La vita umana è fatta di attese, indice della sua precarietà, della sua collocazione nel tempo che scorre e che muta. Proiettati sempre verso il futuro, noi esseri umani aspettiamo il compiersi di eventi che non sempre, anzi quasi mai, dipendono da noi. Anche come cristiani e discepoli di Cristo aspettiamo, ma ben lungi dall’assurda attesa di un ipotetico Godot, l’attesa del cristiano è fondata e certa poiché annunciata dalla PAROLA: è l’attesa di GESU’ che verrà nella GLORIA.
Per prepararci a quest’ultimo evento, la liturgia ci invita ciclicamente, anno dopo anno, a vivere l’atmosfera dell’attesa. Lo fa all’inizio dell’anno cristiano con l’AVVENTO che ci conduce a fare memoria della SUA PRIMA VENUTA nelle carni di un bambino: LUI fattosi piccolo, povero e straniero. Lo fa al culmine dell’anno cristiano con l’iter quaresimale che prelude alla memoria del più grande evento della storia umana: la SUA MORTE E RESURREZIONE, evento che traghetta la STORIA nell’ETERNO, evento cui LUI ha dato inizio, ma che si deve ancora compiere per l’umanità intera in un’ORA X di cui sappiamo solo il nome: LA PARUSIA.
A partire dalla prossima domenica noi celebriamo e siamo invitati a vivere, ancora una volta nel tempo della Storia, l’attesa del NATALE: è un’altra occasione per fare esperienza della grande speranza di vedere il SUO VOLTO. E la pericope del Vangelo di Marco su cui meditiamo ci mette subito in azione. “State attenti, vegliate, perché non sapete quando arriva il momento decisivo”. I due imperativi iniziali alludono ai compiti delle sentinelle che stanno di guardia per evitare un pericolo. Il pericolo, fuori metafora, di perdere il contatto con il PADRE che ci ama, con il FIGLIO che ci salva, con lo SPIRITO SANTO che ci guida. Come sentinelle dobbiamo tenere gli occhi ben aperti onde cogliere il vero senso della vita e il valore del tempo presente, senza cedere alla tentazione di un sonno che rappresenta la perdita di una vita spirituale e della conseguente capacità di amare. “Vigilare significa badare con amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualche cosa di molto prezioso, farsi presidio di valori importanti che sono delicati e fragili.” (C.M.Martini, Sto alla porta)
Tutta questa attenzione è necessaria per compensare la nostra insipienza, la nostra impossibilità di conoscere il QUANDO. Apparteniamo al tempo e non possiamo dominarlo con la conoscenza: solo il PADRE è l’Onnisciente.
La pericope che stiamo leggendo e meditando conclude il capitolo 13 del Vangelo di Marco, ben noto come “la piccola Apocalisse” dell’evangelista. Si tratta della ricostruzione di più detti di Gesù in un unico discorso di risposta alla domanda che assillava quattro dei discepoli, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea, come assilla da sempre i credenti: QUANDO avverrà la fine di tutto? Di fronte a tanta impazienza escatologica il capitolo di Marco si snoda nel racconto di eventi storici (la caduta di Gerusalemme dell’anno 70), di annunci e ammonimenti profetici, di momenti “penultimi”, di catastrofi cosmiche e della venuta del FIGLIO DELL’UOMO in grande potenza e gloria; non mancano due brevi parabole e infine, dopo che Gesù proclama “I cieli e la terra passeranno, ma le mie Parole non passeranno”, il grande discorso si chiude con l’esortazione più volte ripetuta a vigilare, proprio in ragione di quella impossibilità umana di dominare il tempo.
Dominare no, ma utilizzare sì. È proprio questo il senso dell’attesa: l’utilizzo del tempo presente, l’impiego delle ore e dei giorni, l’impegno di tutta la vita sempre in vista dell’incontro con il Re Pastore, giudice misericordioso che ci aprirà le porte del Regno. E’ qui, nella quotidianità di questo nostro tempo umano che siamo chiamati a mettere a frutto quell’immagine di Dio che è in ogni IO e che si esprime in capacità di amare, in ogni TU, quel LUI che ci ama tutti.
C’è un’efficace se pur breve parabola nel nostro brano che trova facile riscontro in altre parabole di Matteo (23,47; 25,14) e di Luca (12,35) e chiarisce il senso dell’attesa: un padrone di casa parte e affida tutto, o, se si preferisce, lascia il potere ai servi, assegnando a ciascuno il proprio compito e al portiere quello di vigilare. È sottinteso che egli ritornerà, ma non è possibile ai servi sapere il momento del suo ritorno: “o alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino” (allusioni a momenti della sua passione quali il tradimento di Giuda, la condanna da parte del Sinedrio, il rinnegamento di Pietro, la consegna a Pilato). Non resta quindi che seguire il comandamento del “vigilare “o, per dire meglio, del servire, ciascuno nel proprio ruolo, secondo il compito a lui confacente. Nell’assenza del padrone tutto è affidato alla responsabilità attiva dei servi. Ma chi è il “portiere” che deve stare sveglio? E’ figura del discepolo per eccellenza? O del successore di Pietro? O della Chiesa come guida dei credenti?
Appare evidente che il discorso di Gesù è rivolto ai suoi seguaci, discepoli e Christi fideles, che sono esortati ad impegnare la propria esistenza seguendo il suo esempio. Non possiamo però non notare che Gesù conclude con “quello che dico a voi, lo dico a tutti: vigilate!” Possiamo dedurne due considerazioni: innanzitutto che Gesù non esclude nessuno dall’attesa del suo ritorno glorioso. Come la salvezza ch’Egli è venuto a portare è per tutti, anche il condurre una vita attiva, impegnata nella custodia dei beni terreni e non indifferente ai problemi e alle sofferenze degli altri appartiene a tutti, poiché è innato nell’umano che è in ogni uomo. In secondo luogo, possiamo anche in umiltà dedurre che credenti, discepoli e Christi fideles, non siamo diversi dagli altri, né possiamo vantare privilegi di sorta, se non la Grazia di poter conoscere attraverso la Parola il Cristo Redentore e di poter avere in lui l’esempio di un’umanità perfetta.
Questo ci chiama in sostanza ad una responsabilità consapevole dell’uso per ciascuno del breve segmento della propria esistenza terrena, proprio perché, come tutti, non sappiamo né quando essa finirà né quando finirà il tempo della Storia universale. “Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri” (I Ts 5,6).
Il problema è la nostra debolezza, la nostra facilità a cedere alle lusinghe del mondo, alle passioni che stravolgono pensieri e sentimenti retti. A questo punto ci possono venire incontro l’appartenenza alla Chiesa, ad una Comunità, la preghiera e la custodia di fratelli e sorelle in Cristo, la possibilità di mettere insieme le nostre debolezze per fare insieme un cammino di fede e coltivare la speranza nella Misericordia di quel Dio fattosi bambino per condividere fin dalla nascita le nostre povertà.
Commento a cura di Vanna
Fonte: Comunità Kairos (Palermo)
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