Domenica della Resurrezione del Signore
Alleluia, Alleluia
«Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci ed esultiamo». (Antif. Salmo responsoriale)
Alleluia, Alleluia
L’assemblea del giorno di pasqua esplode nel canto dell’alleluia e si raduna sotto il segno dell’esultanza. Ed è come se in questa esultanza si dessero convegno, realizzandosi, tutte le speranze messianiche del popolo di Dio. La molteplicità della scelta dell’evangelo (Gv 20,1-9, oppure, se di sera, Lc 24,13-35, o anche la semplice ripetizione dell’Evangelo della Notte santa) mostra che le ricchezze incalcolabili della Resurrezione si presentano in una virtualità sconfinata. Ancora una volta si deve riflettere su questo momento celebrativo, poiché ogni altro momento, in specie la Domenica, dovrebbe poter esprimere tanta ricchezza, tanta vita, tanta gioia, come finora si è insistito.
Noi siamo entrati nel “grande giorno del Signore”, viviamo, ci muoviamo nella sua luce. E questo non significa che siamo usciti dal tempo e dallo spazio della realtà terrestre, ma anzi che abbiamo trovato il punto giusto di inserimento in essa. L’era nuova iniziata con la risurrezione di Cristo combacia con la presente; ma anche la supera e la porta al suo pieno compimento.
Entrare nel «giorno del Signore» non è quindi raggiungere una fase statica, di riposo, ma inserirsi nel dinamismo che scaturisce dalla vita del risorto. Accogliendoci nel suo giorno, Cristo ci fa camminare verso la realizzazione del destino umano e cosmico, che in lui si è già perfettamente compiuto.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Cf Sal 138,18.5-6
Sono risorto, sono sempre con te;
tu hai posto su di me la tua mano,
è stupenda per me la tua saggezza. Alleluia.
L’antifona d’ingresso è dal sal 138,18.5-6, DSap. La voce è del Risorto stesso, che dopo l’Evento centrale della sua vita «sta ancora» con il Padre nello Spirito Santo glorificatore (v. 18). Poiché il Padre pose da sempre la Mano sua, ossia la sua Potenza che è lo Spirito Santo, sul Figlio del suo amore, e poi Lo condusse alla Gloria (v. 5b; I Lett.), nella manifestazione mirabile della Sapienza divina infinita (v. 6a).
Canto all’Evangelo Cf 1 Cor 5,7b-8
Alleluia, alleluia.
Cristo, nostra Pasqua, è immolato:
facciamo festa nel Signore.
Alleluia.
Il canto all’evangelo, 1 Cor 5,7b-8a. è anche l’Antifona alla comunione della Notte santa e si riprende qui anche come Antifona alla comunione, e, ma a scelta, come Apostolo (II Lett).
L’espressione «Cristo la pasqua nostra» sta nel contesto di 1 Cor 5,1-13. Qui Paolo tratta del fatto inaudito di un fedele che convive in modo adulterino e incestuoso con la sposa (è indifferente che sia vedova o no) di suo padre, probabilmente una giovane; egli è da condannare, affinché almeno si salvi (vv. 1-6a). E con ciò, rimosso lo scandalo, si salvi anche la Comunità dal pericolo di corruzione, poiché, come si sa dalla quotidianità domestica, il «poco lievito» basta a far fermentare la massa (v. 6b). Si noti che in qualche modo il fermentato nella Scrittura ha sempre qualche cosa di impuro, e così sono considerati il vino, l’aceto, il pane, il miele (da cui si ricava una potente acquavite), e tutto quello che può così degradarsi. Dopo i vv. 7-8, l’Apostolo ripete con preoccupata veemenza l’imperativo a «non mescolarsi» con tali fornicatori, assimilati ai peggiori peccatori che sono gli “avari”, ossia gli avidi, animati da violenza rapace contro i beni del prossimo, essendo questa la prima forma d’idololatria: con essi nessun contatto si deve stabilire (vv. 9-13).
Nei vv. 7-8 Paolo afferma che, in analogia con l’antico e radicale precetto della pasqua ebraica (Es 12,15), deve essere rimossa ogni simbolica parcella di pane lievitato, diventato adesso vecchio, al fine che i fedeli possano essere il «nuovo impasto» da azzimi che sono (1 Cor 5,7a). Allora l’impasto nuovo, restando azzimo, senza la fermentazione simbolica che è la corruzione, deve essere puro e ben preparato, sarà allora lievitato dalla grazia divina nella conversione del cuore.
Poi viene l’espressione fatidica unica del genere nel N. T., e del resto dell’intera Scrittura, che alla lettera nel testo greco suona alla lettera: «kài gàr tó pàscha hèmòn ethythè Christós, e infatti la pasqua nostra fu immolato Cristo» (v. 7b). Paolo sta parlando a greci provenienti dal paganesimo. In greco tó pascha è neutro, e Christós ovviamente è maschile. Qui la grammatica del greco del N. T. avverte che tó pàscha hèmòn è chiaramente un accusativo avverbiale con valore temporale: «durante la pasqua di noi [Ebrei] fu immolato Cristo», in un momento di rimozione di ogni fermento d’impurità, e quindi adesso Paolo esprime un esortativo, «heortàzòmen, facciamo festa», bensì rigettando il fermento della vecchiaia e della malvagità, e invece usufruendo degli azzimi della sincerità e della verità (v. 8). Paolo qui non parla, non può parlare di sacrificio, di Sangue redentore. Cristo morto ma risorto non poteva inaugurare nessuna “pasqua” cristiana, tanto meno la c. d. «pasqua eterna», e simili, ma ha inaugurato la Domenica, la Festa ultima, totale, globale, eterna, e per ammettere a celebrarla dona ai suoi fedeli anche lo Spirito Santo suo e del Padre.
Soltanto dopo la risurrezione gli apostoli cominciano a comprendere, sia pure ancora confusamente, ciò che le Scritture avevano profetizzato intorno al Cristo e ciò che Gesù stesso aveva loro detto di sé. Secondo il racconto di Giovanni, Maria di Magdala è la prima a scoprire il sepolcro vuoto e ad avvertire gli apostoli. I Sinottici narrano la Resurrezione del Signore con poche note, tutte essenziali e concentrate. Essi introducono in movimento alcuni personaggi, uno o due, che intervengono da fuori della sfera umana e che producono tensione grande nelle donne fedeli annunciando ad esse che il Signore era stato risvegliato dai morti, che non poteva trovarsi nel luogo della morte, e che si sarebbe manifestato ai discepoli. Le donne, che si erano recate al sepolcro solo per onorare il Signore morto, adesso corrono ad annunciarlo come risorto ai discepoli.
Giovanni nei fatti svoltisi al sepolcro porta al contrario solo il movimento fisico e psicologico di una donna fedele, la Maddalena, e quello quasi solo fisico di due discepoli, che poi rientrano a casa (Gv 20,1-9). Solo dopo descrive il seguito della tensione della Maddalena, che si dà pena per la sottrazione del corpo del Signore, che ancora crede morto e resta intorno al sepolcro finché è trovata dal suo Signore Risorto (Gv 20,10 18).
La Sequenza oggi è obbligatoria. È un testo innico tipico, quasi come gli inni della Liturgia delle Ore, dove il popolo credente può rivolgersi liberamente, oltre al Padre, anche ai santi. La prima parte ricorda e canta la gioia della celebrazione e la lode al Signore vittorioso sulla morte, l’Agnello redentore e riconciliatore, il Re eterno. Si interpella anche Maria Maddalena, la quale testimonia la visione del sepolcro vuoto e la Gloria del Risorto, nonché il messaggio ai discepoli. Poi si afferma la fede nella Resurrezione «avvenuta veramente», e si implora la Bontà del Re Vittorioso.
SEQUENZA
Alla vittima pasquale, s’innalzi oggi il sacrificio di lode.
L’agnello ha redento il suo gregge,
l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre.
Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.
«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?».
«La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea».
Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza.
Esaminiamo il brano
1 – «Nel giorno dopo il sabato…»: Il testo di Gv 20,1-9 procede a rapide descrizioni. È ormai la Domenica cristiana. La Maddalena si muove prima dell’alba, và al sepolcro del Signore; l’evangelista non ci dice il motivo, ma oltre che nell’affetto di lei per Gesù, sappiamo da Marco e Luca che probabilmente vuole trattare il corpo del maestro secondo gli usi più cari: il che non era stato fatto il venerdì, perché troppo tardi. Si capisce che ella (e le altre donne) vada prestissimo: meno tempo passava e più efficace sarebbe stato il trattamento. Arrivata alla tomba vede che la pietra di chiusura è stata portata via dal sepolcro stesso. Allora corre dai discepoli.
2 – «corre»: L’evangelista non ci dice se Maria entrò nel sepolcro, forse le è bastato vedere la bocca nera dell’ingresso per dedurre un nuovo dispetto dei nemici di Gesù. La prima reazione è correre e questo diventerà uno dei verbi caratteristici di questa mattina.
«non sappiamo…»: Giunta dal capo dei discepoli, Pietro, e dal misterioso giovane discepolo, il diletto del Signore, e annuncia ad essi in modo concitato: “Portarono il Signore via dal sepolcro, e non sappiamo dove Lo posero”. Quindi la Maddalena stava in compagnia di altre donne fedeli, e comunque aveva scrutato il sepolcro, trovandolo vuoto, anche se non sapeva chi fossero i trafugatori del corpo del Signore, che ancora ella crede morto.
3 – «Uscì…»: Di Pietro e dell’altro discepolo l’evangelista Giovanni non dice che furono sorpresi, meravigliati, spaventati, stupefatti, e simili, come avrebbe fatto un bravo romanziere, attento al dramma interiore dei personaggi. A Giovanni interessano i fatti obiettivi, che si concentrano sul sepolcro vuoto. Egli annota solo che i due discepoli del Signore escono subito da casa e “vengono” al centro della narrazione, al sepolcro.
4-5 «Correvano»: Essi “corrono”, ma l’altro discepolo è più veloce perché è più impaziente e non perché Pietro sia “vecchio”, poteva avere allora non più di 30-35anni; comunque, quello giunge prima, e senza entrare dentro, si inchina alla bocca del sepolcro, e riesce a “vedere” “giacenti i lenzuoli” funebri che avevano circondato il corpo del Signore, «chinatosi»: la porta del sepolcro è alta poco più di un metro e per guardare dentro ci si deve chinare.
«vide»: il gr blépō è un verbo del linguaggio popolare e indica il dare un’occhiata sommaria, che basta per vedere se c’è qualcuno, morto o vivo, nella camera, oltre al corredo funebre comprato da Giuseppe d’Arimatea. È lo stesso verbo usato poco prima per Maria Maddalena.
«non entrò»: è questo forse un ricordo di prima mano. Il discepolo è giovane e come molti ragazzi della sua età ha forse paura dei morti, e quindi non entra. Ma come per la corsa al sepolcro di prima un sentimento così semplice e genuino non ha soddisfatto né devoti né simbolisti ecco nascere diverse interpretazioni. Come Marco, interprete di Pietro, non ha riserve nel riferire anche quanto è poco edificante per l’apostolo (cf Mc 8,32-33), così forse Giovani non si vergogna, da vecchio, della sua paura da fanciullo.
6-7 «Giunse...»: Qualche istante dopo giunge Pietro, che con gesto audace entra nel sepolcro e “contempla” “i lenzuoli giacenti”, ma anche il “sudario”, il grande panno con cui era stato avvolta la testa del Signore, e questo non stava con i lenzuoli funebri, ma era stato ripiegato con cura e messo da una parte come segnale di richiamo all’attenzione dei fatti accaduti. Operazione che Gesù al suo risveglio dai morti si era dato la pena di eseguire per ì suoi discepoli, indicando che era vivo e attivo. La sacra Sindone segna la traccia di questo, è il grande e funebre lenzuolo, in latino linteamina, stoffa di lino. Ma il Sudario dalla Tradizione è spesso nominato a parte della Sindone, e potrebbe essere la ‘Veronica”, la “vera icona” non presa su Gesù sulla Via dolorosa, ma il “sudario” di Giovanni.
«vide»: in greco theōréō (= osservare) preso dal linguaggio popolare per le influenze aramaiche. Il verbo indica un guardare attento, calmo, rendendosi conto di ogni singolo particolare, il riconoscere i singoli oggetti.
«le bende»: in greco othónion indica la parte più cospicua del corredo funebre: il lenzuolo, le bende per legare le mani, i piedi e tenere chiusa la bocca.
«per terra»: il verbo greco keîmai indica un giacere a terra, come sgonfiate, poiché non c’era più il corpo che le tenesse gonfie. Non erano perciò in disordine, come avrebbe dovuto essere se qualcuno avesse voluto togliere il corpo e lasciare i lini che lo avvolgevano.
«sudario»: in greco soudárion indica quel fazzoletto che serviva a coprire il volto del morto, appena prima di deporlo nella tomba. Nella sepoltura affrettata, il volto di Gesù era stato coperto dal lenzuolo ripiegato, quindi il sudario era inutile. Per questo non fu sciolto (verosimilmente ben arrotolato perché nuovo, noi diremmo impacchettato) ma semplicemente deposto sul capo di Gesù, già nascosto dal lenzuolo.
8 – «entrò anche l’altro…»: Adesso il discepolo giovane prende coraggio ed entra anche lui nel sepolcro, Giovanni qui annota i due verbi della fede: “e vide e credette”.
«vide»: in greco eîden. Il verbo horáō indica un attento esame o un guardare con più calma
«credette»: in greco epísteusen quindi il discepolo crede che Gesù è risorto. Pisteúō, dalla radice pith = legare, da cui péitho = persuadere, traduce “contare su qualcuno”, “aver fiducia” in una parola (Gv 4,50; 2 Ts 1,10), in Dio (At 27,25), “dar fede” ad una parola (Mc 13,21), a colui che parla (Gv 4,21).
9 – «Non avevano ancora compreso…»: Ancora Giovarmi annota il fatto che essi, benché Ebrei fedeli, ignoravano la Scrittura, secondo la quale il Signore “si deve che risorga dai morti”. Il “si deve” è la formula impersonale, usata in modo da non nominare il Nome del Signore, che indica come il Disegno divino ha disposto gli eventi.
Che buoni Ebrei ignorassero la Scrittura, appare un fatto strano. Infatti, Pietro 50 giorni dopo, a Pentecoste, in Gerusalemme stessa annuncia per la prima volta il kérygma (Tt 1,3 proclamazione; Mt 12,41 predicazione; Rm 16,25 messaggio) salvifico agli Ebrei, e fa largo appello alle Scritture profetiche, che dimostra di conoscere a menadito (vedi At 2,24-32). Lo stesso Paolo ai Corinzi, cristiani venuti dalla paganità, annuncia il kérygma salvifico, e in questo la Morte e la Resurrezione del Signore è “secondo le Scritture” (1 Cor 15,3), e gli stessi Corinzi, evangelizzati da circa 10 anni, le conoscevano. Però il fatto non è strano. Pietro aveva parlato a Pentecoste dell’anno 30 d.C. e Luca lo aveva narrato negli Atti non oltre l’anno 60 d. C. Secondo i critici, 1 Cor 15,3 è un testo arcaico della Comunità di Gerusalemme, che può risalire agli anni 35-40 d. C. e Paolo lo comunica ai Corinzi all’inizio dell’anno 57 d. C.
Giovanni scrive il suo Evangelo circa l’anno 98 d. C. molto dopo gli eventi narrati in esso, quando la Chiesa si era diffusa nell’impero romano, e nell’impero persiano e con la narrazione dei fatti avvenuti al sepolcro del Signore Risorto, vuole far sapere ai fedeli di allora, e a quelli di tutti i tempi, che solo alla luce delle Scritture si riconosce che il Disegno divino finalmente si era adempiuto in Cristo Risorto.
In questo non fa che seguire il metodo del Signore Risorto stesso, con i due di Emmaus e con i discepoli raccolti nel cenacolo, che rinvia alle Scritture come vedremo nella Domenica III dopo la Resurrezione.
Colletta
O Padre,
che in questo giorno,
per mezzo del tuo unico Figlio,
hai vinto la morte
e ci hai aperto il passaggio alla vita eterna,
concedi a noi,
che celebriamo la Pasqua di risurrezione,
di essere rinnovati nel tuo Spirito,
per rinascere nella luce del Signore risorto.
Egli è Dio…
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano