Domenica “dell’accettazione della croce e dell’ospitalità”
Nell’evangelo di questa domenica possiamo individuare due temi importanti:
- le condizioni del seguire Gesù: distacco, croce, disponibilità totale (prima parte dell’evangelo);
- il tema dell’accoglienza e dell’ospitalità (seconda parte dell’evangelo).
Ogni adesione a Cristo è un’avventura segnata dalla croce: è necessario un distacco radicale «per causa sua», ma, con lui, si ritrova tutto.
Per il discepolo, l’attaccamento a Gesù è una passione esclusiva, unica: quella a cui Dio solo ha diritto. Essa conduce a spezzare ogni legame che impedisca di lasciare tutto per seguire il Cristo, a partire da ciò che si ha di più caro: i rapporti familiari. L’affetto di un padre, la tenerezza di una madre, la dolce amicizia tra fratelli e sorelle, tutto questo, pur essendo molto buono e legittimo, non può essere preferito al Cristo. Non perché egli ci voglia senza cuore, duri come pietre, ma perché la condizione del discepolo esige un rapporto prioritario col maestro. «Figlio mio, dammi il tuo cuore», dice il saggio (Pr 23,26). Si potrebbe parafrasare il libro della Genesi: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà al Cristo e i due saranno una sola cosa» (Gen 2,24). Paolo non dice forse che questo mistero riguarda il Cristo e la Chiesa? (Ef 5,32). D’altra parte, a chi si dà totalmente a lui, Gesù dona un amore capace di stabilire rapporti nuovi con tutti, compresi i più vicini. Poiché prolunga la presenza e l’azione dell’inviato messianico, il missionario può contare su un’accoglienza favorevole. Per quanto umile e insignificante possa essere la sua persona agli occhi degli uomini, egli porta la presenza del Cristo. Ma sarà fedele al suo ruolo soltanto se saprà scomparire di fronte a colui che annuncia e a cui deve rimandare gli altri, servendolo così in modo autentico. Allora il mondo diventerà la sua parrocchia, e tutti i popoli i suoi figli. Separato da tutto, potrà unirsi a tutti ed essere accolto come Gesù, di cui porta il messaggio.
Come l’accettazione della croce è condizione essenziale per seguire il Signore, così accogliere gli altri (siano gli apostoli, come i poveri e i piccoli) con generosa ospitalità, è segno di fedeltà al comandamento nuovo dell’amore fraterno senza frontiere. Non solo l’accoglienza del compagno, del familiare o dell’amico — i pagani non fanno forse altrettanto? — ma l’accoglienza del forestiero, del lontano, del povero, di colui che non può ricambiare. Un’accoglienza che invita alla rinuncia, alla disponibilità, alla gratuità, perché vede nell’ospite, nel forestiero, nel povero specialmente, il divino Forestiero che non ha una pietra dove posare il capo (Mt 8,20). Nell’affamato, nell’assetato, nel pellegrino, nell’ignudo, nell’ammalato, nel prigioniero.., è sempre Gesù che bussa alla porta del cristiano e chiede ospitalità e aiuto (Mt 25,35-36).
L’accoglienza e l’ascolto si manifestano e ci interpellano anche in altre situazioni: nell’attenzione all’altro, nella capacità di dialogo, nello sforzo di «comprendere» le ragioni dell’altro. È un atteggiamento, una disposizione di fondo che sa accogliere senza spirito ipercritico, senza animo diffidente e sospettoso, ma con attenzione ed amore i gesti e gli interventi del Magistero, anche se ne vediamo i limiti o gli aspetti manchevoli; sa ascoltare e «non spegnere» lo Spirito che si manifesta in certi movimenti ecclesiali, che anima gruppi e istituzioni dei quali non condividiamo le scelte o i metodi; fa più assegnamento sulle persone che sull’organizzazione e sull’istituzione.
Oggi, specialmente nei paesi ricchi ed opulenti dell’Occidente, lo straniero è considerato come un intruso; l’ospitalità si pratica ancora, ma condizionata dall’interesse; è diventata un’industria, una sorgente di guadagno. Il turista è ricevuto perché porta valuta pregiata e quindi ricchezza. Anche i lavoratori stranieri, gli immigrati da altre regioni della stessa nazione trovano posto nella nostra società in quanto forniscono la mano d’opera di cui si ha bisogno. Ma più che «accolti» sono spesso «sopportati» come un male necessario, come uno scotto da pagare. In molti casi vivono in ghetti, in situazioni infraumane, con condizioni di lavoro spesso ingiuste. E quando la loro presenza comincia a mettere in pericolo la sicurezza delle regioni ospitanti, o compromette i privilegi acquisiti, allora lo straniero viene riaccompagnato alla frontiera…
Comunque resta vero (e per i cristiani dev’essere un motivo di un serio esame di coscienza!) che l’ospitalità, il senso dell’accoglienza, è uno dei segni per misurare la reale fedeltà all’evangelo delle nostre comunità cristiane. Le manifestazioni xenofobe, i gesti di intolleranza nei confronti degli stranieri rivelano il volto anticristiano e antievangelico di comunità apparentemente cristiane e praticanti.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 46,2
Popoli tutti, battete le mani,
acclamate a Dio con voci di gioia.
L’antifona d’ingresso e dal Sal 46,2, SRD. L’imperativo innico dell’Orante è rivolto a tutte le nazioni, affinché applaudano al Signore (Is 55,12) in segno di lode e di gioia. Esso è ribadito con l’invito a esprimere il giubilo al Signore con un coro gioioso e strepitante, come quello per la vittoria e per le maggiori feste del popolo santo.
Canto all’Evangelo 1 Pt 2,9
Alleluia, alleluia.
Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa;
proclamate le grandezze di Dio, che vi ha chiamato
dalle tenebre all’ammirabile sua luce.
Alleluia.
L’alleluia all’Evangelo è dalla 1 Pt 2,9. L’Apostolo ricorda ai suoi fedeli che sono gente scelta dal Signore come sacerdozio regale e nazione santa, per annunciare le opere potenti e mirabili del Signore. Infatti, essendo ancora essi pagani viventi nelle tenebre del peccato e dell’ignoranza, operando una creazione nuova, li chiamò alla folgorante Luce sua della santità e della verità.
Per tutte queste ricchezze del Regno, suona «oggi qui» per noi fedeli l’imperativo della Chiesa, che rivolge a se stessa l’invito a inneggiare con la benedizione al Signore, e con il proprio interno al suo Nome santo, operatore di mirabili prodigi. Come discepoli e sacerdoti del Signore i fedeli così contemplano anzitutto i prodigi della Parola, poi del Convito, poi il mirabile prodigio della divina carità, la vocazione della Chiesa tutta battezzata a celebrare ancora una volta il Signore e la sua Resurrezione, spinta dallo Spirito Santo: «Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta, ripeta: «Vieni!». Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
I lettura: 2 Re 4,8-11.14-16a
È noto che una donna senza figli proietta la sua tenerezza materna su un estraneo. Ed ecco che questo affetto si porta su Eliseo e diviene ospitalità e accoglienza. Ma accogliere un piccolo è accogliere Dio stesso (Mt 10,40) e la donna ne fa l’esperienza, beneficiando della visita di Dio. Per il fatto che si è messa tutta intera a servizio dell’ospitalità essa scopre in Dio il segreto che la portava ad amare.
A Sunem, nell’alta Palestina, nei confini della tribù di Issacar, sotto il Piccolo Hermon, a oriente di questo, una donna ha saputo scorgere in Eliseo «l’uomo di Dio» (v. 9b). Ella è facoltosa e insiste che il profeta mangi da lei (v. 8a); anzi, rende stabile quest’accoglienza generosa, spontanea e gratuita (v. 8b). La sua constatazione sull’uomo di Dio è comunicata a suo marito (v. 9); essi decidono di costruire una camera riparata, quieta e ammobiliata, per il riposo di Eliseo (v. 10). Eliseo accetta (v. 11). E pensa come sdebitarsi, facendosi consigliare dal suo fedele servo Gihezi, il quale risponde solo che la donna, con il marito anziano, è priva di figli (v. 14). Come si sa, l’infecondità di natura era il massimo sconforto per una donna antica, soprattutto orientale, la rendeva invisa gli occhi del marito e la indicava in genere alla vergogna sociale. Così Eliseo invia a chiamarla e quella si presenta (v. 15). Il profeta le preannuncia un figlio per l’anno dopo, entro 12 mesi (v. 16a). Così avviene un nobile esempio di quella che è la «ricompensa del profeta».
Si ripete il gesto che al Padre Abramo avvenne da parte dei Tre Personaggi, quando gli predissero che la moglie Sara, anziana e sterile, avrebbe avuto un figlio, il «figlio della Promessa», Isacco (Gen 18,10-14; 17,21).
Il Salmo responsoriale: 88,2-3.16-17.18-19, SR
Il salmo responsoriale con il versetto responsorio: «Canterò per sempre la tua misericordia» (v. 2a) esprime come ritornello la volontà dei fedeli di cantare in eterno le Misericordie divine rivelate dalla Parola divina proclamata nell’assemblea. L’Orante è il Re messianico in persona, nella figura di Davide. Egli proclama la sua volontà di cantare in eterno con un poema le Misericordie divine (i vv. 3.15.25.29.34.50; 87,11; 91,2-3; 100,1), e di volere così annunciare e far conoscere vastamente lungo le generazioni la Fedeltà del Signore verso di lui (i vv. 3.9.34.50; 87,11; 118,90) (v. 2). Misericordia e Fedeltà sono due sinonimi, che qualificano il Signore Buono e che qui l’Orante pone in parallelismo poetico. Il motivo è che il Signore già parlò: «La Misericordia sarà costruita in eterno»(35,6); il che, tenendo conto che in ebraico “eternità” è ‘ôlam, che indica lo spazio tempo, “secolo” o “mondo”. Così si può intendere anche «sarà costruito un mondo eterno di Misericordia».
Quindi l’Orante regale può affermare ancora una volta che la Fedeltà del Signore resta irremovibile nei cieli, e che questo porta quale naturale conseguenza che essa si attui infallibilmente sulla terra come Disegno divino efficace (v. 3). E allora per questo può proclamare una beatitudine per il popolo che conosce la gioia clamorosa, festosa (Lv 23; Sal 23,24). Infatti questa gioia segue una vittoria ed è gridata dall’intera assemblea del popolo. Il Re guida questo suo popolo, che procede alla «Luce del Volto» divino (4,7; 55,13), nella cui «Luce la Luce» vede (35,10), e la Luce è segno della Vita divina (v. 16). Perciò i fedeli esulteranno perennemente nel Nome divino eterno (19,6.8). Così riceveranno la loro esaltazione nella Giustizia divina, che è l’intervento divino misericordioso e potente (v. 17; Gb 31,7). Poiché il Signore è lo Splendore della forza di questo popolo (77,61), e con il Favore divino sarà esaltata e glorificata la potenza di esso (qui simboleggiata dal corno, segno del tremendo impeto del toro, v. 25; 74,11). Tale potenza regale non è politica né militare, ma è solo resa attuale dalla fedeltà all’alleanza e consiste nell’adempimento della Legge (v. 18). Per il resto invece il popolo ha uno Scudo infrangibile, il suo Signore (26,10; 46,10; 90,5), che è l’unico Re del popolo, il Santo d’Israele (v. 19; 70,22; l’espressione «il Santo d’Israele» ricorre come un motivo insistito in Isaia).
Evangelo
Il «discorso di missione» si conclude in crescendo; il Signore ha scelto i Dodici, li «istruisce» insegnando ad essi il modo di operare la missione, le condizioni ingrate, i pericoli. E non basta! Adesso chiede la totale assimilazione a Lui anche nella sorte che per lui è segnata dal Battesimo, la Croce. Non è degno del Signore chi lo segue senza la Croce, tanto meno chi non lo segue affatto; per essere degni di Dio si deve rinunciare all’amore mondano delle realtà terrene (cfr Sap. 3,5; Mt 10,11 e 22,8; Dt 33,9).
Nel nostro brano sono messi insieme due detti di Gesù, quello della divisione (vv. 34-37) e quello della croce (vv. 38-39), ed una conclusione (vv. 40-42) che si riallaccia alla prima parte del discorso riguardante la missione degli Apostoli e, più esattamente, al v. 14 dove si parla dell’ accoglienza del messaggero dell’Evangelo. Abbiamo davanti a noi uno dei paradossi più vistosi: sembrano parole in contrasto con le speranze nel Messia che doveva essere il principe della pace (Is 9,5); sono contrarie alla stessa parola di Gesù che ha proclamato beati tutti quelli che lavorano per la pace (cfr. Mt 5,9: saranno chiamati figli di Dio) e ha ordinato ai suoi discepoli di annunziare la pace, cfr. Mt 10, 7-15).
Spesso questo paradosso è stato utilizzato per giustificare la «guerra santa» o aspirazioni umane o intransigenze religiose. La spada o la lotta portata da Gesù non è una dichiarazione di guerra contro il resto dei mortali che non accettano la fede cristiana. I figli del tuono furono ripresi duramente per questa mentalità (cfr. Lc 9,54-55). Non si tratta della lotta dei discepoli contro altri uomini, ma di questi uomini contro i discepoli. La pace che egli porta non è tanto fra uomo e uomo, come se fosse un bene puramente terreno; ma piuttosto fra Dio e l’uomo.
Fra «uomo e uomo» egli porta la spada della separazione fra il bene e il male, fra coloro che accolgono il suo messaggio e quelli che lo rigettano; ma porta anche la spada della determinazione: rispondere alla chiamata di Cristo richiede un taglio, molto spesso doloroso, con l’ambiente, con la stessa famiglia.
La spada-divisione è implicita nelle esigenze della presenza di Gesù; lo stesso messaggio porta alla divisione: esige che nessuno e nulla sia al di sopra di lui nella scala dei valori che l’uomo deve trattare.
Esaminiamo il brano
37 – Un passo del profeta Michea (7,6), che parla dello stato di generale corruzione della società del suo tempo, serve a Gesù per dire che la sua persona divide persino le persone legate da vincoli di sangue.
I missionari sappiano che neppure di fronte ai parenti possono sentirsi sicuri; anche da loro può venire l’opposizione. Se l’evangelo è causa di divisione nelle famiglie, allora il discepolo non ha altra scelta che quella di preferire la nuova comunità a quella del sangue. Occorre qui ricordare che il giudaismo ufficiale aveva lanciato il decreto di scomunica contro tutti quelli che riconoscevano Gesù come il Messia, per cui la Chiesa dei primi tempi già viveva questa divisione (cfr. Gv 9 i genitori del cieco nato).
Matteo addolcisce l’«odiare» trovato in Luca con un «amare di più» (vedi anche affezionato); il linguaggio di Luca è più vicino all’originale aramaico che non aveva altra alternativa per dire «amare di meno».
Un esempio di questa rinuncia è già stata data nella chiamata dei discepoli (cfr. Mt 4,18-22 chiamata dei primi quattro apostoli; 9,9 chiamata apostolo Matteo).
38-39 – Cristo è terribilmente esigente; come Dio nell’A.T., egli chiede un’adesione totale e indivisibile alla sua persona. Non si propone di amare la croce per se stessa, ma di seguire Cristo incondizionatamente anche a costo della vita. Questa è la prima volta che l’evangelista Matteo usa la parola «croce»; si troveranno altre allusioni alla passione prima che Gesù la preannunci apertamente (16,21ss).
La crocifissione, era un metodo di esecuzione di origine orientale (forse dai cartaginesi), usata dai romani per i ribelli e gli schiavi. L’uso convenzionale della croce come simbolo cristiano può rendere difficile per noi oggi afferrare tutta l’asprezza di questo detto nel suo contesto originale. Gesù dice ai discepoli che non esiste alcuna sofferenza pensabile alla quale non li possano portare la fede e la predicazione dell’evangelo.
Il distacco personale richiesto dal detto andrà ben oltre la semplice rinuncia dei legami familiari. Il v. 39 assicura i discepoli che non c’è per loro altro mezzo per salvarsi (avrà trovato la sua vita = conservare la vita rinnegando Cristo, ma è perdita della vita eterna).
40 – Si ritorna all’atteggiamento assunto nei riguardi dei missionari; accogliere loro vuol dire accogliere Cristo e in ultima analisi accogliere Dio stesso. Un principio giuridico riconosciuto nel giudaismo e non ignoto al diritto romano (anzi al diritto delle genti) era che il mandante considerava come fatto a se stesso il trattamento riservato al suo delegato. La parola di Gesù deve essere compresa in questo contesto culturale. Il discepolo di Gesù è, dunque, come Gesù che l’ha inviato e Gesù è come il Padre che l’ha mandato nel mondo; il tratto è frequente nel NT (cfr. Mt 18,5; 25,40; Lc 10,16; Gv 13,20; Gal 4,14).
41 – Profeta – giusto – discepolo: sono tre variazioni della stessa realtà.
Accoglierli e sì prestare loro un aiuto fraterno e amorevole, ma nel contesto attuale di Matteo è chiaro il riferimento ai missionari; accoglierli significa ascoltarli e credere alla loro predicazione.
La prima lettura tratta proprio dell’accoglienza fatta ad un profeta, Eliseo, e della ricompensa che ne scaturisce. Poiché la donna sunammita ha messo tutta se stessa a sevizio dell’ospitalità, ecco che scopre in Dio il segreto della sua bontà. Nel brano riportato dalla lettura, Eliseo promette un figlio a una donna sterile. Il dialogo tra il profeta e la donna ricorda quello tra Abramo e i tre personaggi misteriosi che promisero un figlio a Sara (Gen 18,9-14). Eliseo, quindi, è il vero depositario della Parola di Dio, poiché la sua promessa porta la fecondità, come la promessa degli altri messaggeri di Dio.
42 – Basta che nel nome del discepolo del Signore si dia un bicchiere di acqua fresca (riportiamolo nella situazione dei paesi orientali, tra caldo e deserto ), e si riceverà «la sua ricompensa» (cfr. Mt 18,5; 25,35. 40). Non è specificata quale. Ma è chiaro, quella che spetta al discepolo del Signore, che è grande nei cieli. E questo è confermato dalla formula massimamente solenne: «in verità, io parlo a voi». La carità chiude il «discorso di missione».
«Piccoli»: i discepoli del Signore sono chiamati piccoli, in greco mikrós.
Il vocabolo è stato usato in senso fisico, come per Zaccheo, «piccolo di statura» (Lc 19,3), o applicato ai bambini: «Badate di non disprezzare nessuno di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli… Il Padre celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Mt 18,10.147).
Nelle sue parole Gesù presuppone la dottrina giudaica, sviluppatasi nell’A.T. (cfr. Sal 91,11) degli angeli custodi (o avvocati). Tale dottrina riteneva che solo alcuni angeli (gli angeli detti della «Faccia») contemplavano «il volto di Dio» (espressione orientale per indicare lo stare al servizio di Dio o del re). Gesù vuol dire che gli angeli custodi dei piccoli appartengono alla corte celeste e possono deferire al supremo tribunale divino ogni ingiustizia spirituale, come lo scandalo, subita dai loro protetti. Il “piccolo”, però, diventa agli occhi di Gesù un simbolo spirituale: è la definizione del Regno di Dio e del suo discepolo. Infatti, il granello di senape, immagine del regno, è «il più piccolo di tutti i semi» e la comunità dei discepoli è il «piccolo gregge» che non deve aver paura, perché «chi è tra voi il più piccolo, costui è il più grande» (Lc 9,48).
La I Colletta richiama la Volontà divina che con l’Iniziazione battesimale volle donare la filiazione divina (Gal 4,6; Rom 8,15), e con epiclesi chiede che i fedeli non tornino alle tenebre dell’errore ma che si resti nella luce della verità acquisita per dono.
I Colletta
O Dio, che ci hai reso figli della luce
con il tuo Spirito di adozione,
fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore,
ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
La seconda lettura (Rm 6,1-11) già proclamata nella Notte della Resurrezione, ci ricorda che il battesimo cristiano, che si celebra nel segno dell’acqua, misticamente si ricollega al gesto pasquale di Cristo che è insieme di morte e di risurrezione a vita nuova. Le applicazioni sul piano morale sono immediate. Si muore una volta sola, e una volta morti, non si torna più indietro. “Così anche voi: consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo”.
Nella lettera ai Romani Paolo non descrive soltanto un rito sacramentale: il gesto del rito è segno e iniziazione ad uno stato di esistenza battesimale. Il cristiano prolunga, in ogni momento della sua vita, il significato e la realtà del battesimo, nel dinamismo pasquale di morte-risurrezione. Egli muore, ogni momento, al peccato, all’egoismo, alla carne, all’uomo vecchio, per risorgere alla vita nuova di amore e di grazia, allo Spirito, all’uomo nuovo. Alla base dell’esistenza cristiana c’è, quindi, una tensione dialettica, un conflitto tra un sì alle esigenze della grazia, agli appelli incessanti dello Spirito, e un no alle seduzioni della carne, al peso dell’egoismo e della pigrizia. E tutto questo è croce. Prendere la croce, operare dolorosi distacchi, perdere la propria vita, sono sinonimi di morte al peccato e di apertura agli appelli della grazia. Il cristianesimo «pasquale» non è sinonimo di facilità e di fuga dalla sofferenza. Lo splendore del mattino di Pasqua è sempre preceduto dalle tenebre del Venerdì santo… Per seguire Gesù bisogna passare inevitabilmente per la via stretta. Ma è solo percorrendo questa via che si giunge alla vita, come soltanto chi avrà gettato la sua vita per Cristo la ritroverà.
II Colletta
Infondi in noi, o Padre,
la sapienza e la forza del tuo Spirito,
perché camminiamo con Cristo sulla via della croce,
pronti a far dono della nostra vita
per manifestare al mondo la speranza del tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano