Commento al Vangelo di domenica 26 Gennaio 2020 – Comunità Kairos

Sia Matteo che Marco (Mc 1,14) situano l’inizio del ministero di Gesù dopo il termine di quello del Battista. L’arresto di Giovanni Battista costituisce per Matteo la causa che determina l’inizio dell’attività di Gesù e il suo spostamento dal piccolo villaggio di Nazaret alla pianura cosmopolita e commerciale di Cafarnao, dove prenderà dimora presso la casa di Pietro. Il verbo “essere consegnato” (paradidomai) è lo stesso che verrà utilizzato per indicare l’arresto di Gesù e quindi è già prefigurazione della sorte che lo attende.

Il motivo per cui Gesù si ritira non è il desiderio di sfuggire a una fine simile a quella di Giovanni Battista: anche la Galilea era sotto la giurisdizione di Erode Antipa. Sembra piuttosto una scelta di campo. Gesù lascia Nazaret, dove si è compiuta una profezia (Mt2,23), per andare ad abitare a Cafarnao, sempre per adempiere a una profezia, quella di Isaia, di cui Matteo riporta una parte ai vv.15-16. La profezia di Isaia 8,23-9,1 era un oracolo di speranza dopo la devastazione della Galilea operata dagli Assiri nel 732 a.C. La deportazione delle tribù di Zabulon e Neftali aveva provocato nella regione un tale rimescolamento etnico da meritarle il nome di “curva delle genti” ( ghelil ha- gojim, cioè Galilea). La regione venne poi rigiudaizzata nell’epoca dei Maccabei, ma rimase sempre caratterizzata da una popolazione mista di ebrei e pagani. La scelta di Gesù stravolge quindi il modo di pensare un messia atteso a Gerusalemme, ovvero nel cuore del giudaismo.

Invece egli parte da una regione periferica, generalmente disprezzata e contaminata dal paganesimo. Ma proprio tutto ciò che costituisce una sorpresa, è per Matteo il compimento di un’antica profezia e il segno rivelatore del messianismo di Gesù: un messianismo universale che rompe con decisione ogni forma di particolarismo.

La luce della speranza e della liberazione, per Isaia prenderà corpo in un bambino (Is 8,5) “Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”. Non possiamo che trarre una conclusione: la luce che illumina il popolo è Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, nonché Salvatore. Egli qualificherà se stesso come “luce del mondo” e Giovanni lo definirà come “luce che brilla nelle tenebre”. Per Matteo, quindi, Gesù è la luce che, apparsa in Galilea, vista anche dai pagani nell’apparire della stella (2,2) e che si manifesterà nella trasfigurazione ai discepoli (17,2), pone fine alle tenebre del mondo.

Le parole dell’inizio della predicazione di Gesù sono le stesse di Giovanni Battista (3,2). Però in Giovanni l’accento era posto sulla conversione, mentre in Gesù l’importanza è data all’avvento del regno dei cieli. “Il Regno di Dio è vicino” vuol dire che Dio è nella vita dell’uomo in Gesù, suo Figlio; Dio non è l’assente. Dio Salvatore si prende cura della povertà umana, della condizione umana. Se Dio è vicino, è una offerta di vita che passa vicino ad ogni uomo. Accettare, dunque, la sovranità di Dio sulla nostra vita e affidarsi alla forza del vangelo significa afferrare la salvezza che è venuta agli uomini gratuitamente, per libera e sovrana iniziativa di Dio, volgersi in uno slancio vitale verso la novità, più che in una penitenza di mortificazione per il passato.

L’iniziativa di Dio irrompe nella quotidianità della storia degli uomini. Il mare della Galilea rappresenta la vita caotica, non ordinata. In questo caos Gesù passa e chiama due coppie di fratelli: Simone, che riceverà il nome nuovo, Kèfà’, Pietra, Pietro (cfr. Gv 1,42) e Andrea, e subito dopo Giacomo e Giovanni. Non vi è quindi alcuna candidatura al discepolato, contrariamente all’usanza del tempo. La chiamata da parte di Gesù è grazia, è dono. E’ Dio che prende per primo l’iniziativa di intercettare la nostra vita (Gv 15,16) “Non siete stati voi a scegliere me ma io ho scelto voi”. Gesù rivolge loro un invito che è piuttosto un comando, rivelando un’autorità straordinaria che intima una scelta totale ed esclusiva. E i fratelli scelgono, apparentemente facendo delle scelte precipitose e avventate: Simone ed Andrea lasciano le reti, ossia il loro strumento di lavoro, quello che permette la loro sopravvivenza; Giacomo e Giovanni lasciano il padre e la barca, cioè abbandonano la sfera vitale ed affettiva. Il “subito” appare come un’impossibilità di proroghe, di rimandi. Gesù con una definitività tipica del profeta escatologico, esige una pronta ubbidienza.

La promessa di fare di loro dei “pescatori di uomini” vuole indicare il loro ufficio apostolico: fare altri discepoli o essere loro stessi maestri. La frase potrebbe anche essere un’allusione a Ger 16,16:

«Ecco, io invierò numerosi pescatori a pescarli».

L’elemento determinante di questa chiamata è lo stare con Gesù, condividere l’esperienza di Gesù. Si legge nel vangelo di Giovanni: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore” (12,26). L’agire dei discepoli ci svela l’esatta natura della conversione preannunciata dal Battista e realizzata dal Signore: la metanoia, quel cambiare mentalità più che il mestiere. La loro risposta esprime la fede per cui il discepolo senza chiedere spiegazioni si affida interamente a chi chiama. Una fede che nasce dalla seduzione di una parola con l’entusiasmo dell’innamoramento (Ger 20,7). Esprime anche il distacco più radicale, dove però si abbandona qualcosa perché si è trovato Qualcuno, dove la perdita è compensata dal guadagno. Tale risposta è soprattutto sequela. Perché ciò che qualifica il discepolo di Gesù non è tanto il termine “imparare”, ma il verbo “seguire”, cioè condividere il progetto di vita del Maestro. E’ facile dirgli subito: “Sì” , ma i discepoli impareranno presto, e noi con loro, che la vera difficoltà sta nella perseveranza della sequela, in mezzo alle tempeste della vita che metteranno sempre alla prova la nostra fede. Una volta colto lo schema del racconto, siamo in grado di scoprire la vera intenzione dell’evangelista, che non è semplicemente quella di narrarci un episodio di cronaca, ma mostrarci la chiamata- risposta dei primi discepoli per rileggere la storia della nostra vocazione, che ha alla sua radice una grazia, un amore. (Rm 10,20) “Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano”.

La decisione importante è allora quella di lasciarsi conquistare, di non fuggire come Giona, di non chiudere gli occhi davanti a tutti i segni, spesso strani e inattesi, che Dio ci fa balenare dinnanzi. Seguire Gesù significa rinunciare al proprio progetto e rimettersi nelle sue mani.

Il v. 23 insieme ai vv. 24-25 fanno da sintesi dell’attività di Gesù in Galilea indicandone l’efficacia. Gesù è il Servo di Jahvé che «ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie» (cfr. Is 53,4). Il discepolo di Gesù è colui che con il Maestro si muove per insegnare, annunciare, guarire, percorrendo le rive delle odierne Galilee perché tutto il mondo ridiventi sano. Ci è richiesta la disponibilità a una trasmigrazione perenne, che fa di noi viandanti ed emigranti (lo straniero della 1Pt) e non stabili possessori di terre e di culture. Viandanti sì, ma di luce, come ama definirci Giancarlo Bruni. Portatori di una luce che è segno della regalità di Dio nei nostri cuori. Ecco il Regno di Dio, che intercetta il desiderio di giustizia, di diritto e di pace di ogni uomo e si realizza nell’obbedienza all’ascolto della Parola di Gesù: “Seguimi!”.

Commento a cura di Annalisa Greco

Fonte: Comunità Kairos (Palermo)


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