DOMENICA «DELLA CATECHESI SULLO SCANDALO»
Ci sono dei crocifissi giansenisti con le braccia rigidamente tese verso l’alto, quasi a significare una salvezza ristretta, destinata a pochi, negando lo Spirito che chiama agli spazi immensi della carità. Che contrasto con le immagini di Cristo del medio evo, con le braccia aperte e distese, anche se inchiodate al legno, in un gesto di accoglienza che vorrebbe abbracciare il mondo intero! È questo il modo autentico di essere cristiani: aprirsi alle dimensioni dell’umanità.
Un atteggiamento di comprensione e il rifiuto di qualsiasi monopolio spirituale e religioso dovrebbero dunque caratterizzare il discepolo del Cristo. Nell’antico testamento, Giosuè non voleva riconoscere il carisma profetico di due uomini, che non erano andati alla tenda del convegno. Nell’evangelo, Giovanni non comprende come si possano cacciare i demoni nel nome di Gesù senza appartenere al gruppo dei Dodici. Non succede qualcosa di simile anche a noi quando, col pretesto dell’ortodossia, facciamo coincidere l’appartenenza al Cristo con una scelta particolare di tipo confessionale, sociale o anche politico? Lo Spirito del risorto non può essere l’esclusiva di nessuno; è troppo grande perché si possa circoscriverlo a un gruppo umano, a un movimento a carattere sociale, a una famiglia religiosa; sfugge ad ogni forma di provincialismo ecclesiastico, ad ogni pretesa di impadronirsi del dinamismo di cui è la fonte. E non dimentichiamo che la tentazione di escludere non è più legittima all’interno che all’esterno della chiesa. Nelle nostre assemblee sono molti i piccoli, i deboli, che ci sembrano poco illuminati e puerili nei loro atteggiamenti religiosi e nella loro fede. Ma niente ci autorizza ad emarginarli o a disprezzarli. E ancor meno a scandalizzarli, come se avessimo il monopolio dello Spirito e potessimo rivendicare la libertà di fare qualsiasi cosa.
«Il numero dei giusti che Dio ha chiamato secondo il suo disegno, e di cui è stato detto: «Il Signore conosce i suoi» (2Tm 2,19), costituisce il giardino chiuso, la fontana sigillata (Ct 4,12), il pozzo di acqua viva, il paradiso col frutto dei suoi alberi. Fra tutti costoro, alcuni hanno in sé la vita dello Spirito e seguono la via eminente della carità. …Altri invece, ancora vincolati alla carne e alla natura, lavorano senza posa per progredire nelle vie di Dio; per diventare capaci di ricevere il cibo degli spirituali, costoro si nutrono del latte dei santi misteri; animati dal timor di Dio, evitano le azioni cattive… e vegliano su se stessi per lasciarsi sempre meno attrarre dai beni terreni e passeggeri; cercando attentamente la regola della fede, vi si attengono con fermezza, e se qualche volta sbandano un poco, si lasciano presto riportare sulla retta via dall’autorità cattolica, anche se il loro spirito carnale li porta ancora ad esitare sulla sua dottrina e a vacillare sotto i colpi delle proprie fantasie. Fra costoro c’è anche qualcuno che conduce una vita scandalosa o che persiste addirittura nell’eresia o nelle superstizioni dei gentili. Ma anche in questo caso, «il Signore conosce i suoi». In questa ineffabile prescienza di Dio, molti di coloro che sembrano fuori sono dentro, e molti di coloro che sembrano dentro sono fuori».
(S. Agostino, Sul battesimo, I. V, XXVII, 38)
Iniziamo con la guida della preghiera eucologica:
Antifona d’Ingresso Dn 3,31.29.30.43.42
Signore, tutto ciò che hai fatto ricadere su di noi
l’hai fatto con retto giudizio;
abbiamo peccato contro di te,
non abbiamo dato ascolto ai tuoi precetti;
ma ora glorifica il tuo nome e opera con noi
secondo la grandezza della tua misericordia.
L’antifona d’ingresso, una composizione di versetti dal libro di Dan 3,31.29a.30a.43b.42b, è desunta dalla grande «confessione d’Azaria» (Dan 3,26-46). Il giovane, nella fornace con Anania e Misael per avere rifiutato di adorare la statua di Nabucodònosor, rivolge la confessione al suo Signore. Egli Lo riconosce come giusto quando punisce, e confessa anche il peccato di tutto il popolo, da cui non si desolidarizza, in specie per non avere obbedito ai precetti divini salvifici (vv. 31.29a.30a), che sono ordinati alla sola felicità di questo popolo (v. 30b). Nonostante il fatto, con umile sincerità, adesso l’orante chiede al Signore che proprio in questo momento di prova Egli glorifichi il Nome suo, manifestandolo con opere potenti (v. 43b), secondo l’operazione della sua immensa Misericordia, a cui si impegnò con l’alleanza. Si ha qui un’alta supplica epicletica (v. 42b). Che oggi i fedeli fanno propria, come sempre.
Canto all’Evangelo Cfr Gv 17,17b.a
Alleluia, alleluia.
La tua parola, Signore, è verità;
consacraci nella verità.
Alleluia.
Noi che ogni Domenica ci raduniamo in assemblea orante per celebrare Cristo morto, risorto, asceso al cielo e dispensatore dello Spirito, siamo da lui continuamente spronati a meditare ed operare quanto celebriamo.
Nel’alleluia all’evangelo tratto dalla «Preghiera sacerdotale» (Gv 17,1-27) dove sono adattate due parole del Signore al Padre: «la Parola tua è Verità», e «Santificali nella Verità», queste sono applicate a coloro che ascoltano la proclamazione evangelica
Quel Gesù che, con amore paziente e misericordioso, istruì gli apostoli per unirli a sé e formarli così a vivere la fraternità evangelica fatta di amore gratuito e di servizio, parla a noi oggi ed attende la nostra adesione piena consapevole e generosa»
Sia dalla prima lettura che dall’evangelo emerge una posizione di contestazione: Giosuè si lamenta presso Mosé; gli apostoli fanno altrettanto invocando l’intervento di Gesù. Nel primo caso non si vede di buon occhio il dono della profezia concessa ad Eldad e Medad, colpevoli di non essersi presentati alla “tenda del convegno” per la riunione “istituzionale” convocata da Mosé. Nel secondo, invece, sono gli apostoli a non riuscire ad accettare la possibilità che alcuni, situati al di fuori del privilegiato proprio gruppo, possano usufruire del loro stesso potere dì scacciare i demoni nel nome di Gesù.
Alle proteste di Giosuè e degli apostoli, fanno eco le risposte sconcertanti e profetiche, di Mosé e di Gesù: Mosé profetizza «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!»; non è forse il compito che tutti i cristiani ricevono con il battesimo?
A sua volta Gesù dice: «Chi non è contro di noi, è per noi» sconvolgendo in modo radicalmente innovativo gli apostoli. La risposta, che ha una intonazione proverbiale, sottolinea lo spirito di apertura e di accoglienza di Gesù nei confronti dell’atteggiamento tenuto dai discepoli. Il discepolo puntiglioso e gretto, ma anche profondamente insicuro, mal sopporta che lo Spirito soffi dove vuole, si sente smentito e tradito. Egli pensa infatti: lo Spirito dì Dio non dovrebbe essere solo nelle nostre mani, così che appaia con chiarezza che noi, noi soli, ne siamo i portatori?
I veri amici di Dio godono nel notare come la bontà di Dio si riversa con liberalità non solo sui cristiani e non solo sul nostro gruppo ecclesiale, sul nostro movimento, ecc..
Il Rabbi Ismaele chiese ai suoi discepoli: «Che cosa succede quando il martello picchia contro una roccia?». Gli risposero: «Sprizzano scintille che vanno a posarsi un pò ovunque». E il maestro continuò: «Così è lo Spirito di Dio: manda le sue scintille dove sa di suscitare un pensiero sempre utile a tutta la comunità».
Gesù insegna ai discepoli che il dono dello Spirito di Dio, la profezia e la potenza dello Spirito che agisce vanno riconosciuti, non autorizzati.
Per questo Cristo dice: «Non glielo proibite»; quando c’ è di mezzo il bene, il primo dovere di coloro che hanno potere nella comunità o che semplicemente appartengono alla comunità è quello di non impedire il bene, anzi…
Scrive in un commento il Padre Beda, il venerabile: «Nessuno dev’essere allontanato dal bene che in parte possiede, ma piuttosto invitato a ciò che ancora non possiede», e poi cita il caso di Paolo che di fronte a certi predicatori non onesti diceva: «Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo sia annunciato» (cf. Fil 1,18). Si tratterà di togliere loro l’ipocrisia, ma non di impedire l’annuncio.
Immensa lezione di realismo, di umiltà, di carità, poiché tale è il Mistero del Regno, ai discepoli «donato» (cf. Mc 4,11 a), agli altri portato in parabole (Mc 4,11b), ma per tutti e in tutti. Un avvertimento: i vv. 44 e 46 considerati una ripetizione del v. 48 sono stati omessi dalla critica moderna che con i suoi criteri razionalistici e insindacabili ha espunto dal testo i versetti come ripetizioni inutili [se alcuni manoscritti li omettono (cf ad es. S, B, C, L) sono tuttavia ben attestati da altri codici antichi, a partire da Taziano, secolo 2°] dimenticando che la ripetizione è comune nello stile semitico. Tra il testo latino del Lezionario e quello greco esiste una differenza di numerazione che potrebbe portare alla confusione, il v. 47 latino comprende i vv. 47-48 del greco.
Esaminiamo il brano
v. 38 – «glielo abbiamo vietato»: Giovanni e il fratello Giacomo sono figli di Zebedeo, sono tra i primi chiamati dal Signore, al quale rispondono con immediata e generosa obbedienza (Mc 1,19-20), e il Signore in alcune occasioni importanti li assume con sé come testimoni qualificati [cf Mc 5,37 la resurrezione della figlia di Giairo (Domenica XIII); Mc 9,2 la Trasfigurazione (Domenica II di Quaresima); Mc 14,33 al Getsemani (Domenica delle Palme)],
Il carattere bollente dei due è noto tanto da ricevere un nome caratteristico: “figli del tuono”, Boanèrgés, una trascrizione fonetica dell’ebraico bnê, “figli”, e di una radice che si ritrova in aramaico, reges, che significa “tuono”. In Lc 9,54 Giacomo e Giovanni, vedendo Gesù rigettato dai Samaritani, gli chiedono se non debbono invocare su essi il fuoco dal cielo, ossia la folgore. Nel nostro brano la reazione di Giovanni è più mite, ma sempre intollerante, ha proibito subito: non è del gruppo dei discepoli, e tuttavia espelle con efficacia i demoni, ma nel Nome di Gesù.
Un episodio analogo (cf I lettura) era accaduto quando nel deserto Mose con l’imposizione delle mani aveva donato lo Spirito profetico del Signore a 70 Anziani che lo aiutassero al buon governo delle tribù, ma in modo imprevisto lo Spirito del Signore si era posto anche su “altri” 2 (Num 11,10-26); allora un giovane era corso a dame la notizia a Mosé (Num 11,27), ma Giosuè nel suo zelo giustiziero aveva chiesto a Mosé di proibire ai due di profetare (Num 11,28), Mosé nella sua sapienza, e guardando al futuro, aveva risposto respingendo la gelosia in favore di se stesso, e aveva espresso il desiderio irrealizzato che fosse profeta l’intero popolo del Signore: «Oh, se il Signore avesse posto il suo Spirito su ciascuno di essi!» (Num 11,29).
v. 39 – «non glielo proibite»: Gesù risponde con eguale sapiente moderazione e lungimiranza. Questo non si deve proibire. Chi compie miracoli nel suo Nome, non può profanare questo medesimo Nome. E così, chi non si pone contro i discepoli, lavora comunque a loro favore, per il medesimo Regno dei cieli (Si imporrebbe qui una severa riflessione sull’attuale situazione ecumenica…).
v. 40 – «Chi non è contro di noi…»: Il significato del detto, di chiara intonazione proverbiale, è chiaramente aperto e di una larghezza che accoglie tutti, in netta opposizione alla gretta chiusura manifestata dal discepolo. Ad eventuali critiche si ricorda che pur trovando altrove lo stesso detto (anche se in una forma rovesciata) e con significato invece restrittivo questo non cambia le cose. Nei brani di Mt 12,30 e Lc 11, 23 (tra loro paralleli) si parla di cose diverse e di una situazione in cui non si possono tollerare posizioni intermedie: nella lotta tra Gesù e Satana o si è per l’uno o si è per l’altro.
v. 41 – «Chiunque vi darà da bere…»: Lavora per il Regno anche chi ad esempio soccorre i discepoli nella loro missione, anche, nella sua estrema povertà, solo con un bicchiere d’acqua nel Nome del Signore, poiché li riconosce del Signore, e avrà quindi la sua ricompensa. Il detto si riallaccia al v. 37 e prepara il v. 42. Nei contesti successivi (10,38-39; 14,23.36; 15,36) il termine potḗrion («coppa», «calice») ha l’idea del calice della sofferenza. Ma qui è diverso. Matteo inserisce questo detto nel suo discorso missionario (vedi Mt 10,42) e specifica che il beneficiario è «uno di questi piccoli».
«nel mio nome perché siete di Cristo»: la frase richiama 1 Cor 3,23 (ma anche Rm 8,9; 1 Cor 1,12; 2 Cor 10,7) e spiega quel «nel mio nome» che vuole perciò indicare che tutto viene fatto per amore di Cristo, a cui i discepoli appartengono e da cui sono inviati (apostoli). Il termine «nome» (ónoma) lega questo detto a 9,37-39. L’uso del titolo «Cristo» è anomalo nel contesto di un discorso dello stesso Gesù e potrebbe essere indice di una situazione dopo la risurrezione. Mentre 9,37 riguarda l’accettazione degli altri (in special modo le nullità sociali) nel nome di Cristo, questo detto riguarda gli estranei che si mostrano gentili verso i discepoli nel nome di Cristo.
«in verità io vi dico»: Marco usa la solenne formula introduttiva:«amen» (si veda anche 3,28; 8,12; 9,1; 10,15.29; 11,23; 12,43; 13,30; 14,9.19.25.30.
«la sua ricompensa»: Non è specificata la natura della ricompensa né quando verrà data (presente o futura/escatologica).
v. 42 – «Chi scandalizza»: Procede l’insegnamento divino, sul medesimo argomento, la catechesi sullo “scandalo dei piccoli”. Questa grave violenza spirituale contro i poveri e umili che credono nel Signore è punita con severità (cf Zacc 13,7).
Il termine greco skandalízō già per l’A. T. traduce l’ebraico mikšol, che indica un ostacolo (una pietra, una radice, un tronco) che, urtato dal piede, fa cadere a terra; già nell’A. T. assume il senso morale del porre insidie per far cadere spiritualmente e moralmente. In questo senso, proclama Gesù, chi ne scandalizzerà anche uno solo dei “piccoli” cercando di deviarlo dalla fede, è meglio per luì che, consapevole del delitto, si getti in mare, però essendosi prima legato al collo una pesante macina, quella enorme fatta girare dall’asino.
«una macina da mulino»: L’espressione mýlos onikòssi riferisce alla macina superiore di un grande mulino (mýlos) che era azionata da un asino (onos) e serviva a macinare il grano. La macina da mulino sarebbe certamente servita da zavorra o da peso tale da assicurare che la persona colpevole morisse per affogamento. La evidente esagerazione rende bene l’idea della gravità dell’indurre al peccato quelli che hanno una fede semplice.
L’esecuzione capitale per annegamento, reso più celere da grosse pietre legate al collo, era stato introdotto in Palestina dai Romani. Questa esecuzione capitale è da noi conosciuta e allegramente diffusa ad es. nei films picareschi, con i terribili tre giri di chiglia o la variante della passerella con sotto gli squali, ma ancor più famosi sono gli “stivaletti di cemento” delle esecuzioni criminali mafiose. Drammaticamente dobbiamo constatare come la memoria di queste esecuzioni non sia solo cinematografica ma tristemente reale ed attiva ancora oggi: gli antichi e nuovi schiavi gettati in mare dai loro traghettatori davanti al pericolo di essere fermati!
vv. 43-48 – Ecco ora la catechesi sullo scandalo che si infligge a se stessi, che spesso è inavvertito e diventa quasi sempre abituale. Il Signore combatte questa specie di scandalo a partire dal simbolismo organico: una mano di due è meno del corpo intero (v. 43), un piede di due anche (v. 45) e così un occhio di due (v. 47). L’idea non è nuova nè ha il segno dell’originalità ma come sempre è frutto di uno sguardo attento a cogliere ciò che accade all’uomo. La lotta per la vita che quotidianamente l’umanità affronta e che tutti, allora come oggi, conosciamo perfettamente fa immediatamente comprendere e valorizzare ciò che Gesù dice.
Per 3 volte il Signore consiglia di tagliarsi quella mano o quel piede o quell’occhio che scandalizza l’intero corpo. In questo modo si sarà sì zoppi o monchi o orbi, ma si avrà almeno la possibilità di entrare nella Vita eterna, mentre nell’integrità fisica ma peccatrice del corpo si entrerebbe nella gehenna eterna.
Isacco di Antiochia invita a combattere il peccato nell’anima e non nel corpo (leggi letture patristiche): «Vi sono adulteri ciechi e ladri monchi; non pensare, perciò, che la causa dei peccati sia nella mano o nell`occhio. Ma è il tuo spirito piuttosto che vede qualcosa e lo brama; contro di lui devi combattere. E` la bramosia cattiva che ti è di impaccio: taglia essa via da te e gettala lontano: ciò ti è comandato. (…) Combatti contro la tua anima! Ciò che è esterno non è in te causa di peccato: con l`interno devi sostenere battaglia. Ma anche se riuscissero a tagliare dal loro corpo la concupiscenza malvagia coloro che si son mutilati delle proprie stesse membra, non otterrebbero con ciò la giustizia. Anche l`Apostolo, come abbiam visto sopra, biasima quei vili che sono crudeli col loro corpo, ma non vivono in onore, come conviene. Secondo la tua idea, quale tuo membro sarebbe tanto aggravato di peccati che, amputando esso solo, tu possa allontanare il male dal tuo corpo?
Il pazzo si recide le membra, ma non allontana, con ciò, il male da sé. Una parte del suo corpo in tal modo è stata asportata e gettata, ma il peccato è ancora attivo in lui. Le membra ubbidiscono alla tua anima come docili discepoli, e configurano le loro azioni secondo il modello da essa proposto.
All`uomo esteriore corrisponde quello interiore, e l`uomo percepibile al di fuori è simile a quello nascosto, all`uomo spirituale. Anche l`uomo interiore ha occhi, ha orecchie e mani, proprio come quello esteriore e ha i suoi sensi. Chiudi i tuoi occhi e comprenderai che non solo l`organo visivo corporeo può vedere; tappa le orecchie e odi il tumulto dei tuoi pensieri!».
La clausola apposta e ripetuta al consiglio di amputarsi le membra di peccato è deterrente, e si richiama al simbolismo dei Profeti (Mc 9,48): la gehenna ha il fuoco inestinguibile, e ha il verme divoratore che non muore (Is 66,24). La retta comprensione della terribile fine giustifica, rende comprensibile e doverosa la necessità della ripetizione, ancor più per noi “moderni” ormai diventati così “aridi e taccagni” nell” annunciare le realtà future quanto “loquaci e pomposi” nel proporre gli inganni del “mondo”.
La clausola deve essere riletta anche dopo i vv. 42 e 44, come esige il simbolismo semitico ripetitivo, come sta in ottimi codici e come le Chiese d’Oriente e d’Occidente hanno sempre letto.
Che significa questo simbolo preciso, che la gehenna ha il “fuoco inestinguibile”? Nel “discorso di missione” di Matteo (10,1-11,1), il Signore afferma che un discepolo deve temere chi può “uccidere” (apokténnò, o apoktéinó) solo il corpo, ma che al contrario “si deve temere Colui che può “distruggere” (apóllymi) sia l’anima sia il corpo nella gehenna” (Mt 10,28; cf Dom Xn Tempo Ord. A), o “gehenna di fuoco” (Mt 5,22).
Si sa che il termine gehenna viene al greco dall’aramaico gehinnam, a sua volta dall’ebraico ge-hinnom. Esso ha subito spiegazioni etimologie varie, ma di esse vanno tenute le due affini:
1. “Valle delle urla di pianto” (Gios 15,8; 18,16), espressione spiegata da Geremia come la “valle dell’uccisione” dei bambini, ivi offerti nel fuoco al dio Molek o Moloch (Ger 7,32; 19,6).
2. Tipico di questa valle di antichi sacrifici umani, era lo scarico delle immondizie di Gerusalemme, a cui si dava fuoco, e qui va notato meglio che il fuoco sempre acceso, “inestinto” se non “inestinguibile”, consumava le immondizie, e che le immondizie erano “distrutte” per sempre.
Gesù parla di “gehenna”, quindi di fuoco permanente (non dice “eterno”). Poi parla di sostanze che in tale fuoco sono gettate, e che da esso sono “distrutte”, greco apóllymi (al futuro aoristo; l’aoristo dice in maniera definitiva, per sempre), anzitutto l’anima e poi il corpo (Mt 10,28). Questo fuoco è permanente, perenne (Gesù dice anche fuoco “eterno” in Mt 18,8), ma finché non abbia divorato e distrutto, annullato, le sostanze che gli sono gettate in preda. Poi è inutile. L’apposizione «nel fuoco inestinguibile» a quanto sembra è derivata da Isaia 66,24, che viene citato al termine del brano in Mc 9,48. [44]. La citazione di Isaia 66,24 che si trova in tutte le migliori testimonianze testuali in Mc 9,48 e che compare in parte alla fine del v. 43, in alcuni manoscritti meno affidabili è inserita anche alla fine dei primi due detti dello «scandalo» nel presente brano (vv. 44 e 46). Questo spiega perché nella maggior parte delle traduzioni moderne quelli che dovrebbero essere i vv. 44 e 46 sono omessi (visto che la numerazione era basata sul cosiddetto Textus receptus, che attualmente non è ritenuto basato sui manoscritti migliori).
v. 43 – «andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile»: Il verbo «andare» ha il suo parallelo nel passivo (divino) «essere gettato» dei vv. 45 e 47.
v. 47 – «entrare nel regno di Dio»: L’espressione «entrare nella vita» dei vv. 43 e 45, nel v. 47 è sostituita con «entrare nel regno di Dio», stabilendo così un’equivalenza o quantomeno un parallelismo tra vita e regno. La variazione serve a precisare che il genere di vita di cui parla Gesù è la vita eterna con Dio e non semplicemente la felicità terrena. Prepara inoltre il campo per il radicale insegnamento riguardo a quanto sia difficile entrare nel regno di Dio in Mc 10,1-31.
v. 48 – «dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue»: La citazione è basata (con qualche modifica) sulla versione LXX di Is 66,24, l’ultimo versetto del libro di Isaia. In Is 66,14-24 il detto si trova nel contesto escatologico della riunificazione di tutto Israele e di tutti i popoli e alla venuta «di nuovi cieli e di una nuova terra». Isaia 66,24 costituisce la minaccia definitiva contro quelli in Israele che si sono ribellati a Dio e li avverte che tutti i colpevoli andranno incontro a una punizione eterna (anziché all’annientamento). Per il «fuoco» e i «vermi» come strumenti della punizione escatologica si veda Gdt 16,17: «Guai alle genti che insorgono contro il mio popolo: il Signore onnipotente li punirà nel giorno del giudizio, immettendo fuoco e vermi nelle loro carni, e piangeranno nel tormento per sempre».
La citazione di Is 66,24 non compare nel passo parallelo di Mt 18,8-9, ma la sua presenza in Mc 9,48 con il riferimento al «fuoco e sale» costituisce il legame verbale con il detto del «fuoco e sale» di 9,49 e porta all’inserimento di altri due detti riguardo al «sale» in 9,50.
v. 49 – «Ognuno infatti sarà salato con il fuoco»: Il primo dei tre detti del «sale» sembra trarre origine dal potere purificatore del sale. Le immagini del fuoco e del sale che contiene molto probabilmente si riferiscono ad un periodo di prova e di purificazione prima della venuta del regno di Dio nella sua pienezza. Altri manoscritti parlano del ruolo del sale nei sacrifici secondo Lv 2,13b: «sopra ogni tua offerta offrirai del sale». Nei manoscritti infatti esistono altre due versioni di Mc 9,49: «Ogni offerta infatti dovrà essere salata con il fuoco»; e «Ognuno infatti sarà salato con il fuoco, ed ogni offerta sarà salata con il sale». La terza versione è una combinazione delle prime due letture. La seconda versione probabilmente ha avuto origine da una nota a margine di uno scrivano che voleva far notare un possibile legame con Lv 2,13b. La prima lettura (molto probabilmente quella originale) potrebbe avere qualcosa in comune con la versione Q del detto di Giovanni Battista riportato in Mt 3,11/Lc 3,16: «Egli vi battezzerà in Spirito Santo (o più probabilmente, vento) e fuoco».
«ma se il sale diventa insipido, con che cosa gli darete sapore?»: I commentatori fanno puntualmente notare che tecnicamente il sale non perde mai completamente il suo sapore, ma può diventare talmente contaminato o diluito che è poi difficile riconoscerne il sapore (vedi Gb 6,6; Mt 5,13; Lc 14,34-35). Il secondo detto del «sale» tuttavia non riguarda la chimica. Riguarda invece l’uso del sale come condimento e come conservante. Qui ci potrebbe essere un riferimento al ruolo dei discepoli di Gesù come «sale della terra» (Mt 5,13) e distributori di sapienza spirituale (vedi Col 4,6, che contiene anch’esso il verbo artýō: «Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza, per sapere come rispondere a ciascuno»).
«Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri»: Il terzo detto del «sale» allude all’uso del sale nel concludere alleanze e nelle offerte di sacrifìci: «Nella tua oblazione [di grano] non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio» (Lv 2,13a; vedi anche Nm 18,19; 2 Cr 13,5). Esorta caldamente i discepoli di Gesù a coltivare l’ospitalità e la pace (vedi 1 Ts 5,13).
Chiudiamo con la preghiera II di colletta la quale ci ricorda che il Signore non lascia disattesa la preghiera di quanti si rivolgono a Lui per una parola di salvezza; continuamente e in modi diversi Cristo dona il suo Spirito per istruire quanti si raccolgono attorno a lui.
O Dio, tu non privasti mai il tuo popolo della voce dei profeti;
effondi il tuo Spirito sul nuovo Israele,
perché ogni uomo sia ricco del tuo dono,
e a tutti i popoli della terra siano annunziate
le meravìglie del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…