Domenica «delle Palme e della Passione del signore»
Evangelo della processione: Mc 11,1-11
Data l’importanza che rivestono per la vita cristiana il Triduo pasquale e il tempo della Quaresima è naturale che i pastori e i collaboratori della pastorale dedichino grande impegno alla preparazione di questo periodo forte dell’anno liturgico, affinché le varie celebrazioni che in esso hanno luogo producano i frutti che ci si attende da esse. In questo periodo di pandemia ovunque vengono preparate e organizzate celebrazioni secondo le disposizioni della CEI. Personalmente spero si sfruttino tutte le possibilità per ricordare ai fedeli l’impegno della loro fede battesimale.
Queste brevi note vogliono offrire degli spunti di riflessione e piccole indicazioni teologiche pastorali non solo per preparare e realizzare al meglio le celebrazioni della Grande Settimana, anche per questo secondo anno costrette ancora in forme ridotte, ma viverle nella solennità e la ricchezza spirituale che costituiscono la loro feconda bellezza e gioia che nessuna pandemia può toglierci!
Le omelie della Settimana Santa
In primo luogo un paradosso: questi giorni, in cui si compiono le celebrazioni culminanti della fede cristiana, non sono sempre i giorni nei quali si ottiene una predicazione più attenta. Forse ad eccezione del giorno liturgicamente più secondario: il Giovedì Santo. Invece, la domenica delle Palme (per la lunga lettura della passione e preoccupati per la processione), il Venerdì Santo (una celebrazione che spesso non sappiamo situare nel suo autentico significato), la Veglia pasquale (preoccupati che non sia troppo lunga), o il giorno di Pasqua (forse perché sembra che la gente «migliore» sia già venuta la sera), molti di noi, responsabili della predicazione, non le dedichiamo quel massimo di attenzione che sarebbe opportuno.
- Questa potrebbe essere la prima conclusione: come altri elementi delle celebrazioni di questi giorni, che vengono preparati attentamente, anche la predicazione merita un’attenzione speciale. E forse converrebbe leggere le omelie (o, per lo meno, seguire uno schema scritto).
- In secondo luogo, l’eccezionalità dell’omelia in queste celebrazioni non significa che debba essere considerata come un elemento a parte da ogni celebrazione. È una tentazione facile nei predicatori: dimenticare che è proprio nei giorni più importanti che l’omelia deve essere più al servizio e all’interno di tutta la celebrazione.
- In terzo luogo, nel cercare quel che dev’essere la punta di lancia nella predicazione di questi giorni, dobbiamo sforzarci più che mai di presentare il cuore della fede cristiana che batte nel cuore della vita dei cristiani di oggi. Non possiamo neanche pensare che la fedeltà al «memoriale» che celebriamo ci permetta di evadere dalla realtà umana attuale, né che questa si illumini cristianamente allontanandoci da ciò che costituisce la radice della nostra fede. Dovremmo capire l’ignaziano «come se mi trovassi presente» nel suo significato più profondo: la realtà di allora e quella odierna confluiscono in una sola e unica realtà.
- In quarto luogo, la predicazione di questi giorni ha bisogno e si nutre più che mai di una sintonia personale con Gesù Cristo. E indispensabile un tempo esteso di lettura di tutti i testi eucologici e biblici (e, particolarmente, di un evangelo che non possiamo mai pensare di conoscere già), di contemplazione, di lasciarci penetrare dallo Spirito di Dio, di aprirci alle domande che il nostro servizio oggi pone. Riassumendo, deve essere più che mai una predicazione «in spirito e in verità».
Il «punctum saliens» di ogni giorno: molto brevemente, e per facilitare questa preparazione coerente, proponiamo le caratteristiche di ogni giorno (cf anche Direttorio omiletico, della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Libreria Editrice Vaticana, 2015) .
Domenica delle Palme o di Passione
Una celebrazione in passato molto frequentata, oggi molta gente forse non verrà e per varie ragioni ancora meno parteciperanno al triduo pasquale. L’omelia di oggi deve indicare il significato globale delle celebrazioni di questi giorni: seguire e rivivere oggi il cammino di Gesù Cristo dalla passione fino alla risurrezione. È Gesù che entra, Messia del regno, nel momento culminante del suo cammino. Il significato della Pasqua è già presente oggi, come lo sarà con diverse accentuazioni in ogni celebrazione. Converrà sottolineare che Gesù Cristo è colui che ci conduce verso il regno e noi vogliamo sforzarci di seguirlo lungo questo cammino, pieni di speranza.
Giovedì Santo
Una celebrazione particolarmente toccante ma che può isolarsi facilmente dalla dinamica del triduo pasquale. Bisogna segnalare che essa ha una certa aria di preparazione, che anticipa già alcuni aspetti della celebrazione pasquale, ma che non può nascondere che si giunge alla risurrezione solo passando per la croce. Tutti gli aspetti della celebrazione di oggi — in primo luogo e fondamentalmente il memoriale della Cena del Signore; ma anche gli aspetti di amore, servizio, comunità, ministero… — solo se si legano alla celebrazione pasquale acquisiscono il loro significato più profondo. Oggi non è — fondamentalmente — la «giornata dell’amore» o la «giornata del sacerdozio», ma è soprattutto la commemorazione della Cena del Signore, nella vigilia della sua passione.
Venerdì Santo
Diverse circostanze lo fanno diventare una celebrazione difficile. A volte tenderemmo a farlo diventare una Via Crucis liturgica; altre volte, a far svanire il posto centrale che la croce — e tutto ciò che significa — occupa nella fede. Forse il nucleo del problema sta nel saper comunicare ciò che significa la«croce gloriosa»: l’indimenticabile paradosso del Dio che regna amorevolmente morendo sulla croce. È una celebrazione eminentemente contemplativa che esige un’omelia semplice, con profondità religiosa e umana, molto in linea con la prima lettura di Isaia.
Veglia pasquale
Parliamo molto di «Pasqua», «significato pasquale», «mistero pasquale…» ma dovremmo chiederci fino a che punto sono parole espressive per molti. Probabilmente i simboli, i riti, le letture di questa sera ci offrono un’occasione incomparabile per renderle espressive. Senza dimenticare che è, tradizionalmente, la massima celebrazione cristiana. Dovremmo provare a comunicare la gioia della fede pasquale, espressa nel sacramento del battesimo e celebrata nell’Eucaristia (non dimentichiamo che nella celebrazione di questa sera la cosa più importante è la più «ordinaria»: la messa… più «pasquale» che mai!).
Il significato della processione delle palme
Con la processione delle palme iniziano le celebrazioni della Settimana Santa. Non solo cronologicamente, ma anche e soprattutto «sacramentalmente». Tutto ciò che la Chiesa vive nei giorni santi — la passione e morte del Signore — viene introdotto simbolicamente con il significativo rito della processione. Quest’anno non vi sarà processione ma solo un ingresso solenne. Un’assenza che ci permetterà di dare a questo rito il suo vero significato. Si tratta di «significare» l’entrata di Cristo nella Gerusalemme definitiva attraverso il trionfo della sua morte. La processione non ha, dunque, come fine principale quello di imitare l’evento storico avvenuto la domenica precedente la morte del Signore, ma di presentare un simbolo di ciò che in quell’avvenimento era «profetizzato», dando al popolo uno strumento per partecipare all’entrata escatologica di Gesù, attraverso il mistero pasquale, nel regno definitivo di Dio. Si deve vivere questa celebrazione «come una profezia della passione e del trionfo del Signore» (Caerimoniale episcoporum, n. 263), cioè, come un cammino che lo porta dalla croce fino alla gloria, cammino che, assieme al Signore, la Chiesa vuole percorrere con quella fede che proclama anche quando soffre e sembra fallire, perché riconosce e confessa la sua vittoria definitiva.
È in questo contesto, nell’acclamare e nel seguire il Crocifisso che è Re, che la processione delle palme riacquista la sua vera dimensione. Ed è precisamente attraverso il canto dei salmi 23 e 46 che il popolo può vivere questa realtà escatologica, superando il pericolo di limitarsi a un semplice ricordo del fatto storico che sta alla base di questo significativo rito.
La Domenica delle Palme merita dunque un’attenzione pastorale maggiore di quella che ottiene normalmente quando la si riduce frequentemente al «problema» della processione, considerata ancora più come benedizione delle palme che come processione in onore di Cristo. E non si capisce che essa ha una forza celebrativa e anche catechetica — di pedagogia della fede pasquale — molto notevole.
La Domenica delle Palme e il significato della Domenica cristiana
La Domenica delle Palme è fondamentalmente una Domenica. Come tutte le Domeniche dell’anno, celebra la Risurrezione del Signore, la sua vittoria. Le caratteristiche di questa Domenica possono aiutarci a scoprire il significato di ogni Domenica cristiana. In particolare, la processione è come un’acclamazione per la vittoria del Signore, cosa che celebriamo anche ogni Domenica. La narrazione della passione sottolinea il fatto che Cristo ottiene la vittoria attraverso la sofferenza e la morte. Le palme e i ramoscelli d’ulivo — segni popolari di vittoria — manifestano che la morte sulla croce è cammino di vittoria, e vittoria essa stessa, in quanto questa morte ha distrutto la morte.
La celebrazione di oggi, dunque, riassume la dinamica del mistero pasquale di Cristo, che è anche il contenuto della nostra celebrazione domenicale.
Cristo e il suo ingresso messianico nel Regno
Gesù, giunta «l’ora», decide di andare a Gerusalemme. Il suo ingresso è allo stesso tempo l’ingresso del Servo, che cammina verso la morte, e del Signore, che sarà glorificato.
È necessario insistere sul significato fondamentale della processione. Si tratta di celebrare l’ingresso messianico del Signore nel suo trionfo pasquale attraverso la morte (cf l’espressiva monizione del Messale Romano). La processione, pertanto, non ha solo il fine di ricordare un fatto storico passato, ma anche quello di fare una solenne professione di fede nella quale la croce e la morte di Cristo sono in definitiva una vittoria. Il colore rosso dei paramenti, in questo giorno, indica la morte del martire e la sua vittoria.
La benedizione delle palme è meno importante
Conviene anche ribadire che la benedizione dei rami è secondaria rispetto alla processione. Quello che vogliamo, in questo giorno, è acclamare Cristo nel suo cammino pasquale. Benedicendo i rami non si vuole dare ai fedeli degli «oggetti benedetti» da tenere, ma acclamare con essi Cristo nella processione. Per questo è proibito limitarsi alla benedizione dei rami, se non si fa la processione.
Antifona d’Inizio Mt 21,9
Osanna al Figlio di Davide.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore:
è il Re d’Israele.
Osanna nell’alto dei cieli.
Il sacerdote saluta i presenti e poi con brevi parole illustra il significato dei gesti che stanno per compiere e li invita a una partecipazione attiva e consapevole:
Fratelli carissimi,
questa assemblea liturgica è preludio alla Pasqua del Signore, alla quale ci stiamo preparando con la penitenza e con le opere di carità fin dall’inizio della Quaresima.
Gesù entra in Gerusalemme per dare compimento al mistero della sua morte e risurrezione.
Accompagniamo con fede e devozione il nostro Salvatore nel suo ingresso nella città santa, e chiediamo la grazia di seguirlo fino alla croce, per essere partecipi della sua risurrezione.
Abbiamo riportato le parole con cui ha inizio la liturgia che commemora l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, tutta l’assemblea poi in processione cammina verso la chiesa dove si celebrerà la divina liturgia.
L’Evangelo dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme non può essere ignorato nella liturgia di questa domenica perché la sua proclamazione costituisce la chiave di lettura e conferisce l’orientamento della celebrazione con una nota particolarmente gioiosa e festale. Accolto con l’Osanna della folla alle Palme, il medesimo Figlio di David sarà accolto dai fedeli con l’Alleluia tra 7 giorni. Viene per la sua città e il suo popolo per portare la Gloria nuziale.
La Passione del Signore si proclama per intero in questa giornata, come era nella Tradizione antica, quando l’Evangelo era proclamato ogni volta in una lunga pericope e talvolta anche secondo più pericopi scelte in modo ricco e vario. L’invito è a seguire con cura il testo della Passione del Signore secondo Marco avendo tuttavia sotto gli occhi il suo schema e lo svolgersi naturale della narrazione. Non uno schema ideologico ma individuare i temi che si assumono come principali, come la Chiesa ha fatto nei secoli e seguirli anno per anno.
L‘ultima parte dell’evangelo di Marco comincia con l’arrivo di Gesù a Gerusalemme, dove da questo momento è ambientata la narrazione fino al dramma finale. L’insieme si compone di due parti distinte. Fino alla fine del capitolo 13.
L’evangelista Marco presenta l’attività di Gesù a Gerusalemme suddividendola su tre giorni.
- primo giorno: arrivo a Gerusalemme, ingresso trionfale e spostamento verso Betania (11,1-11);
- secondo giorno: maledizione del fico ed espulsione dei mercanti dal tempio (11,12-19);
- terzo giorno: insegnamento di Gesù ai suoi discepoli a partire dal fico maledetto (11,20-26), controversie nel tempio (11,27-12,44) e discorso escatologico (13,1-37).
A partire dal capitolo 14 e fino a 16,8 c’è il racconto propriamente detto della passione, morte e resurrezione di Gesù.
Sul piano della struttura, l’insieme può essere scomposto come segue:
- 11,1-13,37, attività di Gesù a Gerusalemme: ingresso a Gerusalemme, primi segni (11,1-26); controversie nel tempio (11,27-12,44); discorso escatologico (13,1-37);
- 14,1-16,8, passione, morte e resurrezione di Gesù.
Esaminiamo il brano
1 «Quando sono vicini a Gerusalemme»: Il verbo introduttivo e molti altri verbi in questo racconto in greco sono al presente storico: uno degli accorgimenti letterari cari a Marco.
«verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi»: Bètfage («casa dei fichi non maturi») era un villaggio sulle pendici del monte degli Ulivi, la cui esatta posizione è però incerta. Betània è un villaggio a circa 3 km ad est di Gerusalemme; oggi si chiama El-Azariah, il che rispecchia un legame tradizionale con la tomba di Lazzaro (vedi Gv 11,1-44). Durante la «settimana santa», a quanto pare Betània è usata da Gesù come «campo base» (vedi Mc 11,11-12; 14,3-9). Il monte degli Ulivi è una grande collina ad est di Gerusalemme. E così chiamata perché è un terreno adatto alla coltivazione degli ulivi. Secondo il profeta Zaccaria il monte degli Ulivi è il luogo dove il Signore rivelerà se stesso nella battaglia decisiva contro le nazioni: «In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi… e il monte degli Ulivi si fenderà in due… una metà del monte si ritirerà verso settentrione e l’altra verso mezzogiorno» (Zc 14,4).
La concentrazione di indicazioni geografiche riveste qualche significato? Non è escluso. Gerusalemme, Betania e il Monte degli ulivi sono luoghi centrali nel dramma che sta per iniziare:
- a Gerusalemme si svolge l’essenziale del racconto della passione, e in particolare il processo;
- a Betania, l’unzione di Gesù (cf. 14,3-9);
- al Monte degli ulivi, gli ultimi discorsi con i discepoli (cf. 13,3; 14,26).
- Viene da chiedersi se non si debba leggere nel nome “Bètfage” (lett.: “casa dei fichi”) un’anticipazione dell’episodio del fico maledetto come metafora del tempio.
Così, nel momento in cui Gesù sta arrivando sul posto della sua passione, Marco evoca tutti i luoghi nei quali la narrazione da questo momento sarà ambientata. In passato erano la casa, la barca, la sinagoga, i campi, la via e i villaggi di Galilea. D’ora in poi tutto avviene tra Gerusalemme, Betania e il tempio.
2 – «Andate nel villaggio di fronte a voi»: Dato che Betània serve a Gesù da punto di riferimento, il villaggio probabilmente è quello di Bètfage (che sembra si trovasse tra Betània e Gerusalemme).
«e… troverete»: Le istruzioni impartite da Gesù sono frutto di un precedente accordo, oppure del dono della profezia? Il racconto non lo specifica. L’idea di un precedente accordo sembra più probabile (ma vedi il v. 3c).
«un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito»: Lo sfondo anticotestamentario dell’azione simbolica di Gesù è la descrizione del guerriero divino in Zc 9,9: «Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina». Il termine greco pólos può essere riferito ai cuccioli di vari animali, compresi gli asini e i cavalli. Matteo (in 21,2.7) parla della presenza di due animali: l’asina e il suo puledro, per effetto di una lettura eccessivamente letterale di Zc 9,9 (dove in effetti si parla di un solo asino). Il fatto che l’animale non sia ancora stato cavalcato da nessuno a quanto pare contribuisce alla «purità» dell’azione profetica di Gesù.
3 – «Il Signore ne ha bisogno»: Il termine greco kyrios rende l’interpretazione difficile. Potrebbe riferirsi semplicemente (e più probabilmente) al padrone dell’asino con il quale Gesù si è accordato, ma potrebbe anche riferirsi a Dio («il Signore») o allo stesso Gesù (anche se Kyrios non è un titolo cristologico usato comunemente da Marco, nonostante 12,35-37). Tuttavia, la maggior parte dei traduttori ed interpreti è del parere che il soggetto sia Gesù. Come fatto notare a proposito del v. 2 il racconto si presta a due interpretazioni: il risultato di un precedente accordo, o una conoscenza profetica di Gesù.
4 – «vicino a una porta, fuori sulla strada»: I due discepoli trovano le cose esattamente come aveva detto Gesù. Il termine amphodos («via») indica una strada con le case su entrambi i lati, o un «quartiere cittadino», o anche un «crocicchio». L’idea è che l’asino si trova fuori, esposto alla vista di tutti e perciò i passanti possono vedere i due discepoli che lo slegano.
5 – «Alcuni dei presenti»: Per un’espressione analoga vedi Mc 9,1 e 15,35. Nell’interrogare i discepoli i presenti fanno esattamente ciò che aveva previsto Gesù nel v. 3.
Essi risposero come aveva detto loro Gesù: La spiegazione che Gesù aveva suggerito ai discepoli nel v. 3 funziona e raggiunge lo scopo voluto. Alcuni commentatori, tuttavia, si chiedono come mai i presenti si mostrino così accondiscendenti nell’accettare la spiegazione data dai discepoli.
La scena dei preparativi dell’ingresso a Gerusalemme prelude a quella dei preparativi dell’ultima cena (cf. 14,12-16). Alcuni giorni più tardi, infatti, ricomincia la stessa sequenza: due discepoli vengono inviati in città a preparare una sala per mangiare la Pasqua e c’è ancora una richiesta di prestito. Questi due dettagli, quanto mai evangelici, dicono la radicale povertà di questo re: non ha nulla. Non ha un luogo su cui posare il capo, nel quale condividere la festa, non ha un luogo ove finire i suoi giorni. Nulla. E il re senza nulla che ha dovuto prendere a prestito (e restituire) il bene altrui per fare la sua parte fino alla fine. Quando la morte arriverà, non avrà più nulla da portarsi via, perché egli aveva scelto di vivere senza averi e solamente grazie all’aiuto provvisorio di beni presi a prestito.
7 – «e vi gettarono sopra i loro mantelli, ed egli vi salì sopra»: Qui il soggetto di «vi gettarono» sono almeno i due discepoli che hanno condotto l’asino da Gesù. Il loro gesto serve a creare una specie di «trono» per Gesù e contribuisce a mostrare il suo adempimento messianico di Zc 9,9 («viene a te il tuo re… cavalca un asino»).
8 – «altri invece delle fronde, tagliate nei campi»: Secondo Gv 12,13 si trattava di rami di palma, ma i rami di palma sarebbero più adatti per la festa delle Capanne (Tabernacoli; vedi Lv 23,39-43) e di Hanukkah (vedi 1 Mac 13,51; 2 Mac 10,7) che non per la festa di Pasqua. Il termine stibas («letto di paglia, foglie, ecc.») nel NT è usato unicamente in questo passo.
9 – «Quelli che lo precedevano e quelli che lo seguivano»: Questo molto probabilmente significa «l’intera folla»; è improbabile che Marco voglia intendere una divisione in gruppi. Quanto numerosa fosse questa folla e quale impatto abbia avuto l’azione di Gesù sulla città di Gerusalemme nel suo insieme è difficile da stabilire. Non dobbiamo necessariamente pensare che l’intera città vi fosse coinvolta.
«Osanna»: Questa è la traslitterazione greca del termine ebraico hòsha-na’ («salva, ti prego») come nel Sal 118,25 («Salvaci, te ne preghiamo, o Signore!»). Mentre nell’AT «osanna» è una preghiera o un grido per chiedere l’aiuto di Dio, in Mc 11,9-10 ha piuttosto il senso di un’espressione di gioia e di omaggio.
«Benedetto colui che viene nel nome del Signore»: Continuando la citazione del Sal 118,25, questa frase è una citazione diretta del v. 26. Originariamente potrebbe essere stato un saluto di benvenuto rivolto dai sacerdoti del Tempio ai pellegrini che entravano nei cortili. Dato che anche Gesù nel v. 11 entra nel cortile del Tempio, è quanto mai opportuno che qui gli venga applicata la citazione del Sal 118,26.
10 – «Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide!»: Questa non è una citazione biblica, ma può essere considerata un commento o un’interpretazione della citazione del Sal 118,26 fatta nel versetto precedente. La più completa presentazione del messia davidico fatta ai tempi del NT è quella che si trova nei Salmi di Salomone 17: «Guarda, Signore, e suscita per loro il loro re, il figlio di Davide, che governi sul tuo servo Israele, al momento che tu conosci, o Signore» (v. 21).
Ma vedi Mc 12,35-37, che suggerisce che come «Signore» (kyrios) Gesù è superiore a Davide. Sia che Gesù intendesse o meno incoraggiare questo genere di messianismo davidico, un tale dimostrazione profetica era certamente destinata a mettere in allarme le autorità romane e i loro collaboratori giudaici.
«Osanna nel più alto dei cieli!»: Parafrasando l’espressione (in riferimento a Gb 16,19 e al Sal 148,1; vedi anche Lc 2,14) si potrebbe dire: «Donaci la salvezza, tu (o Dio) che abiti nel più alto dei cieli».
11 – «Ed entrò a Gerusalemme»: Nel racconto di Marco, questa è la prima e l’unica visita di Gesù a Gerusalemme. Luca 2,41-52 narra la visita che Gesù vi ha fatto da ragazzo, e Giovanni dà per scontate diverse visite. Dal punto di vista storico è probabile che l’evangelista Giovanni abbia ragione.
«nel Tempio»: Dobbiamo immaginarci Gesù che entra nel complesso del Tempio, che era costituito da diversi cortili. Nel Tempio vero e proprio, il Santo dei Santi, ci poteva entrare soltanto il sommo sacerdote una sola volta all’anno nella festa dell’Espiazione.
«E dopo aver guardato ogni cosa attorno»: Per alcuni commentatori questa è una prova che Gesù era la prima volta che andava a Gerusalemme, perché si guarda attorno come un turista. La frase è una preparazione alla seconda azione simbolica di Gesù, quella della «purificazione» dei cortili del Tempio (vedi Mc 11,15-17).
«essendo ormai l’ora tarda»: Così termina il primo giorno della settimana di Passione nello schema di Marco (vedi 11,12.19-20).
«uscì con i Dodici verso Betània»: La folla è sparita e l’entusiasmo popolare si è spento. Gesù ritorna alla sua residenza temporanea a circa tre chilometri ad est di Gerusalemme. I Dodici erano stati nominati anche in 10,32. Il racconto dell’entrata di Gesù a Gerusalemme in Mc 11,1-11 stabilisce l’identità di Gesù quale il Messia e Figlio di Davide. Man mano che il racconto della settimana santa procede, tuttavia, le aspettative popolari che vedono in Gesù il Messia e il Figlio di Davide si dimostreranno sbagliate. I lettori di Marco si troveranno a dover affrontare l’incomprensibile paradosso di Gesù come il Messia sofferente.
Fino al v. 10 l’evangelista non sembra aver lasciato un’impronta particolare sull’episodio, ripreso forse da una tradizione liturgica antica. Ma non si può dire la stessa cosa per la conclusione (v. 11), nella quale si registra quasi uno stacco da ciò che precede. Infatti, nel suo stile particolarissimo Marco ci mostra un Gesù che sembra prendere le distanze da quello che si è appena svolto sotto i suoi occhi e per lui. Innanzitutto, solo al v. 11 l’evangelista segnala che Gesù è “entrato” a Gerusalemme e nel tempio. Ci si poteva attendere tale indicazione tra il v. 7 e il v. 8. In questo si può vedere l’intento di sganciare narrativamente l’acclamazione della folla dalla menzione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme.
In secondo luogo, mentre “molti” (v. 8) lo acclamano, Gesù si limita a guardarsi intorno (cf. v. 11) e a uscire verso Betania, “essendo l’ora già tarda”. Qui si può supporre una punta di ironia da parte dell’evangelista: all’attesa messianica espressa dalle folle Marco contrappone la constatazione del calar della sera; alla motivazione che spinge le folle, per la quale Gesù dovrebbe prendere possesso del santuario, l’evangelista sembra opporre una ragione di second’ordine per giustificare la sua uscita di scena: è tempo di andare a coricarsi! Come se nulla di essenziale potesse ormai accadere, per la salvezza e la speranza della folla, a Gerusalemme e al tempio. Questo sembra trovare conferma se si prende atto della destinazione di Gesù e dei dodici: Betania. Il seguito del racconto lo mostrerà: non è a Gerusalemme, ma a Betania che il Messia sarà unto con un’unzione per lo meno paradossale (cf. 14,3-9).
L’acclamazione della folla nasce da un equivoco sulla persona di Gesù: si aspettano che sia lui il liberatore politico che li libererà dall’occupante romano. Ignorano che colui che acclamano è in cammino verso la sua passione, verso la croce. Gesù capisce le aspettative della folla, non le sconfessa. Sa che sono espressione di una sofferenza. Eppure… non le esaudisce.
All’ingresso trionfale, all’aspirazione delle folle, alle speranze confuse, Gesù risponde guardandosi attorno e uscendo, come se il sopraggiungere della sera fosse sufficiente per porre fine a quella speranza illusoria di un domani felice. Non si lascia strumentalizzare, neanche per una giusta causa. E questo non è certo un piccolo scandalo tra quelli suscitati da quest’uomo libero, che non si schiera a favore del popolo oppresso, del popolo che ha subito l’invasione. Non rimprovera ad alcuni di farlo – la presenza di uno zelota (cf. 3,19) tra i suoi discepoli sembra anzi indicare il contrario -, né ad altri, che egli chiama, rimprovera di rifiutare una prospettiva del genere (si pensi a Levi, l’esattore delle tasse: cf. 2,14): Gesù non doveva essere particolarmente nazionalista!
Questo episodio contiene una parola di speranza accompagnata da una provocazione fondamentale: la presenza di Cristo non è legata all’ortodossia delle dottrine o alla coerenza dell’impegno; essa è risposta al desiderio di un incontro, all’attesa di una fede, alla speranza di una liberazione. Ma questa presenza non significa che Gesù appoggi, anche solo in minima parte, le scelte o le opinioni di coloro ai quali va incontro.
La sua presenza invita a mettersi in cammino e a passare dalla Gerusalemme delle nostre aspirazioni di liberazione messianica alla Betania dell’unzione di un corpo che sta andando alla morte.
In altri termini, ecco che esiste un’altra realtà. In conformità con quello che abbiamo visto fin dall’inizio dell’evangelo, la possiamo chiamare la realtà o l’ordine del regno di Dio presente nella parola di Gesù. O meglio, l’ordine del mistero del regno di Dio.
È un ordine che presuppone l’istante di un incontro in cui il tempo di questo mondo viene messo tra parentesi, nel quale le regole di questo mondo vengono sospese. Un tempo in cui si gioca l’essenziale di ciò che costituisce l’esistenza autentica dell’individuo. E un tempo che non si possiede, non si padroneggia e non si può far avvenire secondo la propria volontà (mentre ad es. andare verso i poveri lo si può decidere in ogni momento).
È un tempo che si accoglie, incontro al quale bisogna saper andare nell’istante in cui si manifesta a noi e per il quale bisogna anche donare tutto e perdere tutto. E ciò che la donna in casa di Simone il lebbroso ha fatto (cfr. anche la vedova di Mc 12,41-44: «ha gettato nel tesoro… tutto quanto aveva per vivere»).
Il gesto della donna di Betania prefigura il destino di Gesù. Ne verrà fatta memoria in futuro (dichiarazione introdotta da un “Amen” solenne, al v. 9). Essa incarna la fede che riconosce in Gesù colui che muore (“Ha profumato in anticipo il mio corpo in vista della sepoltura“: v. 8) per donare la vita (“… dovunque sarà predicato l’Evangelo, in tutto il mondo“: v. 9). Accusata dai testimoni della scena di sperperare il denaro per una causa inutile, la donna viene giustificata dalla parola di Gesù che, allo stesso tempo, fa perdere credibilità alle critiche. Nel racconto dell’unzione di Betania vi è una sospensione provvisoria dell’etica, proprio perché l’essenziale dell’esistenza umana si gioca nell’incontro di fede con il Cristo.
Ecco perché la Passione del Signore inizia con questo episodio che ci indirizza ad una lettura secondo la Parola di Dio e non i nostri pietismi.
È un incontro di amore tra lo Sposo-Cristo e noi sua Sposa-Chiesa redenta.
Omelia per la Domenica delle Palme. Salve, nostro re
Fratelli e sorelle, quali parole degne del Signore porteremo alle nostre labbra per esaltare degnamente ciò che stiamo contemplando, ciò che abbiamo cominciato a celebrare? Gesù Cristo entra a Gerusalemme; va a morire, ma avanza gloriosamente come re, e la Chiesa lo acclama: «Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perche con la tua croce hai redento il mondo». Tale è l’eco del messaggio divino che abbiamo ascoltato, nel quale, esattamente come domenica scorsa, ci è stato annunciato che il nostro riscatto è stato ottenuto a prezzo del sangue di Cristo.
Cosa dirà la Chiesa al suo Signore? Ascoltate l’antifona del cantico evangelico dei I Vespri di questa Domenica, che sarà la preghiera — o meglio, l’acclamazione — sulle nostre labbra: «Salve, nostro re, figlio di Davide, annunciato dai profeti redentore del mondo».
Diremo dunque a Cristo: «Salve, nostro re!». Avanza con umile cavalcatura; le palme del trionfo e della pace lo salutano. Il coro dei credenti lo acclama: «Salve, nostro re!». Viene per le strade di Israele, pensato da sempre. Viene per la strada dei profeti, viene da Davide, viene dalle viscere di una donna, la Figlia di Sion. «Salve, figlio di Davide!». Viene e avanza senza peccato, quando tutti noi siamo annebbiati da una spessa oscurità, vittime di un cuore disorientato. «Salve, redentore del mondo!» Viene ed è la via, la verità e la vita. «Salve, salvatore del mondo!». Si avvicina alla Chiesa, alla santa Gerusalemme che lo riceve. La Chiesa ne adorna il passaggio, mettendo i suoi vestiti ai piedi del Signore. Cristo entri, ricevuto con immenso amore. E in questa accoglienza gloriosa, dove non manca il presagio della croce, la Chiesa dice: «L’anima mia magnifica il Signore».
Acclamiamo, fratelli e sorelle, il Signore che viene in questa Settimana Santa. Salve, nostro re! Amen.
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano