La pagina del Siracide è una perla preziosa di un libro che ha come scopo insegnare l’arte del vivere, la sapienza quale via per attuare la Torah, per cercare di partecipare all’opera creatrice di Dio, attuando creatività ad immagine del creatore, facendo della propria esistenza un’opera bella.
La vita stessa è opera d’arte. E’ nascosta nel cuore delle cose e dei gesti del vivere. Come i grandi scultori affermavano di aver scoperto le loro opere racchiuse già nel blocco di pietra a cui con lo scalpello davano progressivamente forma così c’è una Parola di Dio da ascoltare al cuore dell’esistenza umana.
L’invito a coltivare la sapienza come scienza pratica di vita è il messaggio centrale di questo libro probabilmente scritto in ebraico verso il 190 a.C. da un tal Sirach poi tradotto in greco ad Alessandria in Egitto dal suo figlio Ben Sirach (il figlio di Sirach) che fu anche animatore di una scuola di sapienza – da cui il nome Siracide.
L’esperienza del vivere, la vita nelle sue pieghe ordinarie è luogo di esperienza di Dio. In tal senso nella vita si può lasciare spazio alla Parola di Dio se si fa attenzione alle parole e ai gesti umani.
“Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute ne appaiono i difetti”
L’immagine del setaccio è utilizzata per esprimere quanto avviene in una ricerca comune. Aprirsi a porre in discussione le proprie idee con altri è atto coraggioso e di apertura mentale. E’ scuotimento che genera il cadere di quanto non serve o si rivela erroneo. Nel confronto e nello scambio di parole con l’altro emergono i limiti, le incongruenze, gli errori stessi del proprio modo di ragionare. Si scopre una verità più grande di quella che si pensava di avere intravisto e ci si apre ad una verità che ci raggiunge in modi inattesi proprio nell’incontro. Lo scambio della parola, la discussione è setaccio che lascia cadere quanto è inutile ed indica l’attitudine di chi ricerca l’essenziale. Sta qui uno dei tratti del profilo del saggio.
“I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo”
Un vaso ben plasmato viene messo al fuoco rimane integro e l’argilla non si spacca, se invece vi sono difetti nell’impasto il fuoco genera fessure fino a spaccare il vaso. Questa immagine della vita artigianale indica i percorsi del ragionamento dell’uomo. Quando si confronta con altri, nello scambio di parole emerge se vi è una autentica ricerca di verità oppure se si tratta di un discorrere senza basi e che quindi si spacca e si fende come un vaso posto nel fuoco. Solamente nel rapporto con gli altri ci può essere la ricerca di una verità più grande oltre i frammenti che ciascuno riesce a cogliere.
Così il Siracide evoca l’impegno del saggio che si mantiene in discussione, che non pretende di essere arrivato e si espone al vaglio di un confronto da cui può emergere anche il difetto del suo ragionare e la parzialità del suo punto di vista. Il rapporto con Dio passa attraverso la parola e l’incontro con gli altri. E proprio in questo lasciarsi vagliare insegue la Parola di Dio che non viene meno. Il profilo del saggio è quello di chi ha una mente aperta e un cuore disponibile. Le sue parole, appaiono così come i frutti di un albero che maturano in rapporto ad una vita nascosta della pianta. Il centro della vita del saggio è un cuore coltivato nel bene, abituato a mantenersi in ricerca, disposto all’incontro. Le parole cattive sono il frutto di un cuore malato, che è stato intaccato dalla stoltezza: “Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore”.
Questi pochi versetti del Siracide aiutano a riflettere oggi sul rapporto tra la Parola di Dio e le nostre parole, sul raggiungerci di Dio nella concretezza degli incontri e delle ricerche della vita.
«Voglio indicarvi il modo migliore per insegnare la Torah. Bisogna non sentire più affatto se stessi, non essere niente di più di un orecchio che ascolta ciò che il mondo della Torah dice in lui. Ma non appena si cominciano a sentire le proprie parole, si cessi» Così Martin Buber nei suoi Racconti dei Chassidim.
Tale via di saggezza è quella ricordata da Gesù che nel suo insegnamento utilizza il modo di parlare le brevi sentenze della sapienza di Israele: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è da più del maestro; ma ognuno che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. Gesù mette in guardia dall’essere guide cieche, presuntuose e incapaci di avere occhi aperti per camminare insieme agli altri. Richiama anche ad un discepolato che è rapporto di discepolo e maestro, ma va oltre il modo di pensare il discepolato dei rabbini: seguire lui infatti è cammino che non fa compiere illusorie carriere – si rimarrà infatti sempre discepoli, al seguito, dietro di lui – ed è chiamata a porre i passi dove lui i ha posti, assumendo lo stile della sua vita.
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