DOMENICA «DEL MATRIMONIO INDISSOLUBILE»
Il fallimento di molti matrimoni provoca ferite profonde e dolorose. Il brano evangelico di oggi ci dice innanzitutto che questo non è secondo il disegno di Dio sulla coppia, così come viene espresso dall’autore della Genesi. Ma il racconto di Marco riferisce anche la reazione molto vivace di Gesù nei confronti di certi uomini della legge che considerano il matrimonio da un punto di vista puramente giuridico. No! dice Gesù. Il matrimonio non è ciò a cui voi lo riducete: un contratto concluso da una volontà umana, che la medesima volontà umana può sciogliere. Il matrimonio è una realtà molto più profonda, in cui Dio stesso è coinvolto. È qualcosa di ben più grande di un semplice soggetto di discussione giuridica. È opera di Dio, e come tale dovete rispettarlo!
La domanda precisa che è stata posta a Gesù riguarda il ripudio, una forma di divorzio del tutto particolare, in cui il marito, rinunciando ai propri diritti sulla moglie, le permette di sposare un altro uomo. Nell’ambito del diritto giudaico del tempo non c’è uguaglianza fra marito e moglie: la donna è proprietà dell’uomo, alla stregua degli altri suoi beni, e non ha alcun diritto alla fedeltà dello sposo, che giuridicamente non può essere accusato di adulterio nei confronti di lei. Qui invece Gesù dichiara esplicitamente adultero il marito che ripudia la moglie, proprio nel momento in cui quest’ultima cessa di appartenergli giuridicamente! Non si poteva buttare all’aria con maggior violenza l’ideologia tradizionale, né tratteggiare con maggior chiarezza il matrimonio come l’unione indissolubile di due persone che si impegnano in esso in condizioni di assoluta parità. È evidente che quest’affermazione di principio non risolve tutti i problemi concreti – e giuridici – che nascono dal fallimento di una coppia. Ma pone quest’ultima di fronte all’amore indefettibile di Dio, di cui le persone che si amano devono essere segno in questo mondo: un amore più grande dei nostri peccati.
Nell’ascolto delle letture di oggi ci guida ancora l’eucologia:
Antifona d’Ingresso Est 13,9.10-11
Tutte le cose sono in tuo potere, Signore,
e nessuno può resistere al tuo volere.
Tu hai fatto tutte le cose, il cielo e la terra
e tutte le meraviglie che vi sono racchiuse;
tu sei il Signore di tutto l’universo.
Il testo dell’antifona d’ingresso fa parte della «preghiera di Mardocheo» (vv. 7b-17), una confessione di fede nel Signore Unico in terra straniera, che termina con la grande «supplica epicletica per la nazione» (vv. 15-17). In questo centone di testi, si vede Mardocheo prostrarsi a proclamare e adorare la regale Volontà del Signore, alla cui Sovranità tutto è sottomesso, poiché il Creatore del mondo seguita a reggere nell’esistenza ogni creatura, e nessuna di queste può sottrarsi a quanto dispone il suo regale decreto; tutto quanto contiene «il cielo e la terra», ossia la totalità dell’esistente, è creato da Lui, e tutto e tutti a Lui riconoscono di essere soggetti.
Canto all’Evangelo 1 Gv 4,12
Alleluia, alleluia.
Se ci amiamo gli uni gli altri,
Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi.
Alleluia.
La proclamazione dell’Evangelo è accolta cantando l’amore fraterno per cui Dio resta tra i fedeli, per rendere perfetta la loro carità.
Questa Domenica, come sempre lungo questo Tempo “Ordinario, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, la Chiesa celebra Cristo Signore Risorto, mentre Lo contempla in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o opera, o prega. Il Signore dal Padre è battezzato con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue.
«Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita» recita il ritornello del salmo responsoriale[1]; alla luce di questo preciso riferimento (cf. anche II colletta) acquistano particolare significato i richiami della Genesi[2] e dell’Evangelo circa la creazione della donna, l’indissolubilità del matrimonio, la tenerezza nei riguardi dei bambini.
Dio è una fonte sovrabbondante che non si limita alla creazione di tantissimi esseri viventi, oltre all’uomo, chiamato in qualche modo a sovraintendere su di loro (cf. 1 Lett. dove è l’uomo che dà a tutti e a ciascuno un proprio nome), ma addirittura mandando il Figlio «perché sperimentasse la morte a vantaggio di tutti» (cf. II Lett.). Una straordinaria storia di amore e di salvezza.
I lettura: Gen 2,18-24
La narrazione della creazione divina dell’uomo è mirabilmente duplice e stupendamente complementare. La prima narrazione (Gen 1,26-27) secondo i critici è della redazione “sacerdotale” (metà del secolo 6° a. C. con materiali antichissimi). Essa pone l’uomo e la donna alla fine della creazione (Gen 1,1-26), ossia al suo culmine ascendente. La seconda narrazione (Gen 2,7) è della redazione “jahvista” (secolo 10° a. C). Essa pone l’uomo e la donna all’inizio della creazione (Gen 2,4b-6.8-14), ossia al suo culmine discendente.
Nella seconda narrazione il Signore con le Mani divine impasta l’uomo dalla terra e lo plasma; i Padri spiegano come e Mani del Padre siano il Figlio e lo Spirito Santo. Poi spira dentro le sue narici il suo Alito divino vitale, «e l’uomo fu anima vivente» (Gen 2,7). Il Signore dispone per lui il «giardino della delizia», l’Eden (Gen 2,8-14), e al centro vi pone l’Albero della Vita (Gen 2,9), che procura l’immortalità beata (Gen 2,22). Quindi in così grande incanto, dalla steppa vi traspone l’uomo (Gen 2,8.15) affinché lì conduca l’esistenza beata, davanti a Lui (Gen 2,15-17).
Il Signore vuole però che «l’uomo non stia solo», e allora decide di creare e di destinargli una compagnia, che in ebraico alla lettera è «un aiuto come davanti a lui» (v. 18; Qo 4,9; Sir 36,26; 1 Cor 11,9; 1 Tim 2,13). Questa è un’espressione semitica, che il greco, senza tradurre alla lettera, spiega: «un aiuto secondo lui», ossia per quanto gli fosse necessario; qui il latino si avvicina di più all’ebraico: «un aiuto simile a lui stesso», ossia un essere con cui fare coppia. Il senso dell’ebraico è: l’uomo avrà un aiuto che posto di fronte a lui come a uno specchio sarà l’immagine fedele riflessa, tanto simile a lui da essere un altro lui. L’uomo ha ricevuto l’Alito divino (Gen 2,7), e il medesimo Alito divino possederà il suo “aiuto”. La realtà richiamata qui è l’analoga, dell’unica «immagine e somiglianza di Dio» che sono «l’uomo e la donna» (Gen 1,26-21). In termini teologici posteriori, il Signore pone per l’uomo il suo “aiuto” che sia consustanziale con lui.
Allora il Signore crea tutti gli animali della terra e del cielo, e li conduce all’uomo, sottoponendoglieli (Sal 8,7), in modo che l’uomo, con l’imporre a essi il nome di ciascuno, mostri il suo dominio (v. 19). L’uomo procede a dare il nome a tutti gli animali e a ordinarli nelle loro specie. Ma tra gli animali non esiste quello che si può definire come «l’aiuto consustanziale a lui» (v. 20). È assai probabile che qui l’Autore sacro alluda discretamente al fatto che il Signore ponga l’uomo davanti all’incomponibile differenza sessuale di lui rispetto a tutti gli animali della terra e del cielo, che non gli permetterebbe di trovare in mezzo a essi «l’aiuto consustanziale» valido nell’intera sfera dell’esistenza umana.
Perciò adesso il Signore procede a procurare questo aiuto all’uomo. Gli provoca un torpore di sonno profondo, gli estrae una “costola” e ricompone il vuoto nella sua carne (v. 21), in modo che l'”uomo” resti un uomo completo, poi con la “costola” il Signore come Artefice divino e ineguagliabile “fabbrica” «la donna», e la presenta all’uomo (v. 22).
Qui vanno annotati 3 particolari:
- la costola,
- la “fabbrica” della donna,
- la presentazione della donna all’uomo.
Per “costola”, l’ebraico ha selaʻ che si ritrova in babilonese selu(m), e significa vivere, vita. Il Signore dalla vita dell’uomo, nel simbolo della “costola”, estrae la vita della donna, che perciò anche da questa parte è la stessa vita dell’uomo, consustanziale all’uomo, così che si può dire che la vita dell’uomo sta nella donna. Forse questo l’ha compreso bene per primo Paolo, quando, contro le contestazioni nella comunità, afferma in modo categorico:
E però, né la donna senza l’uomo,
né l’uomo senza la donna, nel Signore.
Infatti, come la donna dall’uomo,
così anche l’uomo mediante la donna,
e però tutto da Dio (1 Cor 11,10-11).
L’espressione insolita della donna “fabbricata” sarebbe sentita come un’offesa alla sua dignità, se non fosse proprio il contrario. Il Signore crea, e il verbo è barâʼ. Ma quando dona l’esistenza alla donna, “fabbrica”, banah, e questo è il verbo riservato all’Artefice divino, che vi impiega la sua sublime Sapienza.
La “presentazione” della donna all’uomo è un tratto importante (Pr 18,22; Ebr 13,4). Benché la donna venga dalla stessa vita dell’uomo, ella non è proprietà dell’uomo, poiché il Signore la trasse dalla vita dell’uomo, il Signore in particolare ne fu l’Artefice e quindi ne è anche il Sovrano, come lo è dell’uomo. Il Signore ha realizzato il suo capolavoro con la donna, e questa è il suo proprio dono supremo, e adesso di sua iniziativa gratuita la dona all’uomo come il bene supremo per l’esistenza che il Signore vuole per ambedue.
Almeno all’inizio (!) l’uomo comprende «il dono» che gli proviene inaspettatamente dal Signore, e le sue prime parole sono un breve e intenso poema:
Adesso sì, che questo è l’osso dalle ossa mie
e la carne dalla carne mia!
Allora si chiamerà “maschia”
poiché dal “maschio” fu assunta! (Gen 2,23).
Qui “osso” e “carne” indicano la sostanza stessa dell’uomo che è la donna, e anche da questa parte non indica affatto il possesso brutale del maschio sulla femmina. Il gioco di parole usato qui, maschia e maschio, reso in modo approssimativo, è molto bello. Il maschio in ebraico è ՚îš , e la femmina è ՚îššah, per significare che anche dal sostantivo unico in due generi che li identifica, l’uomo e la donna sono di necessità diseguali nel fisico, e tuttavia consustanziali nell’essenza costitutiva ultima.
Il v. 24, che conclude la scena grandiosa, è il programma della vita: l’uomo abbandona l’origine biologica, padre e madre, e “aderisce” nuzialmente alla sua donna al fine di vivere ormai come «una carne unica», un’esistenza unica e indivisa davanti al Signore che se ne compiace, e agli uomini.
Se si rilegge adesso l’Evangelo di oggi, si comprende la severità dal Signore in favore della fedeltà del matrimonio e contro la dissoluzione umana che provoca il divorzio «per la durezza del cuore» e gli altri disordini: sono il peccato contro la divina stupefacente Carità.
Esaminiamo il brano
1 – Il primo versetto di Mc 10 (escluso dalla lettura liturgica) ci presenta Gesù che si sposta sino ai confini della Giudea, al di là del fiume Giordano, cioè nella regione della Perea, che era sotto il dominio di Erode Antipa, come la Galilea, per raggiungere Gerusalemme[3], meta ultima del suo umano pellegrinare (cf. 10,32; 11,1). Per l’evangelista Marco questo è l’unico e definitivo viaggio di Gesù verso la capitale del giudaismo, verso l’ora della sua passione annunciata già due volte (cf. 8,31ss; 9,30ss).
2 – «avvicinatisi dei farisei…»: I farisei non stavano solo a Gerusalemme, perché non erano un gruppo specializzato, come invece i sacerdoti sadducei con i loro esperti della Legge. I farisei formavano la maggioranza del popolo ebraico e tra essi gli esperti della Legge santa erano molto venerati e seguiti. Quelli del posto vengono da Gesù e per provare la sua dottrina, se fosse aderente alla Legge, gli pongono un quesito sempre discusso, se fosse consentito rimandare la propria moglie, con l’istituto giuridico del divorzio. Le discussioni, come quella di oggi sul divorzio e poi sulla sua autorità (cf. 11,27-33), il tributo a Cesare (cf. 12,13-17), la resurrezione dei morti e il primo comandamento (cf. 12,18-34) segnano un crescendo, che prepara l’esplosione finale dell’ostilità che culminerà con la decisione di metterlo a morte. Ogni dettaglio delle controversie aumenta, quindi, il tono drammatico generale delle discussioni che nel magistero di Gesù non sono puramente accademiche.
«metterlo alla prova»: La traduzione del verbo greco peirázō (= tentare) ha un significato peggiorativo, volendo indicare un tentativo che si compie in tutto malanimo per far cadere qualcuno per mezzo di un tranello tesogli di nascosto (cf. 8,11; 12,13-15; e in specie Mt 4,1-3 dove il participio peirazon diventa il nome personale di Satana, il tentatore per eccellenza).
«È lecito ad un marito ripudiare…»: Il verbo apolyein quando è usato nel contesto del matrimonio generalmente viene tradotto con «divorziare». Questa traduzione tuttavia non coglie appieno l’idea di cosa capitava alla donna quando il marito decideva di ripudiarla o di mandarla via da casa. Almeno in base alla lettura di Dt 24,1-4, i farisei sapevano molto bene che era lecito a un uomo ripudiare la propria moglie. Si ha l’impressione che gli avversari di Gesù sapessero già in partenza che la sua opinione su questo argomento era contraria all’opinione comune e a Dt 24,1-4, e la loro domanda a Gesù aveva lo scopo di dimostrare al grosso pubblico la sua mancanza di ortodossia. In questo senso essi stavano effettivamente mettendolo «alla prova». L’insidia dei farisei consisteva probabilmente nell’indurre Gesù a pronunciarsi sul modo di intendere la clausola della legge. Inoltre è da tenere presente che i territori, che Gesù stava percorrendo (Galilea e Perea) per giungere a Gerusalemme, erano sotto la giurisdizione di Erode Antipa. Quest’ultimo aveva ripudiato la moglie per vivere in relazione adultera con quella del fratello[4] e per questo aspramente redarguito da Giovanni Battista (Mc 6,17-29). Con la sua risposta Gesù avrebbe potuto sconfessare il Battista, che il popolo teneva in grande considerazione, oppure incorrere nel furore del re e della vendicativa Erodiade.
3 – «Che cosa vi ha ordinato Mose?»: In realtà Mosé non dà nessun «ordine» riguardo al divorzio. Piuttosto, in Dt 24,1-4 (l’unico passo della Torah che tratti del divorzio) la possibilità del divorzio è data per scontata. Ciò di cui si occupa il Deuteronomio è il caso di un uomo che ripudia la propria moglie e vuole sposarla di nuovo dopo che la donna è stata sposata e ripudiata da un altro uomo o è rimasta vedova. Secondo Dt 24,4 al primo marito non è più lecito riprendere la donna come sua moglie. Nella Torah e in altri passi della Bibbia (perfino nel caso di Giuseppe e Maria in Mt 1,19) si presuppone che il divorzio sia una prerogativa del marito.
Al tempo di Gesù il divorzio era dunque ammesso sulla base di un testo dell’A.T. (Dt 24,1-4) e il marito poteva ripudiare la moglie qualora essa avesse commesso qualcosa di immorale ai suoi occhi. Le due grandi scuole rabbiniche del tempo erano divise al riguardo: l’una, quella del rabbi Shammai, più rigorosa (che riconosceva legittimo motivo solo il caso di adulterio da parte della moglie), l’altra, quella di rabbi Hillel, più permissiva (ammetteva come valido qualsiasi motivo, anche il più futile e involontario). Da che parte si schiererà Gesù? Dalla parte di Dio (vv. 6-9), infatti egli non si lascia coinvolgere nelle dispute di scuola ma risale alla volontà originaria di Dio e sottolinea, ancora una volta, l’incapacità umana di intendere e fare tale volontà. Gesù supera le strettoie del legalismo; le sue parole non vertono sulla casistica di ciò che è permesso e di ciò che è proibito, tutto deve essere vissuto all’insegna di quell’amore che conduce sulla via della croce[5].
4 – Si noti la differenza tra la domanda «cosa vi ha comandato Mosé», e la risposta «Mosé permise».
«Mose ha permesso»: Usando il termine «ordinato» nel v. 3 Gesù ha messo i suoi avversari sulla difensiva e li ha costretti ad usare il termine più proprio «ha permesso». La loro ammissione che Mose si è limitato a permettere il divorzio lascia aperta la questione dell’«ordinare» e prepara il campo per l’asserzione di Gesù che Mosé lo ha fatto solo per la durezza di cuore del popolo.
Il testo citato è solo l’inizio del testo di rimando Dt 24,1-4, che è secco e crudo. La legge sul divorzio (Dt 24,1-4) per sé era diretta a salvaguardare i diritti della donna e perciò poneva delle condizioni e prescriveva delle formalità al marito che intendeva rimandarla. I farisei si interessano, invece, soltanto dell’aspetto a loro favorevole e la interpretano come la concessione di un diritto irrinunciabile.
«un atto di ripudio»: Secondo Dt 24,1.3, il marito rilasciava un documento scritto in cui dichiarava che aveva ripudiato e mandato via di casa la propria moglie. Un esempio di questo «libello di ripudio» è stato trovato tra i rotoli del Mar Morto a Murabba’at (Mur 19 ar): «Io divorzio e ripudio di mia spontanea volontà, io Giuseppe figlio di Naqsan … te mia moglie Miriam … di modo che tu sei libera da parte tua di andare e diventare la moglie di qualsiasi uomo giudeo che ti scelga». Il possesso di questo certificato dava alla donna la prova legale che il matrimonio contratto era finito e la rendeva libera di sposare un altro uomo. In questo senso il documento offriva alla donna una protezione legale contro eventuali rivendicazioni del suo precedente marito e la possibilità di cominciare una nuova vita.
5 – Gesù ribadisce loro che la legge mosaica non ha valore di precetto, ma di ”concessione” accordata alla «durezza del loro cuore»[6] ( cf anche la durezza dì cuore dei discepoli stessi ancora dopo la Resurrezione, Mc 16,14; e 3,5; 6,52; Ebr 3,8).
Il termine sklerokardia nel NT è usato soltanto qui (e nel parallelo di Mt 19,8) e nel finale aggiunto nel secondo secolo all’Evangelo di Marco: «e [Gesù] li [i discepoli] rimproverò per la loro incredulità e ostinazione (= “durezza di cuore”)» (Mc 16,14). La durezza di cuore tuttavia è uno dei grandi temi biblici. Dato che nell’antropologia biblica il cuore è la sede della comprensione e del giudizio nonché delle emozioni, la durezza di cuore comporta la chiusura totale della mente e delle emozioni nei confronti della verità. Nei primi capitoli dell’Esodo il faraone è presentato come un esempio della durezza di cuore. Nel Sal 95,8 il popolo d’Israele è esortato a non seguire il pessimo esempio dei loro antenati nel deserto: «Non indurite il cuore, come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto». In Mc 3,5 Gesù nella sinagoga accusa i suoi avversari di essere duri di cuore ma usando il termine pórósis («cecità» di cuore) e in 4,10-12 l’incapacità del pubblico di capire le parabole è spiegata in termini della durezza di cuore (pórósis) dalla profezia di Isaia 6,9-10. In Mc 6,52 l’incapacità degli stessi discepoli di Gesù di capire lui e le sue opere è attribuita al loro cuore «accecato = indurito» (pepórómené). Nel contesto del dibattito riguardo al matrimonio e al divorzio in Mc 10,1-12 Gesù interpreta Dt 24,1-4 nel senso di una concessione temporanea fatta da Dio alla debolezza spirituale del popolo.
Quanto alla «durezza di cuore», che nell’A. T. non fu poca ma si trova tuttavia nei Testi ispirati molto più sentimento di quello che si sospetterebbe. Il caso tipico qui resta il Cantico dei Cantici, che celebra il tenero “sentimento” dell’Amore divino per la Sposa umana in termini analogici, ossia per necessità espressi con le categorie umane. Per portare altri esempi, il Signore avvisa Ezechiele che gli deve togliere via «la delizia dei suoi occhi»», e lui non deve fare lutto pubblico (Ez 24,15-19). Questo assume il valore di un simbolo, del quale il Profeta deve annunciare al popolo la spiegazione: il Signore infatti sta per togliere alla casa d’Israele il santuario della sua divina presenza, amato dal popolo come una sposa d’amore, essendo per esso «l’orgoglio della forza, delizia degli occhi e amore delle anime» (Ez 24,21).
Nel libro di Tobia, il giovane Tobi lungo il viaggio apprende dall’Angelo Raffaele di essere parente di Raguel, da cui saranno ospitati, il quale ha una figlia, Sara, che per diritto gli spetta come sposa (Tob 6,10-18). Il testo aggiunge a conclusione questa gemma: «Quando ascoltò Tobi le parole di Raffaele, e che esisteva per lui una sorella della discendenza della casa di suo padre, molto l’amò, e il suo cuore aderì a lei» (v. 19, dal codice Sinaitico). Il verbo “aderì” (kolláomai) indica l’adesione nuziale fedele, come in Gen 2,24 (proskolláomai), e in 1 Cor 6,17.
6-8 «All’inizio della creazione…»: All’inizio non era così. Studi scientifici recenti ci informano che le leggi del Deuteronomio, benché nel nucleo risalgano certamente a Mosé, tuttavia subirono rifacimenti e nella redazione finale sono circa della fine del sec. 7° a. C. Mentre il materiale della Genesi che adesso Gesù cita, quanto a Gen 1, come redazione risale solo alla metà del sec, 6° a. C, ma sappiamo che è tra i più arcaici e Gen 2, la sua redazione con materiale più antico risale almeno al 10° secolo a. C. In sostanza, il Deuteronomio viene dopo ‘l’inizio” e apporta gravi modifiche ad esso.
Gesù quindi si richiama “all’inizio della creazione” (Gen 1,1, e poi vv. 2-31, e 2.1-4a). Allora il Signore procedette a fasi creatore dell’uomo, nella prima, “all’inizio, li fece maschio e femmina” (Mc 10,6b; che cita Gen 1,26-27; 5,7), e in conseguenza nella seconda fase dispone tutto in modo che l’uomo abbandona padre e madre per “aderire” nuzialmente alla sua donna (v. 7, che cita Gen 2,24; ripreso poi anche in Ef 5,31, cf II Lettura della Domenica XXI).
Il fine divinamente disposto è che i due siano un’unica “carne”, ossia esistenza (v. 8a, che finisce di citare Gen 2,24; Mal 2,15; 1 Cor 6,16-17). Essi, in termini teologici posteriori, sono consustanziali (= che ha identica natura e sostanza, come è detto delle tre persone divine).
L’affermazione seguente di Gesù è un commento netto: «Cosicché non più sono due, bensì l’unica carne» (Mc 10,8b). Ossia i due non hanno due sorti diverse e due statuti ontologici (L’ontologia è una branca della filosofia che studia le modalità dell’essere in quanto tale al di là delle sue determinazioni particolari o fenomeniche).
I due restano due, il maschio e la femmina e tuttavia sono l’uno vivente. Perché i due, il maschio e la femmina in quanto coppia umana resa unica carne unita in modo irreversibile dal Signore Creatore, sono consustanziali: e sia perché sono l’unica “immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1,26-27), e sia perché hanno ricevuto l’Unico Alito divino, lo Spirito del Signore (Gen 2,7). A questa carne unita e consustanziale il Signore ha assegnato in eterno l’unico statuto ontologico, che è la sua unica e comune sorte: la Vita di Dio, la divinizzazione.
9 – «l’uomo non separi…»: Ecco perché Gesù in quanto è il Signore emana la divina sentenza: “L’uomo non divida quello che Dio unì”. Quest’ultimo verbo, “unì”, in greco è syzeúgnymi, alla lettera con-giogare, aggregare sotto l’unico giogo o vincolo, da cui syzygia, vincolo matrimoniale, e syzygos, coniuge; analogamente, il latino coniugare, coniugium, coniux. L’immagine simbolica è antica, e chiara, si può arare solo con due buoi appaiati con il giogo, non con uno. Una nota storica: i pagani concedevano il divorzio, ma furono costretti poi (come i Romani) a emanare legislazioni restrittive, per limitare gli immani danni sia alla morale pubblica e alla famiglia e ai figli, e sia alla stessa compagine sociale, che era devastata dal disordine e dalla denatalità. La Chiesa antica conosceva il “Mistero grande” delle nozze cristiane esemplate sulle Nozze divine tra Cristo e la Chiesa (Ef 5,32), e non conobbe la piaga del divorzio. Essa fu reintrodotta dalla legislazione permissiva di imperatori cristiani (nel secolo 6°), i quali permisero la dissoluzione del matrimonio ai fedeli e le seconde e terze nozze.
10 – «Rientrati a casa…»: I discepoli sentono dal Maestro affermazioni che li spaventano, e quando stanno con Lui a casa cercano spiegazioni. Il Signore le dà, ed esse sono ancora più severe.
11 – «Chi ripudia…»: Lo sposo che divorzia e si risposa, infrangendo l’alleanza divina nuziale, commette adulterio rispetto alla sposa ripudiata, e reciprocamente, per la parità assoluta dell’uomo e della donna, anche la donna che ripudia il marito e si risposa, commette adulterio
12 – «se la donna... »: Solo Marco al v. 12 (cf. in sinossi Mt 19,9 e Lc 16,18) aggiunge che il divorzio è escluso non solo per l’uomo, ma anche per la donna. Si comprende che Marco ha presenti le donne delle comunità provenienti dal paganesimo, come quelle di Roma, alle quali la legge, a differenza da quella ebraica, accordava l’iniziativa del divorzio (cf. 1 Cor 7,10-11).
13 – «Gli presentavano…»: L’argomento trattato è triste (fonte di dolore ancora oggi) e certo il Signore ne aveva il cuore stretto. Ma ecco il suo cuore riceve una consolazione. Le madri affettuose gli presentano i loro bambini affinché Gesù “li tocchi”, ossia imponga la mano su essi per benedirli, come soleva fare (vedi il precedente e parallelo Mt 19,13).
14 – «s’indignò»: I discepoli si sono posti come guardie del corpo, e pensando di non essere visti da Gesù rimproveravano quelle madri, in fondo anche per gelosia. Gesù invece se ne accorge e se ne indigna, e li riprende: «Lasciate che i bambini vengano a Me, e non glielo impedite». Egli è la Speranza d’Israele e delle nazioni, ma i bambini sono la sua speranza, perché riempiranno il Regno dei cieli: “infatti, di essi è il Regno dei cieli”.
15 – «In verità vi dico…»: È la formula (a noi ormai nota) delle affermazioni solenni: la logica su cui è fondato il vincolo[7] matrimoniale diventa anche quella richiesta per entrare nel regno di Dio: i bambini sono il simbolo di questa logica; essi infatti non comprendono nulla e non possono far nulla. Così pensano i discepoli e scacciano le mamme e i loro piccoli; l’atteggiamento dei discepoli riflette pienamente la mentalità ebraica secondo cui i figli erano considerati come una benedizione di Dio (cf. Salmo responsoriale ai vv. 3-5; Sal 128,3-4; ecc.), ma finché non raggiungevano i dodici anni[8], in genere erano poco considerati o addirittura trascurati, perché ritenuti incapaci di apprendere gli insegnamenti della legge di Dio.
Il regno di Dio non dipende dalle prestazioni dell’uomo; i discepoli devono imparare proprio dai bambini ad accogliere il regno non come una conquista ma come un regalo. Un dono d’amore.
«come un bambino»: ecco come si consegue il Regno dei cieli: occorre lasciarsi fare da Dio come un bambino, ossia innocente, tenero e buono, gioioso ed entusiasta della vita, che vede solo il bene senza compiere il male.
16: – «li benediceva»: Grandiosa, sconvolgente è la scena finale, Gesù, il Bambino unico del Padre, abbraccia i fratellini suoi più vicini al Cuore divino del Padre; poi li benedice, ponendoli in comunione intensa con il Padre, ed impone le mani come segno dimostrativo di questa comunione, per la quale prega.
Gesù, il Maestro e l’Unico Pastore, mostra la sua speranza, e come la ama. Abbraccia i bambini, e impone le mani su essi e li benedice, affinché si portino la divina benedizione nella vita, e siano benedizione per tutti gli uomini, ai quali servono da esempio vitale.
II Colletta
Dio, che hai creato l’uomo e la donna,
perché i due siano una vita sola,
principio dell’armonia libera e necessaria
che si realizza nell’amore;
per opera del tuo Spirito riporta i figli di Adamo
alla santità delle prime origini, e dona un cuore fedele,
perché nessun potere umano osi dividere ciò che tu stesso hai unito,
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio…
[1] – Il salmo 127, di genere Didattico Sapienziale, celebra la felicità che Dio accorda al giusto; Dio lo benedice nel suo lavoro e soprattutto nella sua famiglia. Il pellegrino che andava a Gerusalemme, cantando questo salmo, portava nel cuore la sua famiglia e vedeva nella benedizione, che cercava presso Dio, la garanzia di quella gioia, che, tante volte, aveva goduto nell’intimità della sua casa.
[2] – Il brano della prima lettura è stato scelto perché richiamato dall’evangelo. Esso è desunto dal cosiddetto racconto Javista della creazione dell’ uomo. Si tratta di un racconto sulle origini, che vuole risalire alle condizioni fondamentali e originarie dell’esistenza umana, prima di dare inizio alla storia degli uomini, si parla delle condizioni stesse nelle quali si svolge tale storia.
[3] – Per chi dalla Galilea voleva raggiungere la Giudea e Gerusalemme senza attraversare la Samaria, non restava che varcare il Giordano e attraversare la Perea, regione che appunto si estendeva al di là di quel fiume, per poi passare nuovamente al di qua, nei pressi di Gerico (cf. Mc 10,46).
[4] – La storia di questa donna è intricata come quella di tutta la sua famiglia. Figlia di Aristobulo, il quale a sua volta era figlio di Erode il Grande e, quindi, fratello di Erode Antipa, era andata sposa ad un suo zio, che Marco (6,17) chiama Filippo (mentre Flavio lo dice semplicemente Erode). Vivevano ambedue a Roma con una figlia di nome Salome, quando nella capitale giunse il loro rispettivo zio e fratello o meglio fratellastro, Erode Antipa, perché anch’egli, come già detto, era figlio di Erode il Grande, ma di diversa madre. La donna si lasciò subito conquistare da lui e lo seguì in Palestina insieme alla figlia, convivendo con lui, che frattanto aveva ripudiato la sua legittima moglie, e seguendolo poi in esìlio nelle Gallie.
[5] – Ora nel matrimonio ma ascolteremo nelle domeniche successive (cf XXVIII e XXIX) come essere discepoli nelle ricchezze (10,17-31) e nell’autorità (10,35-45).
[6] – In greco sklerokardia = cuore sclerotico; è il cuore diventato ormai insensìbile (un pezzo dì osso potremmo dire).
[7] – Al v. 7 quando si parla di uomo congiunto alla sua donna Marco usa il verbo greco proskolláōche letteralmente possiamo tradurre “incollato a”.
[8] – Dodici anni era l’età in cui il ragazzo ebreo diventava religiosamente adulto; era quindi tenuto ad osservare tutte le prescrizioni religiose in quanto «figlio del comandamento » (bar-mizivah). Come membro a pieno titolo della comunità conta per formare il minjan, il numero minimo di dieci uomini richiesto per il culto comunitario.