Tutti attendiamo che si compia la grande promessa di Dio, garantita dalla risurrezione di Gesù: che il nostro corpo corruttibile sia vestito d’incorruttibilità e il nostro corpo mortale d’immortalità (cf. 1Cor 15,54). È una promessa il cui compimento è riservato per l’ultimo giorno, quando attraverseremo la soglia della morte, che tuttavia, da quando Gesù Cristo è morto ed è risorto per noi, è diventata per tutti un passaggio pasquale. La morte ha perso il suo pungiglione e la sua forza; non può più vincolarci ai suoi ceppi e alle sue catene. La croce di Gesù è la grande chiave che apre le porte della nostra prigionia. Siamo stati liberati e resi partecipi della vittoria del Signore nostro Gesù Cristo sul peccato, sul male, sulla morte. Torniamo però a insistere su un’idea che la liturgia ci ha già suggerito nelle precedenti domeniche: questo compimento futuro, da attendere nella speranza, inizia già a trasformare la nostra esistenza. La speranza cristiana ha dei riflessi nell’oggi della vita di ciascuno. Attendere significa anticipare: consentire al futuro di Dio di trasformare il nostro presente. Come direbbe san Paolo, occorre essere figli della luce e del giorno mentre camminiamo ancora nell’oscurità della notte (cf. 1Ts 5,4-5).
Sin da ora il nostro corpo può iniziare a rivestirsi di qualche tratto dell’incorruttibilità e dell’immortalità future. Accolta nella sua globalità, la liturgia della Parola di questa domenica ci descrive qualche aspetto di questa corporeità trasformata dall’efficacia del mistero pasquale che già opera in noi. Sappiamo che la nostra fatica non è vana, poiché non si tratta di camminare confidando nei nostri sforzi o nel nostro impegno, ma di progredire «sempre più nell’opera del Signore» (1Cor 15,58).
Proviamo a cogliere almeno qualche aspetto di questa corporeità rigenerata dalla fecondità della Pasqua. È un corpo che ha un occhio diverso, un differente modo di guardare. Come affermava il grande artista ticinese, lo scultore Alberto Giacometti, tutti noi abbiamo gli occhi, ma non tutti abbiamo lo sguardo. Non basta avere occhi capaci di vedere, occorre avere sguardi giusti. Sguardi pieni della luce di Dio, del suo stesso modo di vedere, contemplare, giudicare. Altrimenti, rimaniamo dei ciechi che pretendono di guidare altri ciechi, con l’unico risultato di cadere entrambi in un fosso. Ciò che ci vela gli occhi, impedendoci di assumere uno sguardo evangelico, è la pretesa di giudicare. C’è una trave che ci impedisce la vista ogni volta che pretendiamo di giudicare la pur minima pagliuzza che scorgiamo nell’occhio di qualcun altro. Ciò che Gesù esige da noi non è l’astensione da ogni forma di giudizio. Ci sono situazioni in cui è indispensabile giudicare, discernere; talvolta ci veniamo a trovare in frangenti nei quali dobbiamo guidare qualcun altro perché non si smarrisca o sbagli strada. Il vangelo ci offre però dei criteri per operare retti giudizi, sapienti discernimenti. Un primo criterio: ogni giudizio è autentico quando è anche giudizio su di me. Talora può accadere che la trave sia nell’occhio dell’altro e nel mio ci sia soltanto una pagliuzza. Non importa: posso aiutare l’altro a rimuovere ciò che gli vela l’occhio solamente se ciò che scorgo in lui mi consente di riconoscere e rimuovere ciò che offusca la mia vista. Non posso guidare un altro su vie di conversione se non sono disposto io, per primo, a lasciarmi purificare dalla parola di Gesù.
Un altro tratto di una corporeità trasfigurata dalla Pasqua è il cuore capace di custodire il bene. Si tratta di avere ancora uno sguardo profondo, che non si limita a osservare i gesti esteriori, propri o altrui, ma sa scendere nella verità del cuore per trovare in questa interiorità la fonte sorgiva del proprio essere e del proprio agire. Gesù afferma con chiarezza che è l’albero buono a produrre frutti buoni. Non è la bontà del frutto a rendere buono l’albero; accade il contrario. Siamo sempre tentati di giudicare noi stessi e gli altri sulla base dei nostri comportamenti e delle nostre azioni. Osserviamo i frutti e dimentichiamo le radici. A rendere buono l’albero, invece, non sono i suoi frutti, ma le sue radici. La bontà dell’albero dipende dal terreno nel quale esse affondano e dal quale si nutrono. È un cuore radicato nel Signore, che sa dimorare nella relazione con lui e custodire il suo amore, a produrre frutti buoni, tanto in azioni quanto in parole. Un altro tratto di questa corporeità pasquale è infatti riconoscibile da una bocca che parla dalla sovrabbondanza del cuore. O, come afferma il Siracide, «una parola che rivela i pensieri del cuore» (Sir 27,7). La persona che vive già nella luce della Pasqua è unificata, o quanto meno tende verso un’unificazione interiore, superando il rischio di una distanza schizofrenica tra cuore e pensieri, tra parole e pulsioni interiori, tra gesti esteriori e sentire profondo.
«Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo», esclama Paolo (1Cor 15,57). Ce la dà qui e adesso, anche se dobbiamo attendere il suo compimento nel giorno che viene. Sin da ora, tuttavia, la sua vittoria pasquale si manifesta in noi, nel modo in cui trasforma il nostro occhio, la nostra bocca, il nostro cuore, le nostre parole, i nostri gesti.
Tratto da: Fallica Luca, La Parola si fa casa. Commento ai vangeli festivi – Anno C – Figlie di san Paolo, Milano, 2018.
Fonte: Monastero Dumenza