DOMENICA «DELLA VENUTA DEL FIGLIO DELL’UOMO»
In questa pagina Gesù non vuole impaurirci, anzi vuol dare un significato reale a tutte le tragedie umane. C’insegna una speranza che, nel tempo stesso in cui ci fa contemplare, ammirare e desiderare la «gloria» dei cieli, ci fa anche «vegliare»: non agire alla cieca, non vivere alla giornata, non sbarcare il lunario nella «dissipazione» o nell’irriflessione, ma vedere al fondo delle cose, rendere possibile col nostro impegno la giustizia di Dio già in questa vita, liberandoci dalla superficialità, dal non-senso e dalla fatalità, impedendo alle preoccupazioni di questa vita di condizionare la nostra esistenza.
Gesù Cristo. È lui che deve venire. Ciò che attendiamo non è prima di tutto un’organizzazione, un’istituzione, uno stato di cose: è la sua presenza sovrana, che costringerà ogni elemento del mondo ed ogni essere vivente a collocarsi di nuovo nell’ordine della giustizia e dell’amore. Per servirci di immagini bibliche, tutto questo verrà compiuto dallo sguardo fiammeggiante dei suoi occhi, dal soffio della sua bocca, dal gesto della sua mano — «in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3,21). Alla sua venuta, il mondo sarà totalmente trasformato e ci sarà una nuova creazione. E chi conoscerà il suo volto, lo vedrà riflettersi in tutti i frammenti dell’universo che starà rinascendo. Per questo il credente non deve soffermarsi troppo sullo scenario apocalittico che accompagnerà il ritorno del Cristo: «Perciò non temiamo se trema la terra, se crollano i monti nel fondo del mare. Fremano, si gonfino le sue acque, tremino i monti per i suoi flutti» (Sa 46,3-4). Ciò che conta è soltanto il volto del Signore, che i credenti cercano di scorgere libero da ogni velo. Il resto, dopo tutto, non sarà che l’inevitabile eliminazione di ciò che lo nasconde
La prima comunità cristiana ha vissuto innanzitutto la tensione fra due venute del Signore: quella del suo ministero terreno e quella del suo avvento alla fine dei tempi. In vista della parusia del figlio dell’uomo, ritenuta imminente, bisognava radicarsi fermamente in una santità irreprensibile. Ma i cristiani a cui si rivolge Luca cominciano a manifestare una nuova presa di coscienza. La venuta del Signore non viene più collocata in un imprevedibile futuro: per loro, egli è già presente, nell’oggi degli uomini e della salvezza. E in ogni momento può sopraggiungere all’improvviso, per giudicare, in quell’istantanea della vita che è la morte, l’orientamento dell’esistenza umana. L’atteggiamento che si impone allora ai fedeli è quello di una continua vigilanza: essere pronti a tutto, rifiutando le cattive azioni che si commettono nelle tenebre; rimanere desti, grazie a una preghiera incessante. Come l’eucaristia ha lo scopo di annunciare la morte del Signore «finché egli venga» (1Cor 11,26), così la vigilanza e la preghiera affrettano l’avvento del regno di Dio. Fin d’ora esse ci rialzano e ci fanno levare il capo, permettendoci di dare un nome all’attesa degli uomini. Fino al giorno in cui la corrente dell’avvento divino ci condurrà in maniera definitiva davanti al figlio dell’uomo.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 24,1-3
A te, Signore, elèvo l’anima mia,
Dio mio, in te confido: che io non sia confuso.
Non trionfino su di me i miei nemici.
Chiunque spera in te non resti deluso.
Il salmo 24 «Ad Te levavi animam meam», è la celebre Antifona che inaugura la celebrazione eucaristica dell’Avvento, dell’anno liturgico, di tutto l’anno, in oblazione ininterrotta. Per questo motivo il Salmo 24 è chiamato “tromba d’Avvento. In questo salmo alfabetico (la prima parola di ogni versetto inizia con una lettera diversa, seguendo l’ordine alfabetico ebraico) le caratteristiche dominanti sono quelle di una supplica individuale (vv. 1-3.6-7.16-22) e di fiducia nell’aiuto divino (vv. 12-15). Il salmista sà che Dio è più grande del suo peccato e da Lui può venire l’istruzione salutare che lo porterà a ritrovare il giusto cammino (vv. 4.5.8.9).
Nel v. 1b l’Orante fedele che si sa amato fa anamnesi della sua offerta, quella dell’anima, che è la vita intera, nell’irreversibilità, al Dio dell’alleanza. «Dio mio» infatti implica e consegue che già il Signore abbia pronunciato l’offerta d’alleanza: «Figlio mio, popolo mio», ed implica la formula completa: «Io sono il Signore Dio tuo – tu sei il figlio mio, il popolo mio», con l’accettazione «Tu sei il Signore Dio nostro – noi siamo figli tuoi, il popolo tuo»; formula battesimale, che è di continuo pregata nel «Padre nostro». Nel Signore dell’alleanza fedele l’Orante può solo avere fiducia, come riafferma nell’«io di certo non sarò confuso» (v. 2a), perché la grazia dell’alleanza è perenne e contro essa nulla possono neppure i nemici della fede e della vita di fede (v. 2b). La fiducia è riaffermata con forza nell’enunciato che non possono essere confusi, né delusi, quanti si trovano nella sola condizione di fede vivibile, che è attendere il Signore che viene, tesi a Lui, confidando solo in Lui, nella coscienza che solo il Signore è «Colui che viene» per amore nella gioia del compimento del suo Disegno (v. 3a). L’Orante non è solo uno, singolo, è tutto il popolo. L’io del Salmista è l’anima di tutto il popolo santo del Signore Vivente e Veniente. Questo va tenuto presente adesso e sempre.
Canto all’Evangelo Sal 84,8
Alleluia, alleluia.
Mostraci, Signore, la tua misericordia
e donaci la tua salvezza.
Alleluia.
Il canto all’evangelo tratto dal sal 84 è un preludio splendido alla proclamazione evangelica che parla della Venuta del Signore che è sempre presenza operante per il suo popolo. Al popolo radunato in comunione intorno al Veniente infatti sempre il Signore opera la misericordia-amore che qui oggi è la sua Parola benefica e favorevole.
Il tempo di Avvento apre subito ai credenti il tesoro inestimabile che è l’opera della salvezza compiuta da Cristo e al quale la Chiesa attinge durante tutto il corso dell’Anno liturgico. L’Evangelo apre «oggi qui» a un episodio della vita del Signore Risorto, che introduce così e sempre al suo Mistero integrale di grazia dello Spirito Santo. L’Anno liturgico, che è propriamente l’Anno della divina Grazia, si apre, e si chiude, con la visione grandiosa e terribile del «Signore che viene» all’ultimo dei tempi, «il Costituito da Dio quale Giudice dei viventi e dei morti» (At 10,42b). Il Signore viene e chi lo attende, non conoscendo l’ora della sua visita, deve vegliare, pregare e discernere i segni che annunziano una liberazione vicina e definitiva.
La prima domenica di Avvento propone come brano evangelico una pericope tratta dal discorso escatologico contenuto in ciascuno dei tre sinottici. Il primo Evangelo proclamato nell’Anno della grazia che si inizia adesso (il ciclo liturgico C propone l’evangelo di Luca) è l’annuncio solenne della Fine e del Fine.
È la ricapitolazione di tutto il Disegno divino, che, preannunziato come germoglio di Davide e diligente realizzatore (in maniera autentica) della giustizia di Dio (cf I lett), adesso si manifesta in tutta la sua immensità: il Figlio dell’uomo risorto viene. Noi che lo abbiamo conosciuto e siamo già stati formati nelle sue vie, restiamo ancora desiderosi di crescere e abbondare nell’amore. (II lett.); per questo “a te Signore innalzo l’anima mia, in te confido” (cf Salmo resp.).
La pericope di oggi fa parte del «discorso escatologico»; la scelta è di due blocchi: i vv. 25-28, «il Figlio dell’uomo viene, ed i suoi “segni”» terribili, e i vv. 34-36: «vigilate e pregate!».
Il discorso escatologico di Gesù, nei sinottici (Cfr. Mt 24,1-51; Mc 13,1-37; Lc 21,5-36), è l’ultimo del suo ministero pubblico ed è una delle pagine più ardue dell’evangelo sia per l’argomento trattato, per se stesso difficile, sia per le sue caratteristiche letterarie, che esigono in particolare la conoscenza del linguaggio apocalittico giudaico. A queste si aggiungono le difficoltà provenienti dal confronto fra le tre diverse redazioni.
Del testo di Luca (21,5-36), chiamato la «grande apocalisse lucana», la liturgia ne utilizza poco meno della metà (un’altra parte, Lc 21,5-19, sarà proclamata la XXXIII Dom. Tempo Ord. C). Le ragioni per le quali il testo di Luca si differenzia notevolmente dal testo di Marco (da cui dipende Matteo) sembrano essere:
- sicuramente la scena del discorso, che è uno dei cortili del tempio e dagli ascoltatori di Gesù, che si rivolge non ai suoi discepoli, ma ad alcuni anonimi (21,5).
- il fatto che Luca ha già utilizzato una parte del materiale di Marco in 17,20-37 (brano detto da alcuni «la piccola apocalisse lucana»);
- il fatto che il terzo evangelo fu probabilmente composto quando la distruzione di Gerusalemme era già avvenuta (29 agosto 70 C).
Quest’ultima ragione ha indotto l’evangelista a distinguere più chiaramente degli altri tra la fine di Gerusalemme ormai avvenuta e gli avvenimenti futuri, conclusivi della storia umana.
Il terzo evangelista segue da vicino Marco 13,1ss; tuttavia all’occasione sopprime o aggiunge, sposta o ritocca alcuni elementi del discorso. Secondo alcuni autori l’apporto principale e tipico di Luca sta nei vv. 20-24; quanto all’argomento principale del discorso è noto che gli esegeti si schierano su tre posizioni principali pur con numerose sfumature:
- C’è chi ritiene che il discorso si riferisca soltanto alla fine del mondo;
- chi lo interpreta soltanto in funzione della fine di Gerusalemme e della catastrofe del tempio nell’anno 70;
- chi vi vede insieme trattati i due argomenti, distintamente o ad incastro.
Lo schema di fondo del discorso escatologico è il seguente:
- una questione introduttiva (vv. 5-7);
- segue l’indicazione di due segni premonitori della fine: il primo è la presenza dei falsi profeti e delle guerre (vv. 8-11), il secondo è la persecuzione dei discepoli (vv. 12-19);
- continua con la descrizione-profezia di due avvenimenti: il primo è la rovina di Gerusalemme (vv. 20-24), il secondo è la fine del mondo (vv. 25-28);
- infine, viene la risposta alla questione del quando (vv. 29-36).
Comunque sia, la liturgia ci indirizza verso la venuta del Figlio dell’uomo come centro del discorso escatologico. Posto prima del racconto della passione di Gesù, trova in essa la sua realizzazione; il segno della Croce illumina tutta la storia. Ma quando e come viene a noi? L’Evangelo ce lo rivela, insegnandoci innanzitutto che viene e verrà allo stesso modo in cui è venuto nella carne del Figlio dell’uomo.
I Padri ci ricordano che tre sono le venute del Signore:
- quella passata, che si compie nel suo cammino di morte e resurrezione;
- quella presente, che si attua nel nostro essere associati al suo mistero;
- quella futura, anticipata per ciascuno nella morte ed estesa a tutti alla fine del mondo.
Se a noi preme soprattutto quest’ultima, il Signore ci ricorda che essa si prepara e realizza al presente, vivendo qui e ora la sua stessa storia. Il suo avvento quindi non è da restringere al tempo finale: dà invece ad ogni tempo il suo valore definitivo, associandolo al mistero del Figlio dell’uomo. La sua venuta passata determina la nostra fede; quella futura la nostra speranza, quella presente la nostra carità.
Per l’intelligenza delle cose è più importante il passato; per la volontà il futuro. Ma ambedue hanno la loro realtà nel presente, in cui si congiungono dando significato e senso all’azione umana.
Il brano liturgico è costruito su un contrappunto: da una parte i grandi sconvolgimenti cosmici e gli uomini che muoiono della loro paura di morire; dall’altra la parola del Signore che dà fiducia e garantisce che proprio qui avviene la nostra liberazione.
La venuta del Figlio dell’uomo non è qualcosa di tremendo. È il compimento di ogni desiderio: l’incontro con il Signore. Per questo Paolo scrive che «vivere è Cristo e il morire un guadagno» ed è combattuto dal desiderio di «essere sciolto dal corpo per essere con Cristo» (Fil 1,21-24). Gli sconvolgimenti cosmici e la nostra stessa morte, sono eventi naturali. Il loro carattere tragico è dovuto al nostro peccato, che ce li fà leggere con gli occhiali della nostra paura e agire di conseguenza. Il credente, libero dalla paura di chi può uccidere il corpo, vive con serenità la sequela del suo Signore.
Esaminiamo il brano
25 – «E vi saranno…»: anche gli ultimi tempi saranno preceduti da alcuni segni premonitori; inoltre Luca omette l’espressione di Mc 13,24 “in quei giorni“, per non lasciare credere che la fine del mondo venga subito dopo la rovina di Gerusalemme (Cfr. XXXIII Dom. Tempo Ord. B).
I segni cosmici sono collegati con un semplice «e» ai mali storici accaduti; sono quindi in continuità e vanno letti allo stesso modo, ossia come avvenimenti del cammino della storia. L’attenzione di Luca è più concentrata sulla vicenda umana che su questi segni cosmici, visti come semplice cornice esterna e rivelatori di uno sconvolgimento interiore ben più grave: le paure dell’uomo.
Il linguaggio usato dall’evangelista può suonare stonato per la nostra mentalità, perché il discorso si colora di tratti apocalittici. Il termine “apocalittico” indica la rivelazione (dal greco apokalytein: togliere il velo) del giudizio divino, del mistero di Gesù. Questo linguaggio particolare è utilizzato spesso nella rivelazione di segreti riguardanti la fine dei tempi e il corso della storia. Poiché la descrizione è spesso affidata ad un linguaggio cifrato ricco di visioni e di simboli, talora anche terrificanti, per molti il termine “apocalittico” è sinonimo di “catastrofico“. L’equivalenza è sommaria e spesso impropria, «segni nel sole, nella luna e nelle stelle»: sono l’orologio cosmico, che segna il tempo dell’uomo. Tutto si rompe e si arresta perché è finito il tempo dell’uomo ed è iniziato l’oggi di Dio. Ciò avviene nella morte di Gesù (23,44): il sole viene meno quando si entra nel regno di luce che non ha più bisogno del sole perché è il Signore Dio che illumina tutto (Cfr. Ap 22,5, la lettura anno II di sabato XXXIV sett.).
L’accenno agli sconvolgimenti cosmici come alle guerre sono pezzi d’obbligo negli annunci profetici e rappresentano le immagini più catastrofiche che la fantasia dell’uomo antico aveva a disposizione.
«sulla terra angoscia di popoli in ansia»: spaventati o senza scampo portano invece altre traduzioni; stretto dal vuoto e posseduto dall’angoscia, cade nel nulla. È la condizione di chi non conosce la paternità di Dio e ignora di venire da lui e di tornare da lui.
«per il fragore del mare e dei flutti»: (dal Sal 68,5) Tutta la creazione, divorata dalle tenebre, regredisce nel caos. Essa, non per sua colpa, è stata sottomessa a caducità per volere dell’uomo che, con il suo peccato, l’ha sottomessa al vuoto. Come canta la gloria di Dio (Sal 19), così piange il peccato dell’uomo; anch’essa geme e soffre in attesa che noi torniamo ad essere figli (Cfr. Rm 8,19-22).
26 – «gli uomini moriranno per la paura e l’attesa…»: La reazione davanti al Figlio dell’uomo che viene è la stessa di Adamo al rumore dei passi di Dio nel giardino. L’uomo teme la sua Vita come la propria morte.
«le potenze dei cieli saranno sconvolte»: con la citazione del Sal 65,8 prima e ora di Is 34,4 Luca mette in forte rilievo la dimensione universalistica e cosmica del conflitto finale, quella del v. 28. Le tinte fosche di questo evento, inoltre, sembrano aggravarsi ancora di più per l’eliminazione dell’accenno di Mc 13,27 (e Mt 24,31) dell’adunanza dei suoi eletti.
27 – «e allora vedranno»: ecco una luce viene a dissolvere le tenebre e squarcia l’angoscia della previsione. Questa luce è la «theoria» della croce, che tra pochi giorni tutte le folle vedranno (23,48): è il segno del «Figlio dell’uomo» (Mt 24,30, testo parallelo), che rivela sulla terra la qualità e la purezza dell’amore di Dio per noi.
«vedranno» (= non vedrete?) non riusciamo a capire se si vuole indicare l’esclusione dei presenti; sicuramente, con una lettura spirituale, coloro che vedranno sono quelli che riconosceranno il Figlio dell’uomo in Gesù crocifisso.
Da notare: i tempi della gran parte dei verbi sin qui utilizzati erano tutti al futuro; il futuro è la forma verbale utilizzata per esprimere la volontà e la possibilità: spesso denota sicurezza e fiducia nel realizzarsi dell’azione indicata.
«Figlio dell’uomo»: è un’espressione secondo una citazione del libro di Daniele, opera dal linguaggio apocalittico del II sec. a. C. Gesù è spesso chiamato negli evangeli con questo titolo (Cfr. ad es. Mc 2,10; 8,38), che era stato caro nel VI sec. A. C. al profeta Ezechiele che lo utilizzava come sinonimo (Ez 2,1.3.6.8; 3,1. ecc. ). “Figlio dell’uomo” significa, di per sé, semplicemente “uomo”. Tuttavia nel citato libro di Daniele una figura misteriosa descritta come «simile a un figlio d’uomo» viene presentata a Dio «che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno che non tramonta mai e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto» (7,13-14). Probabilmente Daniele intendeva concentrare in questo personaggio “i santi dell’Altissimo”, cioè gli ebrei fedeli e perseguitati dal potere siro-greco del suo tempo, facendoli diventare il popolo messianico, investito di autorità da parte di Dio. La tradizione giudaica successiva aveva attribuito a tale termine un significato personale messianico: la figura del Messia risultava dotata di qualità altissime, superiori a quelle che comportava il titolo “Figlio di Davide”, divenendo quasi partecipe della sfera di Dio. È per questo che Gesù l’assume per se sollevando scandalo nei suoi uditori soprattutto in occasione del suo processo (Cfr. Mt 26,64).
28 – «alzatevi… levate il capo… la liberazione è vicina»: Ecco il tocco finale, veramente magistrale dell’evangelista Luca: i tempi finali non saranno solo preceduti da grossi disastri, ma saranno caratterizzati soprattutto dal dono della liberazione totale. Influenza paolina? Certo il termine greco apolýtrōsis (redenzione, riscatto; solo qui in Luca) è tipicamente paolino.
«alzatevi»: San Giovanni vide in visione Gesù, Agnello immolato come perennemente di fronte al padre in offerta; egli dice: «vidi in mezzo al trono, ritto in piedi e come immolato, l’agnello» (Ap 5,6). Gesù-sacerdote, che offre se stesso al Padre, nell’atto di offerta è in piedi. Tutti i Sacerdoti sia pagani che ebrei offrivano i sacrifici in piedi, posizione eminentemente sacerdotale. Lo stare in piedi è la posizione sacerdotale per eccellenza; ogni cristiano infatti, in forza del Battesimo, è deputato al culto divino, e perché unificato a Cristo, partecipa del Suo Sacerdozio regale.
Stare in piedi durante la celebrazione eucaristica vuol significare, dunque, che crediamo fortemente di essere figli di Dio, rialzati dal peccato, risorti in Cristo (Cfr. 13,10-17, guarigione della donna curva, in giorno di sabato). L’umanità radunata nella dimora santa di Dio eleverà, ritta, un canto di gloria e di ringraziamento: il canto pasquale, della liberazione dal peccato e dalla morte (Ap 15,2-4). La forma verbale è all’imperativo aoristo: è l’inizio di un’azione nuova.
34 – «State bene attenti»: (= attenti, vigilate, ponete mente) un altro imperativo che serve a risvegliare l’attenzione; un modo energico per sottolineare l’importanza di ciò che sarà detto.
I vv. 34-36 sono di carattere squisitamente lucano e non hanno paralleli.
Anche la «piccola apocalisse» (17,22-37) conteneva un forte, quasi martellante invito alla vigilanza; qui, oltre al pericolo dì essere trovati impreparati, si sottolinea quello di lasciarsi travolgere nella crapula, nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni della vita (Cfr. 3,14).
Ricordiamo il programma del ricco stolto: riposa, mangia, bevi e godi (12,19); il peccato del servo posto ad amministrare i beni del padrone («Ma se quel servo dicesse in cuor suo: Il padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi» 12,45).
Il richiamo alla vigilanza comporta un esame critico del tempo nel quale si vive; presenza critica nel vissuto sociale nel quale si opera; discernimento critico delle proposte di salvezza che vengono da altre sponde.
Per prepararsi all’incontro col Signore occorre tenersi in un atteggiamento di purezza interiore ed esteriore senza indulgere alle seduzioni del maligno e del mondo. Luca illustra analiticamente quanto appesantisce il cuore e spegne la speranza:
«dissipazioni»: in greco kraipálē richiama letteralmente gli eccessi del bere che ossono essere estesi a tutte le forme di esasperazione nel consumo dei beni (crapule) e nella ricerca di stati di vertigine e di coscienza alterata.
«ubriachezza»: il greco méthē è un sinonimo che indica l’ubriachezza e ribadisce il pericolo di una vita dissipata.
«affanni della vita»: il termine mérimna ricorre già prima in Lc 12,22-31 ed indica quella sicurezza materiale della vita che offuscò la fede del ricco che per questo divenne stolto. Nella Divina Liturgia bizantina abbiamo la preghiera dell’inno Cherubico mentre si prepara il Grande ingresso e si portano le offerte all’altare e si canta così: Noi che misticamente raffiguriamo i Cherubini, e alla Trinità vivificante cantiamo l’inno trisagio, deponiamo ogni mondana preoccupazione (mérimnan).
Ricordiamo l’invito di Gesù a conservare la fiducia nella cura provvidente di Dio; le preoccupazioni mondane possono addirittura soffocare la Parola della predicazione («Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione» Lc 8,14) e diventare un’agitazione quasi incontrollabile come lo è l’affaccendarsi di Marta che dimentica quello che è davvero essenziale (Lc 10,38-42).
La vita del credente è dunque vita assennata frutto di un continuo discernimento e di un sincero controllo su ciò che c’è veramente nel proprio cuore per non cadere in una esistenza dissoluta o in una vita affannata e preoccupata, perché priva di fiducia in Dio.
«quel giorno»: non si tratta di una parola generica, infatti è accompagnata da un aggettivo dimostrativo, “quel giorno”. Si tratta di un’espressione non cronologica ma teologica. Era stato un profeta a coniarla, il contadino Amos che nell’VIII sec. a. C. era stato scagliato dalla Parola di Dio dalla custodia dei suoi alberi di sicomoro e delle sue mandrie nella capitale del regno settentrionale, Samaria, a proclamare il giudizio inesorabile di Dio sulle scandalose ingiustizie perpetrate dalle alte classi politiche e finanziarie.
Ebbene, egli aveva dipinto il giudizio divino come il sorgere di un «giorno del Signore» (in ebraico jom-Jhwh), «giorno di tenebre e non di luce». Il profeta l’aveva raffigurato nel suo procedere implacabile con una scenetta mobilissima e pittoresca, desunta dalla vita nella steppa (leggi 5,18-20). Si può pure sfuggire a un leone, ma ecco pararsi di fronte un orso. Si può scansare anche questa belva, correndo a perdifiato verso la propria casa ben protetta. Ancora ansimanti, ci si appoggia con una mano alla parete ed ecco una vipera ti si attorciglia e ti morde. La giustizia divina non conosce patteggiamenti, compromessi, corruzioni. Il «giorno del Signore», «quel giorno» per eccellenza, diventa, quindi, il simbolo dell’intervento divino nella sgangherata storia dell’umanità; così da portarvi salvezza per il giusto ma anche condanna per l’arroganza dell’empio.
35 – «come un laccio»: Un richiamo a Is 24,17-23 che descrive il giudizio di Dio. L’immagine simbolica è quella del laccio terribile che i cacciatori dispongono per la povera selvaggina incauta, impreparata, che vi cade senza scampo; il laccio è la morte per la preda. L’immagine del laccio è frequente nella Bibbia (Cfr. Qo 9,12; Ez 21,29; Gb 18,9; e molte volte nei Salmi come ad es. 38,13; 91,3; 116,3; 124,7; 141,9; ecc.).
«tutti»: il vocabolo pâs voce cara a Luca, tipica del suo stile, usata nell’Evangelo 152 volte + 170 in Atti (Mt 128; Mc 67; Gv 63), indica: ogni, tutto intero, senza eccezione.
«sulla faccia della terra»: ebraismo per indicare tutta la regione di cui si parla.
36 – «Vegliate»: l’imp. presente del verbo agrypnéō ordina di continuare un’azione già iniziata; il vocabolo può indicare sia il dormire all’aperto, sempre attento ai rumori insidiosi della notte (ad es. i pastori o una madre che veglia sul sonno del figlioletto), sia l’inutile tentativo di acchiappare sonno di chi è insonne. I discepoli nell’episodio della trasfigurazione vegliarono e nell’orto dormiranno. La veglia e il sonno fanno la differenza tra il Tabor e il Getsemani.
«e pregate»: la vigilanza permetterà di trovare il tempo per la preghiera, d’altro canto l’assiduità alla preghiera ci tiene sempre più vigili (22,40.46) e ci fa ottenere il bene (Cfr. 18,1).
«in ogni momento»: la versione greca utilizza il vocabolo Kairòs, che in genere non è usato per indicare un tempo qualsiasi. La Bibbia greca infatti ha tre vocaboli per indicare il tempo: Kairòs, Chrònos e Aiòn.
Il Kairòs è il momento decisivo, il momento opportuno per prendere risoluzioni; richiede enormi responsabilità. Nel N.T. è il tempo segnato dall’apparizione e dai gesti di Gesù. Chrònos nel N.T. indica un periodo, uno spazio di tempo, un’epoca; è dunque una parte di tempo stabilita da Dio riguardo la sua durata e qualità. Sono partì del suo progetto salvifico.
Aiòn ha più significati nel N.T.:
- una durata immensamente lunga, ma finita;
- l’eternità di Dio, il quale è re degli aìon;
- questo aìon e l’altro aìon, nel senso di voler indicare due tempi diversi fra loro (ad es. il tempo presente segnato dal peccato e il tempo futuro segnato dalla grazia).
Nel nostro contesto l’evangelista vuole dirci che nessun momento è neutro; ogni istante è gravido di futuro; ogni momento è l’ultima opportunità dataci da Dio, in cui ci giochiamo la fedeltà e la testimonianza a Lui.
«abbiate la forza»: non da soli possiamo salvarci e sfuggire così a tutto quello che sta per accadere, ma solo con quella forza che è dono di Dio. La fede in Gesù Risorto, che si manifesta nell’Ascolto della sua Parola e nella comunione al banchetto eucaristico e nell’amore dei fratelli, ci dona la forza di Dio che ci accompagna nel nostro cammino con quelli che sono i nostri impegni e le scelte di ogni giorno (personali, familiari, professionali, sociali, ecc.). Questa vita in Cristo ci fa sfuggire realmente all’angoscia del futuro e della morte con l’ansia del presente che si scioglie nell’emozione dell’attesa.
II Colletta:
Padre Santo,
che mantieni nei secoli le tue promesse,
rialza il capo dell’umanità oppressa da tanti mali
e apri i nostri cuori alla speranza,
perché sappiamo attendere senza turbamento
il ritorno glorioso del Cristo giudice e salvatore.
Egli è Dio…
La fedeltà di Dio Padre sostiene la nostra fede ed alimenta la nostra speranza di partecipare della stessa sorte del Figlio suo divinizzato nella sua umanità; per questo Lo attendiamo senza turbamento ed amiamo le realtà celesti a cui siamo destinati e aderiamo ad esse con fedeltà già da adesso.