della
XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C
Prima Lettura
Il giusto vivrà per la sua fede.
Dal libro del profeta Abacuc
Ab 1,2-3;2,2-4
Fino a quando, Signore, implorerò aiuto
e non ascolti,
a te alzerò il grido: «Violenza!»
e non salvi?
Perché mi fai vedere l’iniquità
e resti spettatore dell’oppressione?
Ho davanti a me rapina e violenza
e ci sono liti e si muovono contese.
Il Signore rispose e mi disse:
«Scrivi la visione
e incidila bene sulle tavolette,
perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine,
parla di una scadenza e non mentisce;
se indugia, attendila,
perché certo verrà e non tarderà.
Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede».
Parola di Dio
Salmo Responsoriale
Dal Sal 94 (95)
R. Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia. R.
Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce. R.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere». R.
Seconda Lettura
Non vergognarti di dare testimonianza al Signore nostro.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
2 Tm 1,6-8.13-14
Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.
Parola di Dio
Vangelo
Se aveste fede!
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17, 5-10
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Parola del Signore