DOMENICA del «SS. Corpo e Sangue di Cristo»
Oggi chiamati a celebrare la solennita della SS. Corpo e Sangue di Cristo siamo ancora e sempre introdotti nella conoscenza del mistero divino sotto la guida della divina Scrittura. L’eucaristia è un sacramento il cui significato sta al di là di quello che scorgono i nostri occhi. Per raggiungere la profondità del suo mistero, bisogna partire da ciò che si vede, per arrivare a ciò che si crede ed entrare in comunione con ciò che è:
- Ciò che si vede: Il pane e il vino, realtà umane che il Cristo prende e dà agli uomini da mangiare e da bere. E anche realtà bibliche: il pane dell’esodo mangiato in fretta, il vino che evoca il banchetto del regno. Senza il duplice movimento del dare e del ricevere non ci sarebbe alleanza tra il Cristo e noi.
- Ciò che si crede: Il sacrificio che Gesù ha prefigurato nella cena. Sotto il segno del pane e del vino eucaristici, Gesù, Parola efficace di Dio, dona la propria vita agli uomini perché dalla sua pasqua essi ricevano ogni grazia e ogni bene. Anche quando dividono tra loro il pane di ogni giorno i cristiani dovrebbero intuire la presenza del Cristo che si dona, presenza che sull’altare si fa sacramento del suo corpo e del suo sangue.
- Ciò che è: bisogna fare l’esperienza della vita col Cristo per cogliere ciò che è veramente l’eucaristia: un «supplemento di essere» che ci viene dal risorto. Chiamati all’amore universale, noi facciamo corpo col Cristo vivente e presente negli uomini, sperimentando l’unità dei due comandamenti e il legame tra la fede e la vita.
«Lo strinsi fortemente e non lo lascerò» (Ct 3,4). Dalla prima comunione fino all’ultima, questo desiderio deve accompagnare il nostro cammino di pellegrini, legati al passato, ma tesi verso il futuro della comunione con Dio.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 80,17
Il Signore ha nutrito il suo popolo
con fior di frumento,
lo ha saziato di miele della roccia.
L’Antif. d’ingresso tratta dal Sal 80,17, EP. Ricorda che nell’esodo del popolo, operato dal Signore, Egli lo ha anche nutrito di Pane dal cielo e di Acqua e soavità di miele (Es 16;17,1-7). Secondo l’immagine paolina (1 Cor 10,1-4), il Cibo e la Bevanda divini provengono dalla Rupe divina che seguiva il popolo, Cristo, che in essi donava lo Spirito Santo. Come ancora avviene.
Canto all’Evangelo. Gv 6,51
Alleluia, alleluia.
Io sono il pane vivo disceso dal cielo, dice il Signore,
se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.
Alleluia.
Nel «discorso eucaristico» (Gv 6,22-58) il Signore rivela di essere il Pane Vivente, non più la manna spirituale e di essere inviato dal Padre per comunicare la sua Vita divina agli uomini che lo mangiano nella fede e nell’amore. Questo Pane è la “carne sua”, del Figlio che dona la Vita eterna al mondo.
La Domenica dopo la SS. Trinità si celebra la festa in onore del mistero eucaristico e mai altrove si è verificata una cosi stretta unione tra liturgia e pietà popolare, che non hanno risparmiato ingegno e bellezza per cantare l’Amore degli amori.
Premesso che la Chiesa vive dell’Eucaristia poiché in essa è racchiuso tutto il suo bene spirituale dobbiamo altresì rilevare che misure pastorali poco illuminate hanno distrutto una Domenica per inserirvi questa festa tardiva, devozionale e ripetitiva. Tuttavia sebbene sorta nell’ambito della devozione eucaristica medioevale, la solennità del Corpo e Sangue di Cristo è orientata dalle direttive conciliari e post conciliari circa il culto del mistero eucaristico nella messa e fuori della messa[1].
La riforma liturgica ha conservato i magnifici testi della Messa e dell’Ufficio, alcuni dei quali sono attribuiti a san Tommaso d’Aquino, aggiungendo tre serie di letture. Le letture bibliche offerte dalla liturgia dall’anno B celebrano in modo particolare l’Eucaristia come Pasqua sacramentale di Gesù col racconto dell’ultima cena nel contesto esplicito della cena pasquale.
È altresì ricordato anche con particolare enfasi il sangue dell’alleanza che Gesù offri quando disse: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti» (Mc 14,24). Le sue parole corrispondono a quelle di Mosè, secondo l’antico rituale descritto in Es 24,3-8 (I lettura): «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi». La seconda lettura spiega l’effetto purificatorio del sangue del nuovo e definitivo mediatore dell’alleanza.
Questi grandi temi del mistero eucaristico compaiono anche nelle orazioni e nei tre prefazi contenuti nel Messale.
Il pref. I della Ss. Eucarestia pur nella sua brevità non potrebbe essere più completo:
Sacerdote vero ed eterno,
egli istituì il rito del sacrificio perenne;
a te per primo si offrì vittima di salvezza,
e comandò a noi di perpetuare l’offerta in sua memoria.
Il suo corpo per noi immolato è nostro cibo e ci dà forza,
il suo sangue per noi versato è la bevanda che ci redime da ogni colpa.
Non possiamo dimenticare quindi che la presenza sacramentale del Corpo e del Sangue di Cristo è una conseguenza del memoriale e del sacrificio realizzati nella santa Messa e che la conservazione dell’Eucarestia ha come scopo primo e primordiale l’amministrazione del viatico ai moribondi, e, come fini secondari, la distribuzione della comunione e l’adorazione di nostro Signore fuori della Messa (Rito cit. n. 5).
Tornando alle parole dell’ultima cena, va sottolineata l’insistenza di Gesù sull’atteggiamento, potremmo dire sull’uso, che dobbiamo fare dell’Eucarestia: «Prendete e mangiate… Prendete e bevete». Questo ha detto Gesù Cristo. È un comando preciso!
Troppo spesso si pensa di pareggiare i conti con Dio organizzando cerimonie sontuose, sacrifici invece di conversione. Questo capovolgimento si è sviluppato spesso attorno all’Eucarestia. Una considerazione che deve far riflettere tutti: come nell’eucaristia la presenza di Gesù il Risorto è «vera, reale, sostanziale» (Concilio di Trento) lo è anche nel fratello ignorato, maltrattato, sfruttato….
Difatti Gesù ha detto: «Ebbi fame e mi deste da mangiare; ero forestiero e mi avete ospitato…».
I lettura: Es 24,3-8
L’episodio narrato è il rito dell’alleanza divina al Sinai. Essa deve fondarsi sulla Parola del Signore, che Mosè ricevette da Lui. Adesso Mosè raduna questo popolo e gli riferisce le divine prescrizioni, e il popolo le accetta senza condizioni (v. 3). Mosè redige per scritto le Parole divine, poi erige un altare per il Signore e 12 stele come testimonianza e memoriale per le 12 tribù d’Israele (v. 4). Quindi procede al rito vero e proprio. Anzitutto chiama i giovani a sacrificare vitelli in duplice offerta al Signore, come olocausto integrale e come azione di grazie (v. 5). Quindi raccoglie il sangue delle vittime, che è il segno della vita donata dal Signore (Lv 17,11), e ha perciò valore di unione con Lui, il Vivente. Metà lo versa sull’altare, luogo simbolico della divina Presenza (v. 6). Poi legge il Libro delle Parole dell’alleanza al popolo, che accetta con la formula: «Tutto quello che parlò il Signore, noi faremo e ascolteremo», ossia: noi obbediremo eseguendolo (v. 7).
Adesso Mosè sancisce l’alleanza, effondendo la metà del sangue delle vittime sul popolo: l’unico sangue, metà sull’altare, metà sul popolo, indica la comunione con il Signore della Vita, offerta e accettata. Tale è l’alleanza. Ma Mosè pronuncia anche la formula solenne, che sigilla l’alleanza contratta; «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha sancito con voi in forza di tutte queste Parole» (v. 8). L’alleanza, si vede, è dono gratuito, che va solo accettato.
La formula di Mosè è fatta propria dal Signore nella Cena, è anche ripetuta nel N. T. (Ebr 9,20). Va ancora ribatito che versando lo stesso sangue sull’altare di Dio e sul popolo, Mosè rivela che, grazie all’alleanza, un solo sangue scorre nelle vene dell’ebreo e in quelle di Dio. In un’epoca in cui si era particolarmente razzisti, quest’immagine colpiva fortemente: essere dello stesso sangue significava infatti impegnarsi all’aiuto reciproco, tentare di tutto per salvare l’amico, sposare la sua vedova abbandonata, prendere insieme le decisioni più importanti. Ecco in che modo Dio si è impegnato con noi, in un patto di sangue che lo portò a dare la vita di suo Figlio per riscattarci.
Per il contesto della pericope evangelica di oggi si tenga conto del contenuto complessivo dall’evangelo della Domenica delle Palme, sulla Passione del Signore.
Esaminiamo il brano
12 – «Primo giorno degli azzimi»: è detto in senso largo, dato che l’agnello pasquale (vedi subito dopo) non era stato ancora immolato.
Tuttavia secondo fuso corrente il 14 di Nisàn rientrava tra i giorni degli azzimi; soltanto perché nella cena pasquale non era lecito fare uso di pane lievitato (Nm 9,11; Dt 16,3) che doveva essere fatto sparire dalle case già dalle prime ore del mattino del 14 di Nisàn.
«festa di Pasqua e degli Azzimi»: le due festività, benché distinte come origine e come significato, erano celebrate insieme, l’una immediatamente dopo l’altra.
La prima, di origine sicuramente pastorale, si celebrava nel giorno di luna piena di primavera (il 15 di Nisàn); consisteva nell’immolazione e nella consumazione di un agnello per ogni gruppo familiare alla sera del 14 di Nisàn; ricordava il passaggio (di qui il nome ebraico di Pesah, che significa, appunto, «passaggio») dell’angelo che aveva risparmiato i primogeniti degli ebrei alla vigilia della loro liberazione dalla schiavitù di Egitto (Es 12,1-12.21-29; 13,8).
La seconda, invece di origine agricola, consisteva nel mangiare pani azzimi (nome ebr. Massót ) per tutta la durata dei sette giorni compresi tra il 15 e il 21 di Nisàn a ricordo dell’uscita del popolo dall’Egitto (Es 12,15-20).
«i suoi discepoli»: In tutto l’Evangelo di Marco «i discepoli» indica i Dodici e un gruppo più ampio di seguaci. In Mc 14,12-16 è usato il termine «discepoli», ma in 14,17 Gesù si presenta alla cena con «i Dodici». La diversa terminologia potrebbe rispecchiare l’uso di due fonti distinte, ma non è da escludere che Marco avesse in mente un gruppo di discepoli più esteso, oltre ai Dodici, presenti alla cena.
13-15 – «in città»: sicuramente Gerusalemme, poiché la cena pasquale poteva essere celebrata soltanto nel «luogo scelto da Dio -per far abitare il suo nome» (Dt 16,5-7), cioè presso il Tempio.
«mandò due dei suoi discepoli»: In 14,13-16 Marco ripete praticamente 11,1-6 (le istruzioni impartite per reperire l’asino), ma qui è dato maggior risalto alla preveggenza profetica di Gesù. I seguenti versetti evidenziano che le parole di Gesù si sono avverate «alla lettera» (v. 16), il che ribadisce il tema di Gesù come un profeta le cui parole troveranno compimento (vedi 1 Sam 10,1-13; 1 Re 17,8-16).
«un uomo con una brocca d’acqua»: Questo è alquanto strano, poiché normalmente gli uomini portavano l’acqua in otri di pelle, mentre le donne la portavano in brocche o anfore.
«Là dove entrerà»: Contrariamente al possibile rifiuto opposto ai discepoli previsto in 6,11, qui essi trovano un’ospitale accoglienza.
«Il Maestro»: Gesù è cosi chiamato in tutto l’Evangelo di Marco, sovente in relazione al compimento di miracoli (4,38; 5,35; 9,17), nonché da parte dei discepoli (9,38; 10,35; 13,1), di aspiranti seguaci (10,17.20) e degli avversari (12,14.19.32). L’uso dell’articolo determinativo suggerisce che «il maestro» era conosciuto dal padrone di casa, come lo fa il definire la stanza «la mia sala».
«Dov’è la mia sala»: Il termine greco katalyma ha l’idea di un luogo di riposo o di soggiorno temporaneo, ed è usato anche da Luca per l’«albergo» dove Giuseppe e Maria non hanno trovato posto per la nascita di Gesù (Lc 2,7). Durante la Pasqua, dai residenti di Gerusalemme ci si aspettava che mettessero a disposizione delle stanze in cui i pellegrini potessero consumare la cena rituale.
«grande stanza già arredata e pronta»: Dal modo di esprimersi di Gesù, sembra che egli fosse già d’accordo col «padrone di casa» (v. 14), il quale probabilmente era un discepolo o almeno un amico di Gesù (cfr. anche nota 14,12-16 della Bibbia di Gerusalemme).
In una Gerusalemme affollata, la sala da pranzo della famiglia era normalmente al piano superiore, sopra il chiasso della strada e della bottega al pianterreno. L’indicazione di una stanza «grande» (mega) fa pensare che vi fossero altre persone oltre a Gesù e ai Dodici, mentre «arredata» (estrómenon: letteralmente «addobbata, con tappeti») si riferisce ad una stanza preparata a festa con divani ricoperti sui quali gli ospiti si mettevano in posizione reclinata (vedi 14,18). Il termine richiama anche i mantelli stesi sulla strada (estrósan) al passaggio di Gesù mentre entrava a Gerusalemme (11,8).
16 – «trovarono come aveva detto loro»: Il racconto presenta più diffusamente le istruzioni impartite da Gesù, mentre il loro adempimento è narrato in forma concisa, per confermare ancora una volta l’autorità di Gesù.
«prepararono la pasqua»: tutto ciò che occorreva per cena pasquale: agnello già immolato nel tempio e poi arrostito, pane azzimo, vino, erbe, acqua per le abluzioni, ecc.
22 – Gesù prosegue la cena dandole un andamento del tutto nuovo rispetto al rituale tradizionale. E’ evidente che con tutti i suoi gesti, minutamente annotati dagli evangelisti e perfino da Paolo (1 Cor 11,23-25), Gesù intende compiere qualche cosa di eccezionale e di estremamente importante.
Pur nelle loro inevitabili divergenze letterarie (cfr. sinossi), tutti i testi convergono nell’attirare l’attenzione sulle parole che accompagnano e spiegano quei gesti.
«mentre ancora mangiavano»: la ripetizione di questa indicazione (cfr. v. 18) dimostra che l’intenzione di Marco è quella di riferire gli avvenimenti eccezionali che caratterizzarono la cena più che descrivere la cena stessa.
«lo benedì»: con la formula di lode, che ogni pio israelita soleva recitare all’inizio dei pasti (cfr. Mc 6,41; 8,6; Gv 6,11.23; 1 Cor 11,24; Lc 24,30).
«lo spezzò»: altro gesto rituale, che veniva compiuto dal capo famiglia, prima di distribuire il pane ai singoli commensali.
«Questo è il mio corpo»: la frase (anche nella sua costruzione) non ammette dubbi o incertezze. Come apparirà meglio dalle parole che accompagnano la consegna del calice (v. 24), Gesù opera in un clima strettamente «sacrificale».
Come nei pasti sacrificali la vittima era il veicolo di unione con cui si entrava in diretta comunione con la divinità, cosi anche il pane offerto agli apostoli doveva essere la vittima di questo nuovo sacrificio, che mentre veniva consumata assicurava gli stessi effetti di unione con Dio. Certamente l’affermazione di Gesù deve aver suscitato un certo scalpore, come ancora oggi desta sensazione in chi non è iniziato al mistero cristiano.
Proprio per questo tuttavia le parole di Cristo vanno accettate nella loro integrità di significato, senza diminuzioni e riduzioni che le svuoterebbero di ogni valore.
23 – «un calice»: il rituale giudaico della Pasqua prevedeva la consumazione di 4 calici o coppe di vino: uno proprio all’inizio della cena, che era accompagnato da questa formula di benedizione: «Benedetto sii tu, Signore Dio nostro, re dell’universo, che hai creato il frutto della vite»; un secondo dopo l’antipasto di erbe; un terzo dopo la consumazione dell’agnello ed era detto «calice della benedizione» (cfr. 1 Cor 10,16) perché era accompagnato dalla preghiera di ringraziamento della mensa; alla fine, terminato il canto dell’Hallel, il quarto, che però è incerto se fosse in uso al tempo di Cristo.
Secondo Lc 22,20 e 1 Cor 11,25 il calice fu distribuito da Gesù alla fine della cena e quindi dovrebbe essere stato il terzo o il quarto del rituale pasquale. Marco e Matteo restano sul generico.
24 – «Questo è il mio sangue»: la frase è in perfetto parallelismo con le parole pronunciate sul pane e deve essere interpretata allo stesso modo (v. 22).
«dell’alleanza»: per intendere bene questa affermazione è necessario riferirsi alla scena descritta in Es 24,1-8 (I lett.). Secondo questo testo, che narra la stipulazione dell’alleanza ai piedi del Sinai, Mosè, dopo aver letto al popolo il testo della legge e dopo aver fatto offrire numerosi sacrifici, prese metà del sangue delle vittime immolate e lo spruzzò sull’altare; quindi prese l’altra metà e, aspergendo con esso il popolo, disse: «Questo è il sangue dell’alleanza, che JHWH ha concluso con voi» (Es 24,8).
«per molti»: si intende tutta l’umanità (cfr. 1 Tm 2,5-6; 2 Cor 5,14). «I molti» non si prestano a discussioni sul “numero” dei beneficati, come si è fatto recentemente. Infatti qui basta sapere che l’ebraico (e le lingue semitiche) per dire “tutti”, non avendo il plurale corrispondente, o lo significa con un collettivo, «ogni (kol) carne = l’intera carne», ossia tutti i viventi, oppure dice “rabbim”, «i molti», ossia tutti. Ecco due testi illuminanti:
- sul Servo sofferente che muore per redimere i rabbim, «tutti gli uomini» (Is 52,13-53,12);
- Paolo stesso, che pure conosce il greco pántes, tutti, tuttavia lo usa in alternanza con pollói, i molti, quando parla della redenzione del genere umano portata dall’Adamo Ultimo Cristo Signore, che ripara i peccati dell’Adamo primo e di tutti gli uomini (Rom 5,12-21, ben 6 volte ai vv. 15.18.19).
Il Sangue di Cristo è per tutti, non «per molti» escludendo tutti gli altri.
Dall’insieme di queste indicazioni risulta chiaro che Gesù, pronunciando le parole riferite in questo versetto e consegnando il calice del suo sangue ai discepoli, intendeva dare al suo gesto il significato di anticipazione della sua morte sulla croce e che al medesimo tempo gli attribuiva valore sacrificale e redentivo, particolarmente in relazione alla stipulazione di una (nuova) alleanza con Dio, di cui egli si proclamava e mediatore come Mosè e vittima di propiziazione; un’alleanza, però, non ristretta al solo popolo d’Israele, ma estesa a tutti i popoli della terra, chiamati a formare, tutti insieme, il nuovo popolo di Dio (cfr. Eb 8,6-10,18).
25 – «In verità…non berrò»: Il Signore adesso fa seguire il cosiddetto «lógion ecclesiale». Ai presenti, che allora nulla compresero, annuncia con grave solennità che berrà ancora il Vino messianico quando «sarà venuto» il Regno di Dio.
Nel pensiero ebraico l’astenersi dal mangiare e dal bere aveva diversi significati:
- pentimento (Gl 2,11-13),
- lutto (2 Sam 12,22-24),
- preparazione al contatto con il sacro (2 Cr 20,3),
- preghiera di petizione (Is 58,2-4; Esd 8,22-24)
- preparazione per il giorno del Signore (Gl 2,12-14).
Poiché il ministero di Gesù è il tempo propizio per celebrare la presenza dello sposo, e poiché il digiuno comincerà quando lo sposo verrà tolto di mezzo (2,19-21), il voto di Gesù di astenersi dal bere fatto durante la Cena è un simbolo profetico della sua morte imminente.
«il succo della vite»: propriamente nel testo si parla di «frutto» che, nel linguaggio biblico e semitico, non indica l’uva, bensi il vino (cfr. Nm 6,4; Ab 3,17; Is 32,12).
Dicendo che non berrà più il succo della vite, Gesù fa intendere di essere prossimo alla morte , mentre quando soggiunge che lo berrà «nuovo» nel regno di Dio allude ad una bevanda di altra natura, di qualità, superiore, che costituirà la gioia e la felicità degli eletti nel futuro regno di Dio, paragonato spesso ad un banchetto (cfr. Is 25,6; 65,13; Mt 8,11; 22,1-14; Lc 14,16-24; Ap 19,9).
«nuovo»: il greco kainós sottolinea il carattere speciale di questa “novità” (cfr. Mt 13,52; 27,60; Mc 2,21f; Lc 22,20; Gv 13,34; 2 Cor 3,6; 5,17; Eb 9,15; Ap 2,17; 5,9; 21,1.5;). Per indicare la novità nel tempo è usato néos (ciò che avviene oggi e non avveniva ieri) mentre kainós è la novità soprattutto nella qualità.
«regno di Dio»: Nel parallelo antecedente, di Lc 22,14-20, più esplicito, il Signore dichiara che desidera di grande desiderio mangiare con i discepoli , ma che mangerà con essi nel Convito messianico quando sarà venuto il Regno, e ripete questo del Vino messianico (vv. 16 e 18). Non dice «quando andrò nel Regno» o «quando si andrà nel Regno», ma «quando viene il Regno». Il Regno quindi viene sulla terra: esso è inaugurato dalla Resurrezione, comincerà con la Pentecoste dello Spirito Santo (At 2,41-47). Allora il Signore nello Spirito Santo mangerà e berrà con i “suoi”. I Padri (e questo prosegue nella tradizione almeno fino al sec. 13°) spiegano: sarà presente di persona ai suoi nella celebrazione del Convito del Regno, che dona lo Spirito Santo, e sulla terra per mangiare e per bere si farà prestare la bocca dai suoi.
26 – «detto l’inno di lode»: Adesso il Signore e i suoi cantano «l’inno», che sono i Sal 112-117, detti anche «Hallel piccolo», o egiziano, o pasquale; hallel, da cui Allelu-Iah, significa “lodare”. E si avviano verso il Monte degli Olivi. Da li comincerà la Passione. Cosi la Cena è l’anticipo reale della Morte e della Resurrezione (Mc 14,26).
II Colletta
Signore, Dio vivente,
guarda il tuo popolo radunato attorno a questo altare,
per offrirti il sacrificio della nuova alleanza;
purifica i nostri cuori,
perché alla cena dell’Agnello
possiamo pregustare la Pasqua eterna
della Gerusalemme del cielo.
Per il nostro Signore…
[1] Per citarne alcuni cf l’Istruzione Eucharisticum Mysterium del 1967; il Rito della Comunione fuori della Messa e culto eucaristico del 1974 e la lettera Dominicae Cenae di Giovanni Paolo II del 1980.
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano