Domenica «del buon pastore»
Nelle letture Gesù si presenta come il pastore secondo il cuore di Dio, quello annunciato dai profeti. Egli conosce intimamente il Padre e trasmette questa conoscenza ai suoi. Gesù guida i suoi con l’autorità di chi ama e ha dato la sua vita; i discepoli, nella fede, ascoltano la sua voce e lo seguono. I capi in Israele e poi nella Chiesa dovevano essere servi dell’unico pastore; ma troppo spesso, seguendo interessi egoistici e visioni politiche inadeguate, hanno tradito, fuorviato, depredato il gregge di Dio. Il discorso sui «pastori» della Chiesa oggi non è facile per le incrostazioni storiche che hanno deformato prospettive e falsato mentalità anche tra i fedeli. Restituire ai pastori e alle loro funzioni nella Chiesa la verità e l’autenticità è compito oggi urgente. Il Papa, supremo pastore, viene ancora visto in troppi ambienti come un capo politico, un raffinato diplomatico, l’espressione di un assolutismo scavalcato dai tempi. Mentre urge presentarlo, qual è veramente, come il centro di unità e di coesione della Chiesa. Il Vescovo poi non è un dignitario, un alto funzionario dello spirito, lontano e distaccato dal suo gregge, ma il centro di unità della Chiesa locale, il maestro e il padre della famiglia diocesana. Il Parroco e i Sacerdoti impegnati nel ministero pastorale non sono dei burocrati e dei funzionari cui rivolgersi per espletare delle «pratiche», per ottenere «raccomandazioni», non sono neppure distributori di elemosine o di sacramenti. Sono soprattutto «pastori» dedicati totalmente al loro popolo, che servono con amore e dedizione totale. Delegata ad alcuni uomini, l’autorità nella Chiesa non può essere che il segno del governo del Signore: essa non è un assoluto, è tutta in relazione con il Cristo Risorto. La missione dell’autorità nella Chiesa è quella di rimanere accanto al popolo, sempre, in particolare in questo tempo buio. Siamo onesti, nessuno era preparato ad affrontate la sciagura della pandemia che stiamo vivendo. Ragionare con il senno del poi è sempre facile, e lo è anche in questo caso. Lo facciamo con umiltà, con sentimenti di pace e di servizio.
Oggi, forse a causa della paura, della stanchezza a questa forzata clausura a cui non si era preparati, ci sono segni di cedimento, si ascoltano infatti da più parti discorsi severi nel giudicare il nostro Presidente del Consiglio per le dolorosissime decisioni prese e soprattutto la posizione della Conferenza Episcopale italiana nell’andare incontro al governo per il bene degli italiani e nella volontà di Dio. Occorre ancora pazienza ed amore, sempre ed ovunque, soprattutto nella Chiesa. Abbiamo accolto con sofferta serenità la decisione del governo, condivisa dalla Cei, di celebrare la Pasqua a porte chiuse. Soli abbiamo cantato l’alleluja e pregato per coloro che si stavano spegnendo in una atroce solitudine. Abbiamo cercato nell’evangelo e nella preghiera la forza per rimanere, fermi, tutti al nostro posto di combattimento. Ora non dobbiamo perdere la speranza anche dopo la delusione di non poter ancora celebrare l’eucarestia domenicale. Una situazione d’emergenza richiede uno sforzo straordinario. Ancora in preda della prima ondata non possiamo permetterci un pericoloso, secondo picco di contagi. Non siamo ancora fuori pericolo, ne siamo tutti coscienti, tutti dobbiamo fare la nostra parte. Nella situazione che stiamo vivendo, niente è facile, si tratta di vedere se è possibile. Occorre dialogare e non contrapporsi, ascoltare di più, pensare di più e parlare molto meno. Gesù è venuto nella carne e da sempre la fede della comunità dei credenti si basa proprio sulla “carne” di Gesù (“Il Verbo si fece carne”, Gv 1,14). Il progetto divino si è manifestato, e continuamente si realizza, nella “carne” (“egli fu manifestato in carne umana”, 1 Tm 3,16), ovvero nella debolezza di un’esistenza umana (Mt 26,41; Eb 10,26), non in un semidio. È attraverso la carne che il dono di Dio si fa concreto, reale ed efficace, e non esistono doni divini che non si esprimano attraverso la carne. Pertanto, credere in Gesù il Cristo, Figlio di Dio, venuto nella “carne”, significa accettare di lasciarsi coinvolgere dalla sua stessa onda d’amore, avere l’identico atteggiamento del Dio che si è fatto carne per essere vicino a ogni creatura, per “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10). L’anticristo, si propone di trasformare Gesù e la Chiesa in vuoti simulacri, dove lo splendore esteriore nasconde il nulla interiore, come l’albero di fichi, tutto foglie e senza frutti (Mc 11,12). Si poteva fare meglio? Si deve fare di Più? Ricordando che il di più spesso viene dal Maligno (Mt 5,37), obbediamo al Pastore, Gesù Cristo! E dunque anche ai suoi ministri, inviati per il servizio nella e per la Sua Chiesa: il Papa, i Vescovi, i presbiteri, i diaconi, e poi catechisti, maestri, genitori, ecc. Un vescovo del primo secolo, Policarpo da Smirne, scrive ai credenti di Filippi, che “chi non riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è un anticristo” (Fil. 7,1). Il pericolo è dovuto al fatto che l’anticristo non è una realtà singola, che si potrebbe facilmente circoscrivere e neutralizzare, ma plurale: “Molti anticristi sono già venuti” (1 Gv 2,18). L’estrema pericolosità degli anticristi consiste nel fatto che costoro non agiscono al di fuori, o contro la comunità dei credenti, ma si annidano al suo interno, e si pongono come campioni dell’ortodossia. L’anticristo, si propone infatti come strenuo difensore delle tradizioni della Chiesa, fedele osservante e interprete della sua dottrina immutabile. La preposizione anti, che precede cristo, indica sostituzione, non avversario, per cui la figura dell’anticristo è una presenza subdola, in quanto non agisce come un nemico del Cristo, ma, al contrario, si erge quale suo paladino. Non dividiamoci! È questa opera diabolica. Tutta la Chiesa stà soffrendo, sperando, pregando. Stiamo condividendo il poco pane che avevamo in dispensa. In queste settimane i nostri pastori si sono inventati mille modi per non lasciare solo il popolo loro affidato, per rimanergli accanto. Improvvisati preti on line con le catechesi, le preghiere, le messe celebrate nelle chiese vuote sono seguiti ogni giorno dai fedeli. Si poteva fare meglio? Si deve fare di Più? Seguiamo ancora il Pastore! “L’uomo non vive di solo pane” è il canto all’evangelo che ha accompagnato una buona parte delle pericopi evangeliche proclamate in questi giorni e tratte dal cap. 6 di Giovanni, il lungo discorso eucaristico. Ed è vero, l’uomo ha bisogno di essere ascoltato, compreso, sostenuto, anche psicologicamente e spiritualmente. Nella prima lettura odierna Gesù viene definito «Messia e Signore», nella seconda e nell’evangelo viene presentato come il pastore che dona la vita al suo gregge, che è la Chiesa. Nella custodia, nell’amore, nella guida di Gesù-pastore, ci ha spiegato san Giovanni, noi troviamo la vita. Gesù è il messia annunciato dai profeti; egli è l’unico capo e la sola guida del popolo di Dio anche se si serve del ministero pastorale degli apostoli e dei loro successori. Significativa, a questo proposito, è la storia di Israele. L’AT descrive Iahvé come un vero pastore per il suo popolo: in occasione dell’esodo, egli lo guidò «come un gregge nel deserto» (Sal 78,52-53); «come un pastore egli fa pascolare il suo gregge, lo raduna col suo braccio, porta gli agnellini sul petto, guida dolcemente le madri…» (Is 40,11).
Anche dopo la punizione dell’esilio, Iahvé condurrà Israele alle sorgenti di acque (Is. 49, 10), raccogliendo i dispersi (56, 8) e chiamandoli a sé (Zac. 10,8). Così i suoi fedeli non avranno più nulla da temere, come afferma mirabilmente il salmo 23. Iahvé però, padre e capo di Israele, ha voluto affidare il gregge ai suoi servi: lo ha guidato «per mezzo di Mosè e di Aronne» (Sal 77,21), per mano di Giosuè (Num. 27,15-20); ha voluto che Davide pascesse il suo popolo (Sal 78,70-72).
I giudici e i capi del popolo sono stati, per volontà di Iahvé, pastori di Israele. Ma questi pastori si sono rivelati infedeli alla loro missione: si sono ribellati a Iahvé; invece di occuparsi del gregge, hanno pensato a «pascere se stessi» (Ez 34,8); han lasciato che le pecore si disperdessero (Ger 23,1-2 «1 «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. 2Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore.»). Per questo Iahvé interviene contro di essi: visiterà, nella sua ira, questi cattivi pastori e brandirà la spada contro di essi (Zac 10,3; 13,7), riprendendosi la guida del suo popolo e affidandola al messia nuovo Davide (Ez 34,23-24: «23Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore. 24Io, il Signore, sarò il loro Dio, e il mio servo Davide sarà principe in mezzo a loro: io, il Signore, ho parlato.»).
Dalla dossologia:
Antifona d’Ingresso Sal 32,5-6
Della bontà del Signore è piena la terra;
la sua parola ha creato i cieli. Alleluia.
Questo Inno è per intero una poetica e forte dossologia al Signore. Esso in specie è prezioso per la teologia che scaturisce letto per intero ma soprattutto dai vv. 6 e 9, che cantano il Signore per l’irresistibile sua Potenza divina creatrice. Con totale facilità infatti Egli crea l’universo con la sua Parola (v. 6a) e con lo Spirito suo (v. 6b), parla e comanda, e tutto esiste (v. 9; rinvio immediato è a Gen 1,1–3.6-7.8-31; a Gdt 16,7; Sap 9,1; Gv 1,1-3; Ebr 11,3 e 1,1–4). Per questo motivo il Signore con la sua Misericordia, ossia il suo comportamento dell’alleanza fedele, riempie la terra intera, l’intero spazio-tempo dell’esistenza (v. 5b; anche 103,24; 118,64; Is 6,3; 11,9; Ab 3,3). Sì che ne gioiscono e lodano i giusti e retti di cuore, celebrando il Signore con Salmi, con il «cantico nuovo», il grande grido di giubilo che sale al cielo (vv. 1-3), a motivo della Parola giusta e dell’Opera fedele del Signore (v. 4). I Padri a partire da testi così densi ed essenziali svilupparono pagine mirabili di teologia trinitaria. La Parola e lo Spirito del Padre sono i fattori della Resurrezione del Figlio e della Pentecoste sui discepoli, e proprio questa è la divina Misericordia finale che riempie la terra. L’Alleluia finale si pone come la nota del giubilo adorante e laudante di oggi che poi prosegue con l’alleluia dell’evangelo:
Canto all’Evangelo Gv 10,14
Alleluia, alleluia.
Io sono il buon pastore, dice il Signore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.
Alleluia.
Nell’espressione «Io sono il Pastore Buono», si distingue la formula giovannea «Io sono», che rinvia direttamente all’indicibile rivelazione che il Signore, nascosto ma presente nel Roveto che arde e non si consuma, fa a Mose del suo «Nome» divino, la sua stessa Esistenza ed Essenza personale: IHVH, «Colui che unico esiste», in greco ho Kyrios, «il Signore» (Es 3,14.16). Il Signore Unico si rivela inoltre qui come Colui che dopo il primo e il secondo esodo (per quest’ultimo, Ez 34), si è fatto di nuovo il Pastore che con Bontà amorevole percorre la strada insieme al suo gregge verso la Patria, come aveva promesso (Is 40,11; Ez 34,12.23; Zacc 13,7) e come adesso realizza (Gv 21,15-17: «15Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». 17Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore.»; ed anche Ebr 13,20; 1 Pt 2,25; 5,4; Ap 7,17). Questo Amore causa e fonda la conoscenza del Pastore con le pecore sue e di queste con Lui (10,27; Na 1,7; 2 Tim 2,19). È una conoscenza specifica, quello stretto rapporto biblico che è anzitutto di amore nuziale. Esso è significato anche dalla formula dell’alleanza o di appartenenza reciproca, «mie pecore», che indica possesso e fedeltà. Il testo così orienta la lettura dell’Evangelo di oggi, indicandone i punti di forza. La liturgia pasquale odierna è dunque caratterizzata dal titolo di pastore col quale Cristo si presenta al mondo. La nostra civiltà, più tecnica e industriale che agricola, rende faticoso all’uomo moderno cogliere il messaggio che passa attraverso questa immagine, ma esso è troppo importante per trascurarlo. Il titolo cristologico di pastore, meditato dalla prima comunità cristiana, trova un approfondimento particolare nell’evangelo di Giovanni. La liturgia pasquale lo riprende e lo rimedita, perché esso svela tutta la dimensione del mistero della croce di Gesù. Gesù infatti è il buon pastore che dà la vita per tutte le pecore. Non solo è condannato a morte, ma si consegna volontariamente alla morte come segno dell’amore per le pecore a lui affidate.
La Chiesa che raccoglie i salvati da Cristo, buon pastore, è conseguentemente presentata con l’immagine dell’ovile la cui porta unica e necessaria è Cristo; è presentata con l’immagine del gregge le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo. Attraverso questo linguaggio passa la realtà più profonda dell’evangelo: l’iniziativa salvifica di Dio ha incontrato l’uomo perché l’ha colto là dove l’uomo stesso già lo cercava; chiunque vuole raggiungere Dio dovrà prendere Gesù come unica via e vita; quanti vivono nella chiesa, ovile e gregge di Cristo, devono sapere che l’amore vero, ad imitazione del buon pastore, porta il sigillo del dono della vita ai fratelli. Il ministero pastorale, pertanto, è un servizio nella chiesa e per la chiesa per rendere effettiva in essa la presenza del Signore e del suo mistero pasquale e per condurla con sicurezza accanto al Padre, dove lo ha preceduto il Cristo, suo pastore.
I Colletta
Dio onnipotente e misericordioso,
guidaci al possesso della gioia eterna,
perché l’umile gregge dei tuoi fedeli
giunga con sicurezza accanto a te,
dove lo ha preceduto Cristo, suo pastore.
Egli è Dio…
Questa Domenica è caratterizzata, nei 3 cicli, dalla lettura della pericope di Gv 10, detta «del Pastore Buono», distribuita così:
- ciclo A, vv.1-10;
- ciclo B, vv. 11-18;
- ciclo C, vv. 27-30, con omissione di alcuni versetti.
Del vecchio schema (prima della riforma liturgica l’odierna domenica del “buon pastore” cadeva nella II Domenica dopo Pasqua, quella che era successiva alla Domenica “in albis”) sono rimasti l’evangelo e il brano della prima lettera di Pietro che parla pure delle pecore e del pastore che è Cristo (v. 25). Ma se nell’antico schema si leggeva soltanto Gv 10,11-16, che parla direttamente del buon pastore, dovendosi ora dividere questo capitolo dell’evangelo in tre parti, ci troviamo di fronte alla sorpresa che nel primo brano assegnato per quest’anno, non si ha ancora l’identificazione di Gesù con il buon pastore.
La collocazione cronologica di questo discorso è incerta, tuttavia per l’evangelista esso non deve essere stato pronunciato molto dopo la guarigione del cieco nato. Alla fine del discorso la folla ben disposta menziona tale segno straordinario, per confutare i giudizi negativi dei giudei sul Maestro (cf v. 21).
Il cieco miracolato è stato espulso dalla sinagoga per la sua confessione di fede nel Messia (Gv 9,30-34); è stato scomunicato, tagliato fuori dalla comunità giudaica. I capi del popolo giudaico con il loro comportamento si sono manifestati ladri e briganti, non pastori d’Israele. Con il loro accecamento ostinato e lucido essi hanno dimostrato di non essere vere guide spirituali del gregge di Dio.
II discorso di Gesù appare dunque motivato dalla situazione concreta del cieco miracolato, ed è in questo contesto che le espressioni usate acquistano un’efficacia particolare. Alcuni autori rilevano che «Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione[1]» (v. 22), proprio in occasione della festa, la lettura sinagogale era quella di Ez 34, che costituisce lo sfondo più conveniente di Gv 10. All’inizio del capitolo sono raccolte 3 brevi parabole che mettono a confronto due personaggi contrastanti:
- il pastore e il ladro (vv. 1-3a).
- il pastore conosciuto e l’estraneo (vv. 3b-5).
- il pastore che dà la vita e il mercenario (vv. 11b-13).
I vv. 7-10 non sono la semplice spiegazione della parabola precedente, tanto è vero che non ne sviluppano il tema centrale, cioè che Gesù è il vero pastore, tema che invece viene trattato dal v. 11 in poi. Sono una meditazione sulla parabola e insieme un passo avanti, un pensiero in più. Il brano non ha corrispondenza con gli altri evangeli, anche se il tema pastorale è da essi ampiamente utilizzato. La tradizione sinottica più vicina all’evangelista Giovanni è il breve paragone usato per descrivere la compassione di Gesù per la folla che andava da lui «perché erano come pecore senza pastore» (Mt 9,36; Mc 6,34); un altro testo, nel racconto della Passione, preannuncia lo scandalo dei discepoli col passo di Zc 13,7: «Percuoterò il pastore (Gesù) e saranno disperse le pecore del gregge» (Mt 26,31; Mc 14,27). Meno vicina per il contenuto, non ancora cristologia), è la parabola della pecora perduta (Mt 18,12-14; Lc 15,4-6). Invece «le pecore disperse della casa di Israele» (Mt 10,6; 15,24) richiama più direttamente la denuncia profetica e la promessa di Ez 34; 37,24 e Zc 11,17.
Questi testi veterotestamentari (cf anche il Sal 22 (23), il responsoriale della liturgia) costituiscono anche lo sfondo storico-teologico di Gv 10.
Esaminiamo il brano
l-3 – «In verità, in verità vi dico»: La prima parabola inizia con una clausola solenne, che preannunzia rivelazioni molto importanti e profonde; una parola molto conosciuta, la traslitterazione dell’Ebr. amen = certamente, veramente, sinceramente. Nell’uso del giudaismo e della Chiesa si riferisce a ciò che precede (è posto alla fine di un discorso o di una preghiera); nelle parole di Gesù si riferisce sempre a quanto segue (è posto al principio), conferendo solennità alla formula. Quindi con essa Gesù è come se affermasse: «Io vi dico», al contrario dei profeti che usavano le parole: «Dice il Signore». L’insegnamento di Gesù è impartito con autorità e autonomia. Marco usa questa espressione 12 volte; Mt 30; Lc 5; Gv 25 ma nella forma raddoppiata: “Amen, Amen”. La solennità della clausola iniziale, «In verità, in verità io parlo a voi», va tradotta e spiegata così: Io, il Dio-Amen, il Fedele (Is 65,16; Ger 4,2; 10,10; Sal 71,17; 2 Cor 1,17-22; Ap 3,14), parlo a voi. È il Dio Verbo che dona la sua Parola e rivela altri aspetti della sua identità divina. Che chiama all’ascolto. Che costituisce la sua Parola come giudice infallibile (12,48c). Perciò vuole che questa Parola sia accettata e compresa per la vita.
«Vi dico»: Chi sono gli interlocutori? La conclusione dell’episodio del cieco nato era approdata ad uno scontro verbale tra Gesù ed alcuni dei farisei (Gv 9,39-41). È dunque un momento di giudizio che non viene però attuato da Gesù, ma si compie nell’intimo dei suoi interlocutori, proprio perché egli è presente nel mondo. Davanti a lui si pone necessariamente una distinzione tra chi è disposto a credere e chi non è disposto a farlo. Da una parte il cieco nato giunge alla sua confessione di fede, dall’altra gli avversari di Gesù, nella loro arroganza, non ammettono di aver bisogno della luce, perché ritengono di essere in grado di vedere, e così rimangono nel buio. Eppure Gesù non smette di rivolgere loro il discorso, nella speranza che essi si aprano alla luce, alla vita; è a loro infatti che rivolge l’articolata e densa similitudine del buon pastore. Finora, nell’evangelo secondo Giovanni, oltre che come luce, Gesù si è rivelato come lo sposo, come cibo, come acqua, come riposo, come colui che offre una casa; questa autorivelazione prosegue ora con l’identificazione che egli fa di se stesso con il pastore che è venuto a dare la vita per le proprie pecore, affinché esse abbiano vita in abbondanza!
Le parole che seguono se teniamo invece conto dei vv. 19-21 sembrano dirette piuttosto a dei generici «giudei», per cui si può ritenere che costoro siano presenti fin dall’inizio. Le parole che seguono sono oscure, ma vedremo che saranno riprese, chiarite e approfondite, secondo lo stile dei discorsi e dei dialoghi giovannei. Il contesto di quest’ultima autorivelazione continua comunque ad essere quello della festa delle Capanne, contesto che conferisce un risalto ulteriore alla figura del pastore. Infatti, in questa festa, Israele celebra la presenza di Dio che durante la vicenda esodica ha condotto il suo popolo nel cammino del deserto. Lì si è rivelato come premurosa guida e forte pastore del suo popolo, cosa che fa dire al salmista: «È lui il nostro Dio, noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce» (Sal 95,7).
«è un ladro e un brigante… è pastore»: Ci sono vari modi di entrare in un ovile: vi è quello di chi ha cura delle pecore e vuole il loro bene e quello invece di chi non cerca altro che rubare e fare del male alle pecore. L’una è la modalità del pastore delle pecore, l’altra è quella dei briganti, dei ladri.
Sono così presentati due personaggi: uno come spiegato al v. 10 è un ladro che viene per rubare, scannare e portare rovina, il perfetto contrario del proprietario. Quest’ultimo entra attraverso l’unica porta, quella normale e visibile, appositamente preparata, ed è «il Pastore delle pecore». Tutto è stato da questi predisposto per il bene delle sue pecore: il recinto per ripararle e un guardiano fedele per sorvegliare (giorno e notte specialmente se l’ovile era in aperta campagna). Occorre qui ricordare l’abitudine che i pastori hanno forse ancora oggi di radunare per la notte il gregge in un luogo riparato, spesso delimitato da un muro di pietre e sormontato da rovi che con le loro spine impedivano lo scavalcamento del muro. In questo recinto tutte le pecore passavano per l’unica porta sorvegliata dai pastori durante la notte contro i lupi e i ladri.
3b-5 La nuova traduzione CEI rende correttamente con ‘recinto’ e non con ‘ovile’ il termine aulé, utilizzato da Giovanni, che indica infatti solitamente un cortile recintato posto davanti ad un edificio. Nella Bibbia dei LXX viene usato prevalentemente per indicare il recinto o vestibolo antistante il Tabernacolo, oppure coincide con gli altri atri del Tempio. Ecco perché Israele viene presentato come il gregge di Dio che entra nei suoi recinti, ossia negli spazi interni del Tempio. Si veda in proposito il Sal 100,3-4: «Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo. Varcate le sue porte con inni di grazie, i suoi atri con canti di lode». Si comincia pertanto a comprendere quello che vuole dire Gesù, secondo l’evangelista Giovanni. Egli entra nel Tempio (vi è entrato già al cap. 2 e poi nei capp. 7-8) e vi entra per far uscire i suoi discepoli dagli atri di esso, in quanto simbolo di un’esperienza religiosa che non conduce più alla vita vera. Il pastore viene dunque a condurre fuori le sue pecore e lo fa chiamando ogni pecora per nome. Anche per questa parabola uno squarcio di vita quotidiana: il pastore dà alle pecore dei nomi caratteristici (bocca-di-rosa, orecchi-lunghi, piede-balzano, nerina ecc.); c’è confidenza lui le conosce ed esse conoscono la sua voce (il richiamo con cui invita al cammino le sue pecore separandole dalle altre) come la sposa del Cantico 2,8.10; 5,2; fattele uscire dall’ovile, non le segue, bensì le conduce di persona, facendosi avanti ad esse per proteggerle, indicare la via, avviarle al pascolo buono, ed alle acque buone (cf Sal 22). Le pecore ascoltano e seguono fedeli, come i discepoli debbono stare dietro al Maestro. L’estraneo invece non lo seguono, anzi lo fuggono; come non ricordare il 1° dei comandamenti, Es 20,3; oppure 34,14 ecc. Nella metafora del pastore che si rivolge a ciascuna pecora per nome, l’evangelista Giovanni scorge uno dei fondamenti del discepolato. Se il pastore chiama ciascuna per nome, è perché le conosce tutte in profondità. È questa conoscenza intima del pastore che attrae le pecore e qui sta anche la forza che le spinge alla sequela di lui. Esse costituiscono la sua proprietà speciale o, per dirla con il Primo Testamento, la sua segùllàh. Questo conoscere per nome richiama tanti testi primotestamentari, dove viene messa in risalto la relazione intima che il Signore ha con il suo popolo, con i suoi fedeli. Basti qui richiamare il tenerissimo passo di Is 43,1: «Ora così dice il Signore… “Non temere perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni”».
4 – «ha spinto fuori»: La cura del pastore verso le sue pecore è vigorosa, energica al punto che non le conduce fuori semplicemente, ma addirittura le ‘spinge fuori’. Il verbo greco ekbàllein indica proprio uno ‘scacciare’, sottolineando l’energia con cui egli deve operare per liberarle dal forte legame di schiavitù cui sono sottoposte. È interessante notare che il medesimo verbo è apparso poco prima, quando il cieco nato veniva espulso dalla sinagoga («E lo cacciarono fuori» – Gv 9,34). Alla luce di queste parole sul buon pastore appare chiaro che il cieco nato più che essere stato espulso dalla sinagoga ad opera dei farisei, è stato in realtà liberato da Gesù, perché era uno dei suoi! Non si tratta comunque di leggere il testo in senso antigiudaico, ma di coglierne il significato più universale: Gesù è venuto a liberare l’uomo da ogni forma di vita vecchia, compresa quel modo di vivere la relazione con Dio come una serie di obblighi, di divieti e non come l’esperienza di un amore che sempre ci precede (che è qui alluso nella conoscenza personale che il pastore ha di ciascuna delle sue pecore).
5 – «lo seguono»: Anche qui vi sono allusioni, evocazioni del Primo Testamento. Alcuni esegeti colgono un più stretto riferimento a Nm 27,16-17: «Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore». Gesù è allora il capo messianico che Dio pone come il capofila di una nuova umanità in cammino verso una nuova meta: la vita posseduta in pienezza.
6 Il linguaggio oscuro di Gesù dei primi 5 versetti è chiamato lett. enigma (paroimìa), e annota l’evangelista, essi non lo compresero. Tradotto con parabola, usato normalmente dai sinottici, con parabolê dai Settanta per l’ebraico mašal (cf Pr 1.1; 25,1; ecc.) il discorso contiene molte figure: l’ovile, le pecore, il ladro, il predone, il portinaio, lo straniero, la voce familiare e quella estranea, la porta, l’entrare per essa, uscire con le pecore al seguito, il fuggire l’estraneo, i pascoli che saranno trovati solo con il Pastore Buono. Certo non siamo di fronte ad una parabola vera e propria, perché non vi è reale narrazione, essendo priva di un intreccio e di una soluzione; ma non si tratta neanche di una pura allegoria, perché alcuni elementi non ricevono possibilità di decifrazione (si pensi, ad esempio, alla figura del portinaio). È piuttosto una ‘similitudine’, appunto come dice il v. 6; similitudine in cui emergono alcune metafore portanti. Qui le metafore essenziali sono il pastore, il recinto, la porta e ovviamente le pecore. Il termine adoperato qui dall’evangelista designa un modo di insegnamento simbolico, segreto, che prepara ed esige la rivelazione “aperta”. I discepoli comprenderanno solo dopo che sarà loro donato lo Spirito santo (cf cc. 14-16).
7-10 «Io sono»: la locuzione solenne anche se non è adoperata in modo assoluto, secondo l’uso giovanneo insinua l’essere divino di Gesù [cf Es 3,14; spesso è usata con specificazioni diverse: cfr. Gv 6,35.48.51 (pane); 8,12 (luce); 11,25 (resurrezione e vita); 14,6 (Via, Verità e Vita); 15,15 (vite vera); ecc.]. La formula, come abbiamo ricordato, è usata nel canto dell’alleluia all’evangelo.
«la porta»: (he thùra) con l’articolo, indica la Porta unica, che esclude altri «ingressi» come inganno e violenza. L’immagine della porta come salvezza si trova nel sal 117,20. La porta nel linguaggio biblico non indica soltanto un luogo di passaggio, ma spesso sta a significare la città o il tempio nel suo insieme (cf Sal 87,ls; 122,2). Occorre ricordare che in Oriente le porte della città erano in pratica lo snodo della vita pubblica, una specie di municipio dove si celebravano i principali atti civili e giudiziari. Così ad esempio il matrimonio di Rut con Booz è perfezionato «alla porta della città» (4,1) di Betlemme. Della moglie esemplare cantata dal cap. 31 dei Proverbi si dice che «suo marito è stimato alle porte della città dove siede con gli anziani del paese» (31,23). L’uomo che ha molti figli è dichiarato beato dal Sal 127,5 perché «non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta coi propri nemici». Una delle porte di Gerusalemme è chiamata con il nome di Porta delle Pecore (oggi detta dei Leoni o di S. Stefano) perché attraverso essa il gregge di Dio accedeva al Tempio di Sion per incontrare il suo Signore. Abbiamo già ricordato che nel simbolismo biblico la ‘porta’ indica, a volte, l’intero edifìcio o l’intera città. Se Gesù si definisce come la ‘porta’ non intende qualificarsi quale mero elemento di passaggio, ma anche come lo spazio vitale in cui le pecore possono dimorare, vivere e trovare libertà. «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Gesù è il nuovo Tempio e quindi è anche il nuovo recinto, cioè quello spazio ampio e ubertoso in cui le pecore trovano pascolo. Sono sorprendentemente libere di entrare e libere di uscire, libere di muoversi senza ostacoli. La ragione di questa libertà sta nel fatto che esse hanno ascoltato la voce del pastore, e si realizza per loro quanto Gesù ha detto a proposito della libertà: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Egli offre pertanto alle sue pecore tutto ciò di cui hanno bisogno per avere la vita.
«coloro che sono venuti prima»: qui il riferimento è generico, non si vuole assolutamente alludere ai grandi uomini dell’A.T., come Mose, Davide, ecc. Sono tutti coloro che si sono chiusi alla sua parola e pretendono di essere guide di altri; i farisei che hanno cacciato il cieco guarito ne sono un esempio.
«entrerà ed uscirà»: è un semitismo che con due azioni distali del tutto opposte (cf quando mi alzo e quando mi siedo, ecc.) vuole significare la totalità e qui la totalità dell’esistenza e dell’operare; la sicurezza e la facilità di una vita normale, senza timori nè presenti nè futuri. Non solo, chi usa bene questa “Porta”, trova il pascolo (v. 9bc). Quello che si attendeva il santo salmista: «Dio è il mio Pastore (lett. il pascolante me)» (Sal 22). Pascolo abbondante, pascolo della vita.
«rubare, uccidere distruggere»: si noti il crescendo in questi verbi; rubare sembra più adatto a cose inanimate, come formaggio, burro, lana ecc, prodotti che sono presenti nell’ovile; uccidere le pecore per recare un danno più grave del furto; distruggere, appiccare il fuoco o rovinare anche l’ovile, dopo aver rubato e ucciso.
«uccidere»: il verbo gr. thùse contiene il significato di “fare un sacrifìcio “; il semplice uccidere sarebbe apokteinein. Allusione ai sacerdoti, che sacrificavano? Dagli estranei nemici del gregge santo, ladri ed assassini del gregge si passerà nei vv. seguenti in orribile contrasto con il “Pastore Buono” ai mercenari, avidi e codardi, che non sono pastori. Il mercenario si attende dal gregge solamente il suo vantaggio, ma non si prende cura veramente del gregge come suo. Essi non vogliono avere un gregge proprio, che segni realmente la loro esistenza, infatti al momento del pericolo (il lupo rapace) si pongono in salvo e non si curano che il lupo faccia strage del gregge (v. 12). Una triste profezia che nella Chiesa ha tragiche attuazioni. Tuttavia contro questa cupa visione sta l’irraggiamento della certezza divina: «Io sono venuto affinchè possiedano la vita e la possiedano abbondantemente» (v. 10). L’amore del Figlio per il Padre e per le “sue” pecore non è limitato: è amore infinito. È vita che è da Dio, che è Dio, che è pienezza divina, che è lo Spirito Santo. Dalla croce santa e vivificante, lo Spirito Santo riconsegnato al Padre, dal Padre dal costato trafitto della Bontà del Figlio è stato donato agli uomini (Gv 19,30.34).
Il suo Dono prosegue ancora «oggi qui»:
Antifona alla Comunione
È risorto il buon pastore, che ha dato la vita
per le sue pecorelle, e per il suo gregge
è andato incontro alla morte. Alleluia.
La composizione di testi da Gv 10 si presenta come un breve kèrygma, enunciando i punti essenziali della fede apostolica. Oggi la Chiesa Sposa celebra il suo Signore, il Pastore Risorto, donatosi volontariamente e liberamente alla morte salvifica per il gregge suo (Gv 10,11), disceso perciò dall’Oceano infinito della Divinità beata fino alla degnazione di farsi mortale (Fil 2,6-11). Ma il Pastore Buono è amato dal Padre perché pone la sua vita per le sue pecore e la pone spontaneamente. Tuttavia per la sua stessa Potenza divina se la riprende sovranamente, insieme essendo resuscitato dallo Spirito Santo ma risorto per la sua Divinità (Gv 10,17-18). Il suo Dono prosegue però «oggi qui», concretato in modo mirabile nell’effusione supereffluente dello Spirito Santo, che opera in modo coestensivo e compatto a partire dalla Parola proclamata, proseguendo nella Mensa dei Misteri divini, e terminando nel radunare il «gregge» di Dio, questa Chiesa, la Sposa dell’Agnello immolato e risorto. Di essa il Grande Vescovo e Pastore delle anime è Cristo Gesù. E la Chiesa, la Sposa, la Diletta, l’Orante, nutrita divinamente, è così avviata divinamente verso la Vita, e Vita eterna e abbondante, secondo il Disegno del Padre realizzato nel Figlio Buon Pastore con lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo è l’unico Condottiero divino della Chiesa fino alla fine dei tempi.
II Colletta
O Dio, nostro Padre,
che nel tuo Figlio
ci hai riaperto la porta della salvezza,
infondi in noi la sapienza dello Spirito,
perché fra le insidie del mondo
sappiamo riconoscere la voce di Cristo,
buon pastore,
che ci dona l’abbondanza della vita.
Egli è Dio…
[1] – – È una festa strutturata un pò sul modulo di quella delle Capanne; celebrata nel mese di Chisleu (verso la metà di dicembre) ricordava la riconsacrazione del Tempio da parte di giuda Maccabeo dopo la profanazione ad opera di AntiocoIV Epifane (2 Mac 1,9).
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano