La preghiera è atteggiamento di chi si scopre povero e si apre a stare sotto lo sguardo di Dio sostegno del povero, dell’orfano e della vedova. In Dio nutre fiducia e attesa perché Egli ‘ascolta la preghiera dell’oppresso, non trascura la supplica dell’orfano’.
“Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri. Due uomini salirono al tempio a pregare…”. Luca presenta un insegnamento di Gesù che riguarda la contrapposizione di due modi di pregare, una falsa preghiera e per contro lo stare davanti a Dio in autenticità.
La chiave di lettura di questa pagina è la critica a chi ritiene di essere giusto. Il fariseo e il pubblicano, l’esattore delle tasse, sono presentati in un comune movimento che li accomuna: entrambi si recano al tempio, tutti e due sono ritratti in un momento della preghiera, ma vivono la stessa esperienza due atteggiamenti profondamente diversi.
La preghiera del fariseo è espressione di una tensione religiosa preoccupata dell’osservanza della legge – e tutto questo è buono, positivo, importante: per Israele infatti la legge è cammino di vita è via per accogliere l’incontro con Dio. Ma il fariseo vive questo ripiegato su di sé, in una ricerca di perfezione individualistica e senza compassione. La osservanza scrupolosa nell’ambito della vita ordinaria è centrata sul suo io. Così la sua preghiera esprime la vita di quell’uomo religioso attento a compiere le pratiche rituali, scrupoloso nel praticare il digiuno, puntuale nel pagare le tasse. La sua vita è condotta secondo prospettive di rettitudine: è una vita buona e impegnata. La sua preghiera tuttavia rivela un atteggiamento di fondo che lo rende chiuso all’incontro con Dio perché presenta a Lui solo i suoi buoni comportamenti come suo possesso e come sua affermazione: a Dio non chiede nulla, presenta solo la sua giustizia. Parla con Dio ma si presenta come un padrone tutto preoccupato del proprio io. La sua preghiera è quella di un ricco che offre a Dio le sue ricchezze, ciò che ha accumulato per avere ricompensa. E’ in fondo un tentativo di piegare Dio alla sua grandezza piuttosto che un ricercare il volto di Dio stesso. Inoltre nella sua vita, pur impegnata, c’è senso di superiorità e disprezzo nei confronti degli altri ‘ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri disonesti e adulteri…’.
La sua tensione morale risulta vanificata dalla freddezza nel suo cuore, dall’assenza di un umile affidamento, dal mancare nel riconoscere il proprio limite.
La figura del pubblicano, l’esattore delle tasse, è posta a contrasto. La sua non è una vita irreprensibile ma è segnata dal peccato: esercitava un mestiere mal visto, a servizio della potenza occupante romana nella Palestina del tempo, visto come persona da evitare perché sfruttatore dei poveri. Non si trova a suo agio nel tempio, luogo di culto e per questo rimane in fondo. La sua preghiera si risolve in una semplice invocazione: ‘Dio, abbi pietà di me peccatore’. E’ una sorta di grido e di supplica in cui si riconosce nella condizione di peccato. Non elenca inutili giustificazioni del suo comportamento. Vive un affidamento in verità. In queste poche parole sta ciò che Gesù chiede ai suoi: mettersi in verità di fronte a Lui non ricchi della propria autosufficienza, ma affidando a Lui la propria povertà. Il pubblicano è sincero nel suo rivolgersi senza difese e ponendosi nelle mani di Dio e a lui affidando tutto.
La sua vita è segnata dalla consapevolezza del peccato, dal senso di non farcela con le sole sue forze. Non parla di sé a Dio, ma riconosce la possibilità che la presenza di Dio nella sua vita lo cambi. Riceve il perdono di Dio, accoglie la sua misericordia perché non è prigioniero del suo io, non è ripiegato su di sé. Non è migliore del fariseo, né più umile, ma affida a Dio la sua scontentezza per la sua situazione, il desiderio di cambiare: riconosce il primato di Dio nella sua vita. Affida a Dio il peso che aveva nel cuore nella consapevolezza del suo essere peccatore.
“Io vi dico: questi tornò a casa giustificato”. La preghiera è esperienza di gratuità e di salvezza che viene da Dio e per questo anche nella liturgia nel invocazioni all’inizio , dicendo Signore pietà, e alla fine ‘Agnello di Dio… abbi pietà noi’, riprendono questa semplice preghiera e richiamano all’umiltà quale condizione umana davanti a Dio.
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Sono un frate domenicano. Docente di teologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose ‘santa Caterina da Siena’ a Firenze. Direttore del Centro Espaces ‘Giorgio La Pira’ a Pistoia. Socio fondatore Fondazione La Pira – Firenze.