Domenica «DEL PASTORE BUONO»
Guidati e illuminati dalla liturgia pasquale, continuiamo a penetrare le «insondabili ricchezze» del mistero di Cristo. In questa Domenica ciò che la parabola del buon pastore vuole mettere in luce è la dedizione del pastore e non la docilità delle pecore, docilità che può evocare passività e conformismo. Gesù non ci invita a rinunciare alle nostre responsabilità né ad una confidenza cieca.
«Io sono il buon pastore» – dice Gesù – colui che merita di esserlo, in opposizione a tutti coloro che solennemente si proclamano guide dei popoli e che cercano invece potere e successo. Cristo non è il capo che agita le folle. Egli propone a ciascuno quell’intimità unica che unisce lui, il Figlio, al Padre. Egli non adula la buona coscienza del piccolo gregge fedele, volentieri sprezzante delle pecore malate, o condiscendente verso quelle che non appartengono allo stesso pascolo: «Ho ancora altre pecore che non sono di questo ovile…». Gesù stesso ci indica il segno da cui possiamo riconoscere il vero pastore: il dono della vita. Ma non nel modo sempre un po’ disperato in cui gli uomini migliori danno la loro vita, perché non possono più tornare indietro senza tradirsi. Solo Cristo può dire: «Nessuno può prendersi la mia vita». All’uomo che faticosamente va incontro alla morte, Cristo rivela la totale libertà del Figlio che solo per amore si offre alla morte per vincerla. A noi, che troppo spesso subiamo il nostro destino e non pensiamo che a schivare i colpi della sorte, Gesù vuole insegnare a capire la nostra vita, ad accogliere le nostre piccole morti quotidiane e la nostra morte finale.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 32,5-6
Della bontà del Signore è piena la terra;
la sua parola ha creato i cieli. Alleluia.
Quest’inno è per intero una poetica e forte dossologia al Signore. Esso in specie è prezioso per la teologia soprattutto per i vv. 6 e 9, che cantano il Signore per l’irresistibile sua Potenza divina creatrice. Con totale facilità infatti Egli crea l’universo con la sua Parola (v. 6a) e con lo Spirito suo (v. 6b), parla e comanda, e tutto esiste (v. 9; rinvio immediato è a Gen 1,1–3.6-7.8-31; a Gdt 16,7; Sap 9,1; Gv 1,1-3; Ebr 11,3 e 1,1–4). Per questo motivo il Signore con la sua Misericordia, ossia il suo comportamento dell’alleanza fedele, riempie la terra intera, l’intero spazio-tempo dell’esistenza (v. 5b; anche 103,24; 118,64; Is 6,3; 11,9; Ab 3,3). Sì che ne gioiscono e lodano i giusti e retti di cuore, celebrando il Signore con Salmi, con il «cantico nuovo», il grande grido di giubilo che sale al cielo (vv. 1-3), a motivo della Parola giusta e dell’Opera fedele del Signore (v. 4). I Padri a partire da testi così densi ed essenziali svilupparono pagine mirabili di teologia trinitaria.
La Parola e lo Spirito del Padre sono i fattori della Resurrezione del Figlio e della Pentecoste sui discepoli, e proprio questa è la divina Misericordia finale che riempie la terra. L’Alleluia finale si pone come la nota del giubilo adorante e laudante di oggi che poi prosegue con l’alleluia dell’Evangelo:
Canto all’Evangelo Gv 10,14
Alleluia, alleluia.
Io sono il buon pastore, dice il Signore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.
Alleluia.
Nell’espressione «Io sono il Pastore Buono», si distingue la formula giovannea «Io sono», che rinvia direttamente all’indicibile rivelazione che il Signore, nascosto ma presente nel Roveto che arde e non si consuma, fa a Mosè del suo «Nome» divino, la sua stessa Esistenza ed Essenza personale: IHVH, «Colui che unico esiste», in greco ho Kyrios, «il Signore» (Es 3,14.16). Il Signore Unico si rivela inoltre qui come Colui che dopo il primo e il secondo esodo (per quest’ultimo, Ez 34), si è fatto di nuovo il Pastore che con Bontà amorevole percorre la strada insieme al suo gregge verso la Patria, come aveva promesso (Is 40,11; Ez 34,12.23; Zacc 13,7) e come adesso realizza (Gv 21,15.17; Ebr 13,20; 1 Pt 2,25; 5,4; Ap 7,17). Quest’amore causa e fonda la conoscenza del Pastore con le pecore sue e di queste con Lui (10,27; Na 1,7; 2 Tim 2,19). È una conoscenza specifica, quello stretto rapporto biblico che è anzitutto di amore nuziale. Esso è significato anche dalla formula dell’alleanza o di appartenenza reciproca, «mie pecore», che indica possesso e fedeltà. Il testo così orienta la lettura dell’Evangelo di oggi, indicandone i punti di forza.
La liturgia odierna ci presenta Gesù come «buon pastore» che spontaneamente offre la sua vita per le pecore»: sono immagini che appaiono ormai piuttosto sbiadite e che risultano estranee alla nostra esperienza e mentalità moderna. A sentir parlare di pastore, pecore e ovile, oggi, si prova un certo disagio; risulta arduo familiarizzarci con questi simboli, che invece facevano parte del patrimonio e della storia di Israele ed erano facilmente comprensibili da parte degli ascoltatori di Gesù. Questa figura oggi appare molto sbiadita e per non urtare le sensibilità moderne critichiamo le visionarie del basso Medioevo, più che altro resocontiste dell’immaginario popolare nordico, le quali affermavano che Gesù si presentava ad esse così: «Alto, biondo, con gli occhi azzurri, bello come un principe tedesco» (così, tra le altre, Mechtilde[1]), oltre tutto esibendo il cuore, retto nella mano o sul petto.
L’immaginario popolare seguitava poi a rappresentarsi la parabola del Buon Pastore vestito di bianco, con tanto di bastone e reggendo l’agnellino sulle spalle (qui interpretando la parabola della Misericordia divina, Lc 15,4-7), e con il cuore fuori, sul petto. Brutte rappresentazioni del Pastore divino si trovano ancora in libri di devozione “popolare”, in realtà indotta da correnti religiose, e in “santini” e “ricordini” diffusi dappertutto.
L’azione di cura delle anime della Chiesa trae nome proprio dal Pastore Buono, tanto che in modo significante si chiama “pastorale” a preferenza di qualsiasi altra immagine. Parrocchie, ordini religiosi, case di esercizi, cliniche, case di recupero per persone difficili, sono intitolate al «Buon Pastore». Però del Pastore divino non si vede lo sviluppo che comporterebbe il suo implicito teologico e spirituale, che è enorme e decisivo, e come tale attende sempre l’esplicitazione lungo le generazioni cristiane. Infatti, non si può dire che come tema vitale il Pastore occupi uno spazio costante negli studi teologici, e quindi nella catechesi appare solo qua e là.
«Per essere realisti diciamo subito che la figura del pastore, come si presenta nella Bibbia e nel mondo biblico, è una figura drammatica, una figura dura e drammatica: non c’è Arcadia, non c’è riposo, non ci sono soste meridiane sotto il rezzo delle piante… È vero che abbiamo cantato adesso il Salmo 23, ma anche su questo bisogna stare attenti: guardiamoci dalle dolci melodie de II Signore è il mio pastore, forse bisognerà che le cambiamo o, addirittura, che non le cantiamo più, se ci possono indurre in equivoco. Anche in questo salmo, al di là di quello che può avere di dolce e di rassicurante, c’è il dramma e, infatti, si parla di un avversario presente. Sì, il pastore ci introduce nelle acque di riposo, dice il salmo, nelle acque salutari e nei pascoli ameni (cfr. v. 2), però c’è la presenza dell’avversario» (di Giuseppe Dossetti, dalle Omelie del Tempo di Pasqua).
La figura del Cristo pastore è dunque un autentico mistero o, meglio, è una delle dimensioni del mistero cristiano, particolarmente del mistero pasquale. Tuttavia se le Immagini sono un po’ stinte, le parole che le accompagnano conservano intatta la loro freschezza e trasparenza di significato.
«Buono», «offrire la vita», «conoscere», «condurre», «radunare» sono termini che appartengono al nostro linguaggio e possiedono una notevole forza evocativa.
È utile, come siamo soliti fare, collocare il brano nei suo contesto, per poi fissare alcuni punti caratteristici. La pagina evangelica del Buon Pastore è costituita da 21 versetti che la liturgia divide in tre parti, una per ogni anno dei suoi cicli (A vv. 1-10; B vv. 11-18; C vv. 19-30).
La collocazione cronologica di questo discorso è incerto; tuttavia nella mente dell’evangelista, esso non deve essere stato pronunciato molto dopo la guarigione del cieco nato. Il brano appare la continuazione logica dei capitolo precedente e ben si inserisce nella crisi che, in occasione della festa della Dedicazione[2] (cfr. v. 22), oppone in maniera sempre più aspra Gesù e i capi giudei, e che nell’episodio della guarigione del cieco aveva raggiunto una punta drammatica. Alla fine di questo discorso (vv. 19-21) la folla ben disposta menziona tale segno straordinario, per confutare i giudizi negativi dei giudei sul Maestro.
In aggiunta possiamo dire che Gv 10,1ss sembra il commento dei fatti narrati in Gv 9,24-41, culminati con l’espulsione del testimone di Cristo e con l’accecamento volontario dei nemici di Gesù. Molteplici sono i problemi di critica letteraria sollevati dagli autori moderni e presenti in Gv 10: uno di questi prende in considerazione ad esempio l’ordine primitivo dei singoli brani che formano questo capitolo[3] e di cui diamo qualche esempio nella nota a fondo pagina.
L’ipotesi degli spostamenti in teoria è possibile, essa però rimane gratuita e non appare esente dal pericolo del soggettivismo non potendo essere provata con argomenti obiettivi.
Il giudizio di H. Strathmann sui vari tentativi per ricostruire l’ordine primitivo di questo capitolo si rivela molto saggio: «Quali intenzioni avrebbe avuto un tardo rielaboratore di questo testo per maltrattare a questo modo un testo originario meglio ordinato? È assai più raccomandabile prendere il testo cosi com’è; forse che lo si spiega meglio costatando che gli è mancata un’elaborazione conclusiva, che vi mettesse un po’ d’ordine?»
Credo che queste parole siano valide anche per noi.
Il discorso di Gesù prende il via da un enigma; abbiamo già detto (vedi ciclo A) come Gesù usi un linguaggio oscuro, infatti il termine adoperato qui dall’evangelista, al v. 6 («paroimìa») non significa né parabola, né propriamente allegoria, ma designa un modo di insegnamento simbolico, segreto, che prepara ed esige la rivelazione “aperta”.
I discepoli comprenderanno solo dopo che sarà loro donato lo Spirito santo (cfr. cap. 14-16). In questo enigma, il cui significato può essere colto solo con un riferimento marcato alla persona di Cristo e con la coscienza della sua Morte e Resurrezione, le immagini da cogliere sono tre:
- porta,
- pastore,
- pecore.
Tutto il brano è costruito in modo da porre in evidenza la figura di Gesù quale Buon Pastore (che è il tema della nostra pericope). Cristo, di fronte ai “mercenari”, quali si rivelano essere i responsabili religiosi del suo tempo, afferma di essere lui il Buon Pastore e traccia le linee caratteristiche della sua funzione pastorale:
- dare la vita per il proprio gregge
- conoscere le singole pecore
- operare una riunificazione ecumenica.
«L’attestazione della Chiesa primitiva, in quegli scritti che riprendono il tema del pastorato non più solo di Dio ma di Cristo, è proprio questa: è l’esperienza, trasmessa in modo diretto da coloro che l’hanno vissuta, di un gregge disperso, di un pastorato in cui il pastore è stato colpito. Loro lo sanno che se il Cristo non fosse risorto, il gregge, nonostante tutti gli insegnamenti, le dottrine e gli esempi ricevuti, sarebbe rimasto per sempre disperso; sanno che solo la risurrezione, solo la vittoria di Cristo sul pastore dell’umanità, cioè sulla morte, riunisce il gregge. Se il Cristo non fosse entrato nel regno della morte a strappare tutto il gregge dalle sue mani (cfr. 1 Pt 3,19; 4,6), il gregge non avrebbe più potuto essere libero» (di Giuseppe Dossetti, dalle Omelie del Tempo di Pasqua). Ricordiamo qui anche l’antifona alla Comunione dove si mettono in rilievo i temi della “Resurrezione” del “Buon Pastore” che “dà la Vita” per il “Suo” gregge:
È risorto il buon pastore,
che ha dato la vita
per le sue pecorelle,
e per il suo gregge
è andato incontro alla morte. Alleluia.
Infine Gesù riporta il tutto alla sorgente ultima della sua missione: il proprio rapporto privilegiato di comunione col Padre all’insegna della libertà.
Il brano non ha corrispondenza con gli altri evangeli, anche se il tema pastorale è da essi ampiamente utilizzato. La tradizione sinottica più vicina alla pericope giovannea è il breve paragone usato per descrivere la compassione di Gesù per la folla che andava da lui «perché erano come pecore senza pastore» (Mt 9,36; Mc 6,34). Anche un altro testo, nel racconto della Passione, preannuncia lo scandalo dei discepoli citando il passo di Zc 13,7: «Percuoterò il pastore (Gesù) e saranno disperse le pecore del gregge» (Mt 26,31; Mc 14,27). Meno vicina per il contenuto, non ancora cristologico, è la parabola della pecora perduta (Mt 18,1 2-14: Lc 15,4-6). Invece «le pecore disperse della casa di Israele» (Mt 10,6; 15,24) richiama più direttamente la denuncia profetica e la promessa di Ez 34; 37,24 e Zc 11,17.
Questi testi veterotestamentari [cfr anche il Sal 23(22)] costituiscono lo sfondo storico-teologico di Gv 10.
I lettura: At 4,8-12
La prima lettura odierna è tolta ancora dagli Atti, il libro pasquale per eccellenza perché contiene l’annuncio, continuamente ripetuto dagli apostoli ai giudei e alle genti, del Cristo morto e risorto e della salvezza che in lui ci è donata.
Il cap. 3 degli Atti ci aveva narrato il miracolo dello storpio, guarito da Pietro che saliva al tempio con Giovanni. Alla richiesta del povero che sperava di ricevere qualcosa da lui, Pietro, fissandolo, gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quanto ho, te lo dono: nel nome di Gesù messia il nazoreo, cammina!» (3,6).
Questo miracolo, che aveva riempito di stupore la folla, suscita invece l’indignazione dei sommi sacerdoti, perché Pietro, parlando al popolo dopo il miracolo, annunciava “in Gesù la resurrezione dei morti” (Atti 4,2). I capi, indignati, fanno imprigionare Pietro e Giovanni per interrogarli sul miracolo avvenuto. È la prima volta che gli apostoli, nella loro missione, di testimoni del Risorto, sono messi a confronto con l’autorità ufficiale. Gli stessi sacerdoti che hanno processato Gesù, sono quelli che interrogano gli apostoli. Essi che con la crocifissione di Gesù avevano creduto di potersi liberare definitivamente di lui e della sua inquietante dottrina, si scontrano ora di nuovo con «quell’uomo» che essi credevano morto, ma che è invece il «vivente»: nel suo nome si operano guarigioni e conversioni tra il popolo.
I sacerdoti cominceranno ora a perseguitare i discepoli di Gesù, uomini «popolani e illetterati» (4,13), come erano – e giustamente – ritenuti, ma che illuminati e fortificati dallo Spirito, non esitano a proclamare la loro fede. Davanti ai capi, Pietro, interrogato sul miracolo avvenuto, «ripieno di Spirito santo» (4,8), proclama: «Capi del popolo e anziani, …sia noto a tutti voi e a tutta la casa di Israele: è nel nome di Gesù messia, il nazoreo che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, che costui si trova innanzi a voi, sano» (4, 10).
Quel Gesù, da essi respinto e rifiutato, è ora la pietra angolare su cui si costruisce l’edificio nuovo della fede: non c’è salvezza in nessun altro e non c’è «altro nome dato agli uomini sotto il cielo» nel quale possiamo essere salvi (4, 12), perché questo il Padre ci ha dato come unica ancora di salvezza. Il senso più intimo e profondo della vita cristiana sta proprio nell’invocare su ognuno e su tutti questo nome che è la sola fonte generatrice di conversione e di redenzione.
Nel brano evangelico di oggi troviamo la giustificazione di questa realtà.
Esaminiamo il brano
11 «Io sono»: la locuzione solenne anche se non è adoperata in modo assoluto, secondo l’uso giovanneo insinua l’essere divino di Gesù (cfr Es 3,14). Spesso è usata con specificazioni diverse; luce, via verità, vita. ecc.
«il buon pastore»: per se la traduzione letterale dovrebbe essere: il pastore “bello” (cfr gr. Kalòs) che significa poi il pastore ideale, colui che unisce in sé bontà e bellezza, gioia e luce, amore e tenerezza; colui che realizza in pieno la sua missione. Il pastore nella letteratura universale è la figura tradizionale della guida, politica o religiosa, di una comunità.
L’AT presenta il termine diretto di pastore, applicato a Jahvé o ai re d’Israele, solo in pochi passi (cfr. Gen 48,15; 49,24; Sal 80,2; riferito ai re: Nm 27,15-20; 2 Sam 7,7) tuttavia attribuisce diverse volte singoli tratti dell’attività del pastore all’atteggiamento di Jahve verso il suo popolo (cfr. Sal 68,8; Sir 18,13; Is 40,11; Ger 31,10; Mi 4,6-8; Sof 3,19: Zc 9,16; 10,3),
Accanto al Sal 23(22), che descrive tutta la cura di Dio verso l’uomo con l’immagine del pastore, si trovano anche molti testi dove vivissima era la speranza nel Pastore che verrà alla fine dei tempi per pascere il suo popolo in luogo delle guide infedeli alla loro missione «cfr. Is 40,10; Ger 23,1-4:1«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. 2Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. 3Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. 4Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore.»; Ez 34; Zc 11,4-17).
«offre la vita»: il verbo títhēmi (deporre) nell’Evangelo di Giovanni (cfr. vv. 11,15.17-18) indica l’estrema libertà del Cristo nel sacrificare la sua persona a favore del suo gregge; egli dispone pienamente della sua vita e può deporla come un vestito (cfr. 13,4).
«per le pecore»: è il sacrificio supremo e l’uso della preposizione “hypér” in riferimento al dono della vita, insinua l’allusione alla morte redentrice di Cristo, come si può costatare nelle formule dell’istituzione dell’eucarestia (cfr. Mc 14,24; Lc 22,19; 1 Cor 11,24)
12-13 – «Il mercenario»: non offre la sua vita perchè non ha interesse né amore per le pecore che custodisce e pascola solo per il salario. Il pastore buono è colui che ama: per questo il Cristo risorto, prima di affidare a Pietro il compito di pastore, per tre volte, gli pone la sconcertante domanda; «Mi ami tu?» (cfr. Gv 21).
14-I5 «conoscono»: la conoscenza di cui parla Gesù, in questo passo, deve essere intesa in senso biblico, come scambio di amore profondo. Essa non consiste quindi in una nozione intellettiva, ma in una penetrazione nell’essere della persona conosciuta; siamo perciò nella sfera del coinvolgimento esistenziale.
Si tratta della conoscenza che porta all’unione personale, comunione perfetta.
«come il Padre conosce me…»: questo paragone con la relazione personale di Gesù al Padre ritorna spesso nei «discorsi di addio (cfr. 15,9.10; 17,11.21,22) ed è modello, causa e fonte del rapporto salvifico fra Gesù e i suoi discepoli.
16 – «Ed ho altre pecore»: questo detto di Gesù riguarda la missione ai pagani, tema molto attuale nella Chiesa primitiva. Nella tradizione sinottica troviamo delle parole di Gesù, che preannunciano la missione ai pagani (oltre ad alcune parabole, cfr. Mt 8,11 e Mc 11,17; ricorda ancora la missione ai samaritani in Gv 4).
«un solo gregge ed un solo pastore»: Tutti i buoni pastori sono come concretizzati nell’unico Pastore. Tutti si trovano impersonati in uno solo. Sarebbero molti, se fossero divisi, ma qui si dice che è uno solo, perché viene raccomandata l’unità. Così in un «Discorso sui pastori» sant’Agostino ci spiega come possono esserci molti pastori pur se uno solo è il Pastore. Il Papa, i vescovi, i presbiteri, insomma i molti pastori non sono successori di Gesù ma “coloro nei quali Gesù si rende presente e agisce”. Uno solo è quindi il Pastore, Gesù, Lui è il Buon Pastore, perché solo nel suo nome è dato agli uomini essere salvati.
17-18 È uno sviluppo ulteriore del sacrificio della vita, tratto principale del buon pastore.
«ho il potere»: Il potere di cui parla Gesù non si esercita verso il Padre, ma verso gli uomini che credono di imporgli la loro volontà con la violenza. Gesù afferma la sua assoluta libertà nel sacrificare la sua vita, ed e insieme potere di morire e di risorgere. Questa volontà ed azione del figlio si identifica col comandamento del Padre, che include proprio morte e risurrezione.
Chiudiamo con la preghiera di colletta, un’epiclesi che si rivolge al Signore chiedendo di giungere alle gioie celesti e alla vita di figli, con questa motivazione: come la Fortezza del Pastore Buono è giunta ormai alla Gloria divina, così dunque vi possa giungere anche la bassezza e debolezza del suo gregge ancora lungo la via, che non può vantare di suo alcun merito.
I Colletta
Dio onnipotente e misericordioso,
guidaci al possesso della gioia eterna,
perché l’umile gregge dei tuoi fedeli
giunga con sicurezza accanto a te,
dove lo ha preceduto Cristo, suo pastore.
Egli è Dio…
II Colletta
O Dio, creatore e Padre,
che fai risplendere la gloria del Signore risorto
quando nel suo nome è risanata l’infermità della condizione umana,
raduna gli uomini dispersi nell’unità di una sola famiglia,
perché aderendo a Cristo buon pastore
gustino la gioia di essere tuoi figli.
Per il nostro Signore…
Il Pastore Buono adesso Risorto, che donò la sua vita per il suo gregge, nell’assemblea che celebra, oggi riceve la sua Vita, che è lo Spirito Santo, nella Parola divina trasformante e nei “Segni” del Mistero e nella comunione alla Chiesa, il gregge santo.
[1] Matilde di Hackeborn, o di Helfta (Helfta, 1240 circa – 19 novembre 1298), fu monaca nell’abbazia di Helfta, la sua esperienza mistica venne raccolta nel Liber Gratiae specialis; è venerata come santa dalle Chiese cattolica ed evangelica che ne celebrano la memoria il 19 novembre.
[2] La dedicazione (festa di HANUCCAH) di cui si parla non è quella originale di Salomone, 1° costruttore, ma è quella di Giuda Maccabeo. Verso la metà di dicembre del 164 a, C Giuda Maccabeo aveva riconsacrato (ristabilendo il culto) il tempio di Gerusalemme, profanato 3 anni prima (167 a. C), nello stesso giorno, da Antioco IV Epifane. La festa durava 8 giorni ed era detta anche «festa dei lumi» per le luminarie accese dovunque in segno di gioia e per l’accensione di un candelabro particolare (8 lumi rispetto agli abituali 7 della menorah)y che simboleggia la luminosità originaria del tempio» (Cfr. 1 Mac 4,36-59; 2 Mac 1,8-9.18; 10,1-8).
[3] Secondo A. Wikenhauser in questa pericope sarebbe intervenuto uno scambio di fogli nel manoscritto originario, per cui la successione primitiva sarebbe la seguente: Gv 9,41; 10,19-29.1-18. R. Bultmann sostiene che Gv 10 debba essere così ristrutturato, per ricostruire l’ordine originario: Gv 10,22-26 (introduzione); Gv 10,11-13.1-10.14-18.27-30 (il buon Pastore); Gv 10,31-39 (conclusione).
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano