Lectio Divina di domenica 25 Agosto 2019 a cura della Comunità monastica di Pulsano.
Domenica «del numero degli eletti»
«Sono pochi quelli che si salvano?». A tutti è capitato di porsi questa domanda, di fronte a certe esigenze della fede o al modo in cui venivano presentate, o pensando alla moltitudine degli uomini senza Dio, senza il Cristo. Accanto a una certa sensazione di angoscia, questo pensiero normalmente suscita in noi anche la convinzione di essere comunque dalla parte giusta, a differenza degli «altri». A meno che non sì lascino cadere le braccia, dicendo fra sé, con un certo fatalismo: «In ogni caso, qualunque cosa si faccia…».
Una cosa è certa: porre la questione teòrica del numero dei salvati non serve a nulla. Che la porta della salvezza sia stretta, e che sia aperta ad alcuni e chiusa ad altri, lo sappiamo. Ciò che conta è agire, facendo coraggiosamente tutto ciò che è in nostro potere per arrivare ad entrarvi e restando vigilanti sino alla fine, perché non c’è prenotazione che ci garantisca, una volta per tutte, un posto nella sala del banchetto. Il Regno di Dio nella Scrittura è infatti spesso simboleggiato da un banchetto, un luogo d’incontro e di comunione. Ci è offerto, siamo invitati, ma ci dobbiamo andare. E un dono gratuito: ma deve essere accolto.
Il popolo d’Israele credeva, per la sua storia e per il suo passato, di essere privilegiato e di poter godere incondizionatamente di questo invito. Il profeta che legge in profondità gli avvenimenti, riconosce che il privilegio non è né incondizionato né esclusivo. Gli uomini stanno di fronte a Dio come un’unica e sola umanità. Dall’incontro con lui non è escluso nessun popolo, nessun uomo. Tutti sono fratelli perché un rapporto radicale li lega al medesimo Padre.
Il privilegio di Israele aveva questo significato: proclamare a tutti gli uomini che non è l’unità di origine che fonda l’uguaglianza tra gli uomini, non l’appartenenza a una razza o a una classe che giustifica una ricchezza o una libertà. Tutti gli uomini devono avere le stesse possibilità perché tutti hanno un’identica mèta: incontrarsi col Padre, contemplare la stessa gloria, e quindi operare una convergenza e una uguaglianza universali (prima lettura).
L’appartenenza al popolo di Dio non è un privilegio neanche per noi, ma un servizio per gli altri.
Un identico invito rivolto ancora da Dio a tutti gli uomini e alle stesse condizioni per rispondervi è il principio di una nuova uguaglianza e di nuovi rapporti fra gli uomini. Tutti dobbiamo arrivare nel Regno, entrare nella casa del Padre, sedere alla stessa mensa. Tutti ci muoviamo nella storia verso un medesimo futuro, una medesima terra promessa. Se c’è una sola mèta, c’è anche una sola porta d’ingresso.
L’universalismo intravisto dai profeti viene portato a pienezza da Gesù. Per i suoi connazionali, chiusi nel privilegio, egli presenta la parabola della porta stretta. Sta per nascere un mondo nuovo, in cui Giudei e pagani si troveranno insieme alla stessa tavola, perché l’impurità dei pagani, che vietava ai Giudei di mettersi a tavola con loro, è definitivamente cancellata. La selezione alla porta del banchetto non consisterà nella separazione di Israele dai pagani, ma nella scelta di chi avrà risposto all’invito con sollecitudine e di chi avrà praticato la giustizia, chiunque esso sia.
La tradizione, la parentela non gioveranno per sé alla salvezza e neppure le parole, la cultura o l’appartenenza alla Chiesa. Sarà solo l’impegno per la costruzione di un mondo che sia visibilmente la concreta realtà del Regno.
L’impegno per realizzare una comunione fa scoprire il volto di chi mi siede vicino o davanti alla mensa del regno. Una cultura cristiana forse lo rendeva meno chiaro e sovente gratificava automaticamente di salvezza facendo dei battezzati gli appartenenti al regno, com’era per gli Ebrei l’appartenenza alla stirpe di Abramo. L’invito al banchetto ha per tutti una sola risposta: donare la vita sull’esempio di Cristo. La Croce è anche il modo con cui egli è entrato: è la porta stretta. Solo chi avrà donato la vita come Gesù potrà entrare nella sala e sedere al banchetto. Egli è davvero la Via, la Verità e la Vita.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 85,1-3
Tendi l’orecchio, Signore, rispondimi:
mio Dio, salva il tuo servo che confida in te:
abbi pietà di me, Signore;
tutto il giorno a te io levo il mio grido.
Nell’antifona d’ingresso, dal Sal 85,la.2b-3, SI. l’assemblea orante, rappresentata dalla voce del Salmista, si pone davanti al Signore, e gli innalza una serie di 4 epiclesi. Anzitutto, affinché il Signore tenda l’orecchio (30,3; 87,3), e ascoltando esaudisca la preghiera che gli giunge (v. la). Poi per chiedere il dono della salvezza gratuita e immeritata di chi si proclama servo del Signore, membro della sua santa alleanza, e che ha sempre sperato solo nella sua bontà (v. 2b). Infine, per chiedere la sua divina misericordia (vv. 5.16; 33,2; 36,2), ricordando al Signore la continuità e l’intensità della preghiera che sale a Lui tutto il giorno e ogni giorno (v. 3).
Canto all’Evangelo Gv 14,6
Alleluia, alleluia.
Io sono la via, la verità e la vita, dice il Signore;
nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
Alleluia.
Nella cena a Tommaso che aveva chiesto «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?» il Signore ha spiegato: «Io sono la Via e la Verità e la Vita». La formula «Io sono», da sola o con vari predicati, rimanda alla rivelazione a Mose del Nome di «Colui che esiste» (Es 3,14). I tre predicati nominali, via, verità, vita, indicano diverse realtà:
- «La Via» è il primo e più importante, perché è l’apertura di mediazione verso la Meta, il Padre, è il percorso obbligato. Ma indica anche «la Via di Dio», ossia il Disegno divino e il suo comportamento, che adesso gli uomini debbono accettare e imitare.
- «La Verità» indica la stessa ragione dell’essenza e dell’esistenza della Divinità, e anche la Fedeltà divina in quanto immutabilità favorevole agli uomini.
- «La Vita» rivela che il Signore, Unica Realtà divina con il Padre (Gv 10,30), mentre sussiste in eterno con il Padre (Gv 17,3; 1,1-4.18), adesso sta per comunicarsi finalmente anche agli uomini. Perciò nessuno «viene al Padre», il quale «sta nel Figlio come il Figlio nel Padre» (Gv 10,38), se il Figlio non è il mediatore.
I Padri hanno espresso questa inaudita ricchezza con la formula più volte richiamata: «Lo Spirito Santo donato dal Padre rivela il Figlio, a partire da se stesso il Figlio in se stesso rivela il Padre (è sua Icona!), e donando lo Spirito Santo riporta al Padre» che attende tutti i suoi figli.
La «venuta a Dio» si presenta nell’Evangelo di oggi di questo Tempo per l’Anno. Infatti, durante questo Tempo, la proclamazione continua dell’Evangelo mostra nel modo migliore come operi di continuo e con efficacia Cristo Signore, battezzato dallo Spirito Santo e così inviato dal Padre al ministero messianico, ossia ad annunciare l’Evangelo e ad operare le opere della Carità del Regno. Da questo fatto debbono sempre partire le riflessioni sul testo del giorno.
Ricordiamo che dalla Domenica XIII alla Domenica XXXI si proclama la grande sezione, propria solo a Luca, che è la «salita a Gerusalemme», o «grande inciso» (Lc 9,51 – 19,28). Il Signore «compie il suo esodo a Gerusalemme», del quale nella Trasfigurazione parla con Mose e con Elia (Lc 9,31), e che consiste nel ritorno al Padre, ma attuando per intero il suo programma battesimale e trasfigurazionale, consumato alla fine con la traversata del terrificante tunnel della morte di Croce, per poi risorgere e ascendere al cielo. In tale visuale l’Evangelo di oggi è un segmento di questo “itinerario” vitale.
Come altra premessa ricordiamo anche come l’opera lucana testimonia delle tensioni presenti nella comunità delle origini tra fratelli provenienti dal mondo giudaico e coloro, sempre più numerosi, che provenivano dal paganesimo. Il passaggio da una comunità giudaica a una multiculturale non fu indolore. Che tipo di domande l’ingresso dei Gentili nella comunità di Gesù provocava? La prima è la stessa che ha risuonato, e purtroppo continua a risuonare, nella Chiesa: «chi è il vero popolo di Dio?».
I fratelli di origine giudaica attribuivano a se stessi questa qualifica, nella consapevolezza che Gesù stesso si era presentato come il Messia d’Israele. Tuttavia, la nuova comunità assumeva di giorno in giorno un volto universale, aprendosi ai Gentili. In questa situazione chi costituiva il popolo di Dio? I Giudei che avevano riconosciuto Gesù come Messia? Quelli che rimanevano fedeli all’antica alleanza? I Gentili divenuti seguaci della “via”?
La pericope di oggi è anche un tentativo di Luca di rispondere a questa domanda, o almeno di mettere in discussione false sicurezze.
I lettura Is 66,18-21
I critici moderni individuano un «Terzo Isaia» (Is cc. 56-66) in un profeta anonimo che scrive per rincuorare il popolo dopo il ritorno dall’esilio, in un’atmosfera religiosamente rarefatta e sfiduciata, predicando l’Amore divino, che viene a prendersi cura del suo popolo, della sua Sposa diletta e mai veramente abbandonata. Perciò questa diventerà madre feconda di innumerevoli figli.
La splendida corrispondenza con l’Evangelo di oggi è portata dalla pericope odierna, che si trova nell’ultimo capitolo del libro (i vv. 22-24 ne sono la chiusura). Essa offre una visione di eccezionale splendore, fondamento di una speranza gioiosa. II Signore promette adesso di venire Lui stesso a radunare le opere e i pensieri del suo popolo (Is 2,2-3; 45,20; Zacc 14,16), per formare con esso, intorno a esso, anche l’unità di tutte le nazioni e di tutte le lingue della terra. Allora, annuncia e promette, non esisteranno più divisione e contesa. Nell’unità nuova, tutti potranno contemplare la Gloria divina che si è manifestata nel fulgore della sua pienezza sugli uomini (v. 18). In segno di riconoscimento, di consacrazione finale e di divino possesso, il Signore porrà su tutto il suo popolo, finalmente radunato, unificato e compatto, «un segno», e da questi suoi nuovi fedeli trarrà anche i suoi missionari, perché da sempre ha pensato al “resto” santo che salverà gli altri (Is 45,20). E questi servi santi, missionari del Signore, andranno dai più lontani e abbandonati tra i popoli della terra, quelli che hanno più bisogno perché mai sentirono parlare del Signore, il Dio Vivente, quelli per i quali il Servo accetta il suo destino sacrificale (52,15). Essi quindi sono i più necessitosi della divina salvezza. Il testo è riecheggiato non a caso dal grande missionario, Paolo, in Rom 15,20-21. E la divina Misericordia si diffonde in modo tale, che i missionari annunceranno la Gloria stessa del Signore, che glorifica gli uomini e li salva. Di tutti questi popoli è tracciata una specie di carta geografica simbolica, che riecheggia a sua volta la «carta dei popoli» di Gen 10. e in qualche modo anche quella della mattina di Pentecoste (At 2,7-11). Nel testo isaiano si tratta evidentemente delle conoscenze geopolitiche che poteva avere un Ebreo anche colto del sec. 5° a. C. Le nazioni indicate sono quelle che si affacciano sul mare (Mediterraneo), l’Africa, e poi la Lidia (in Asia Minore, anche 46,9; Ez 27,13), terra di abili arcieri; poi l’Italia e la Grecia, e infine le isole di arcipelaghi lontani (allusione alla Sicilia, alla Sardegna, alle Baleari?) (v. 19).
Questi missionari, annunciando la Gloria divina, tramuteranno questi popoli in fratelli tra loro, e li porteranno da ogni parte a formare un’unità con l’unico popolo del Signore (Is 49,22; Bar 5,6; Sap 3,10; anche Is 60,3-7). E questo sarà un dono sacrificale per il Signore (qui ancora il corrispondente paolino, Rom 15,15-16). Essi saranno trasportati con ogni mezzo, con animali e con carri e lettighe, con cui si formano le carovane sacre. Il luogo del raduno è Gerusalemme, il Monte Santo del Signore, il luogo del santuario della divina Gloria. E i missionari li porteranno dopo averli santificati con il Nome divino, come quando introducono i vasi sacri purificati nella Casa del Signore, in vista del sacrificio gradito. Il promesso Convito sacrificale di tutti i popoli che converranno insieme (Is 25,6-12) sta quindi per iniziarsi (v. 20).
Ma la promessa dell’ adempimento finale specifico è ancora maggiore. Da tutti essi il Signore assumerà per il suo santo servizio altri sacerdoti e leviti (v. 21; e 61,6), così da estendere all’infinito il «regno di sacerdoti, la nazione santa» (Es 19,3-6). Questo è realizzato dopo la Resurrezione (Mt 28,19-20; Mc 16,14-20; 1 Pt 2,1-10; Ap 1,6), Il disegno divino esplica così il suo effetto finale.
Il Salmo 116 è qui applicato in tutta la sua densità all’assemblea nuova dei popoli di tutta la terra. Il responsorio “Tutti i popoli vedranno la gloria del Signore” (tratto da Mc 16,15) ripete il precetto universale del Signore che sta ascendendo al Padre di annunziare l’evangelo a tutta la creazione, premessa di salvezza universale.
Il più breve Inno di lode tra i Salmi del Salterio è denso, e ricco di suggestione. Esso si apre con due imperativi innici, rivolto uno a tutte le nazioni pagane, affinché si associno a Israele nel lodare il Signore, ripetuto l’altro, in parallelismo, a tutti i popoli (v. 1). Va avvertito che nello stadio più antico del testo dell’A. T., i termini attuali per “nazioni”, che adesso indica sempre i pagani, e per “popoli”, erano usati per designare comunque le 12 tribù d’Israele. Nel senso attuale, l’Orante, un sacerdote, desidera che finalmente il raduno di tutti i popoli pagani, tante volte preannunciato dai Profeti, si realizzi intorno al santuario, il principale segno visibile dell’unità del popolo di Dio e della sua comunione con il suo Signore. Tale segno però adesso si deve porre anche come luogo dell’aggregazione e dell’unità di tutti i popoli redenti proprio dalla lode al Signore.
La motivazione è singolare. La lode al Signore deve essere innalzata non perché il Signore abbia operato in modo primario e specifico verso i popoli, benché sia il Creatore anche di essi, e loro unico Provvidente buono, come lo è per tutta la creazione, per ogni vivente. Invece adesso la lode va tributata al Signore perché Egli ha reso salda e perenne la misericordia dell’alleanza in favore del popolo suo (Sal 102,11, un altro inno di lode), così che la Fedeltà (= verità) sua dura in eterno (Sal 99,5; 145,7, due altri inni di lode). Proprio questi fatti salvifici hanno tale risonanza, da portare finalmente le nazioni pagane al Signore (v. 2). Lo ha ben compreso Paolo, che cita il Salmo in Rom 15,11, nel contesto del fatto che Cristo fu per sé «Ministro della circoncisione», ossia Egli venne anzitutto per Israele, per attuare le Promesse ai Padri, come sta scritto, e cita Sal 17,50; Dt 32,43, due inviti ai pagani ad unirsi alla lode che Israele innalza al suo Signore. Poi cita il Sal 116 (ai vv. 8-11); quindi Isaia: la Radice di lesse sarà Re anche delle nazioni pagane (Is 11,10), le quali porranno in Lui la loro speranza (Is 42,4).
In definitiva con le parole di questa pagina dell’evangelo Gesù è consapevole di provocare una crisi in coloro che lo seguono; ma si è preparato a questa prova, disposto a lasciarci la vita. E si preoccupa dell’incuria e dell’apatia di coloro che invece dovrebbero illuminare le folle, cioè gli scribi. È a loro che rivolge la parabola della porta stretta. Sta per nascere un mondo nuovo, in cui giudei e pagani si ritroveranno alla stessa tavola; ma le rubriche e le pratiche religiose addormentano nell’incoscienza i maestri del popolo, i quali così perderanno il posto nella sala del banchetto. Anche tanti cristiani si assopiscono, nella convinzione di avere la verità e di godere già la salvezza. A forza di dormire, non potranno più varcare in tempo la porta del mondo nuovo, dove saranno invece preceduti da tutti gli uomini in buona fede, incessantemente alla ricerca della verità e della gioia.
Esaminiamo il brano
22 – «Passava per città e villaggi»: Gesù lungo la sua via, che percorre accompagnato dai suoi discepoli, ma anche dalla Donne fedeli (Lc 8,1-3), visita tutti gli abitati che gli è possibile, annunciando l’Evangelo e insegnando le realtà del Regno, operando grandi prodigi di guarigione e di liberazione dai demoni, assolvendo tutto il suo programma messianico.
«insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme»: I due verbi, insegnare e camminare, sono in relazione con il contenuto della domanda dell’anonimo interlocutore, poiché 1’insegnamento di Gesù è a riguardo di una salvezza che si compirà in Gerusalemme. La questione posta è veramente rilevante nell’ambiente religioso-culturale del tempo: alla fine dei tempi, quanti si salveranno?
23 – «Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”»: Appare abbastanza incongrua la brusca, equivoca e non specificata domanda rivolta dal solito ignoto a Gesù che passa, se i salvati siano “pochi”. Forse l’interlocutore anonimo era uno dei tanti che attendevano e trepidavano per questa realtà così attesa, la salvezza, e forse voleva la conferma pacifica che essa era destinata solo a un numero ristretto di privilegiati, quelli che il “liberatore” venturo avrebbe compreso nella sua azione. La domanda rivela e indica che chi la pone conosce in modo distorto “la salvezzà” divina, la quale non si pone nella prospettiva dei pochi o dei molti.
«Rispose»: Gesù non risponde a lui, ma alla folla circostante e non risponde direttamente, ma trasforma la domanda in un insegnamento. Per prima cosa ci sollecita a non preoccuparci per un futuro conosciuto soltanto dal Padre, ma a focalizzare la nostra attenzione sul momento presente
24 – «Sforzatevi di entrare»: Gesù subito indica quale sia la direzione vera e l’itinerario unico verso la salvezza autentica, quella divina: è cercare con ogni sforzo di «lottare per entrare attraverso la porta stretta», quella più difficile (Mt 7,13), l’unica entrata. Tipico qui è il verbo di questo medio imperativo presente “lottate”, agōnízomai che indica l’agone, la lotta, la gara sportiva in atto.
«per la porta stretta»: È una porta stretta e l’entrata richiede uno sforzo. Per comprendere l’entità di questa richiesta possiamo aprire il libro degli Atti dove, subito dopo il racconto del tentativo di lapidazione subito da Paolo a Listria, leggiamo: «Dopo aver annunciato l’Evangelo a quella città e aver fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede “perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”» (14,22-23). Entrare nel Regno richiede perseveranza.
La collocazione della risposta di Gesù sulla strada che conduce a Gerusalemme precisa che si tratta di perseverare nella sequela di Colui che cammina verso la Croce. Ad una comunità oscillante tra facili entusiasmi e successivi abbandoni, Luca ricorda che occorre «prendere la propria croce ogni giorno» (9,23), per non essere come coloro che «quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno» (8,13). Per la mancanza di perseveranza “molti” non potranno entrare.
«molti cercheranno di entrare ma non ci riusciranno»: Gesù spiega che molti cercheranno di entrare e non potranno, perché la loro “lotta” non fu sufficiente o non fu perseverante e mancò a essi la forza, e poi in realtà, come è dato di vedere, tutti o quasi tutti di solito cercano di entrare per la porta larga e facile, nell’illusione, perché non esiste.
25 – «Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta…»: Ora Gesù dà un insegnamento parabolico. Il richiamo è di nuovo alla parabola delle 10 Vergini (vedi Mt 25,1-13; qui in specie i vv. 10-12). Il Padre di famiglia, termine che indica anche lo Sposo, quando viene dalle nozze chiude la porta della casa dove si celebra il convito. Egli vuole per tutti i presenti l’unione, la pace e l’ordine e quindi vuole che tutti già stiano dentro, che tutti si siano preparati, che tutti abbiano indossato la veste nuziale (Mt 22,1142). A guardare bene, come sempre negli evangeli quando si tratta della preparazione del Convito, oppure nella narrazione delle nozze di Cana (Gv 2,1-12), non si parla della Sposa, ma è chiaro che la Sposa del Signore è la comunità stessa che Egli si è trovata, si è acquistata e si è formata da ogni parte, in città e nella campagna, nei palazzi e nei crocicchi, comunità di poveri e di ricchi, di sani e di malati, di abbandonati e di trovati, impegnando anche tutti i suoi servi fedeli per questo grande raduno. Egli lo ha convocato e lo ha bandito, e se qualcuno ha diritto di rifiutarlo liberamente, nessuno ha diritto di ignorare in che consista, e come si svolga, e quale scopo voglia raggiungere.
Luca aggiunge anche un particolare inquietante: la porta non rimarrà aperta per sempre. Il padrone di casa sta per tornare e la porta sarà chiusa. La domanda iniziale deve dunque essere modificata dal lettore: non «quanti si salveranno», ma «come essere incluso».
Tutti sono avvertiti. Perciò chi ritarda, chi non è pronto, chi si fa trovare impreparato è colpevole. Per sua sola mancanza egli resta fuori dell’aula del convito, e bussa in irrimediabile e quindi fatale ritardo, invocando il Signore affinché apra anche a lui.
26 – «Allora comincerete a dire…»: del loro ritardo, della loro impreparazione, portano perfino i motivi pretestuosi, anzitutto quello più stringente, l’avere «mangiato e bevuto» davanti a Lui, il che significa con Lui. Questa espressione semitica indica una vita trascorsa insieme. E avere «mangiato e bevuto» sempre con il Signore, nel senso visto adesso, segnerà l’idoneità di alcuni discepoli a essere Apostoli, e quindi «testimoni della Resurrezione» (1,22; poi At 10,41; 1,4). Insomma, questi ritardatari si appellano al fatto, assunto come valido e cogente, di avere vissuto sempre con il Signore.
Come gli scribi dei tempi di san Luca, che si aggrappavano ai riti e alla prediche dell’antico testamento, pensando che avessero il potere di condurli al messia, oggi alcuni cristiani che credono di poter evitare le lotte e le contraddizioni di questo mondo, e non si sporcano le mani, accontentandosi di un cristianesimo a buon mercato, vissuto in un piccolo gruppo in cui ci si trova a proprio agio. La sola strada che conduce alla sala del banchetto è quella su cui si cammina con Gesù: una strada dura, ma su cui avanzano con gioia uomini e donne che vengono da ogni luogo, impazienti di salire a Gerusalemme, costi quello che costi. Se non abbiamo il paradiso in fondo al cuore, non possiamo sperare di entrarvi!».
«hai insegnato nelle nostre piazze»: eccepiranno anche di avere ascoltato la sua dottrina predicata apertamente sulle piazze. “Ascoltare”, come si sa bene, biblicamente significa “obbedire”, ossia eseguire fedelmente la volontà espressa di colui che ha parlato e si è ascoltato. Anche questo è eccepito falsamente, altrimenti quelli non si troverebbero adesso agli estremi. Infatti, ascoltarono solo materialmente, ma poi non misero in pratica. Infatti, «chi ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, è madre e fratello di Gesù» (Lc 8,21). Fa parte della sua famiglia. È la sua Comunità. È finalmente questa sua Sposa.
Le parole di Gesù non sono “magiche”: richiedono l’attuazione responsabile di chi ascolta con un «cuore integro e buono, capace di custodirle e di produrre frutto con perseveranza» (8,15).
27 – «egli vi dichiarerà…»: La prima risposta di Gesù è netta e dura: «Non conosco voi donde siate». Essa sarà irremovibile, è la prima e l’ultima. Con il sigillo finale della sentenza di condanna:
«Allontanatevi via da me, »: è una citazione del Sal 6,9. A essi fu lasciato tutto il tempo di operare la giustizia prescritta e non l’iniquità contraria che nega ogni giustizia. Non vollero farlo. Nulla più adesso possono pretendere dal Signore pur sempre longanime.
«voi tutti operatori d’iniquità»: Il problema è operare la giustizia. Il termine è molto importante in Luca al punto che Gesù stesso è qualificato come “giusto” (23,47; cfr. At 3,14; 7,52; 22,14). Dikaios (che con ‘alfa privativo diventa Adikía, cioè senza giustizia) non indica solamente l’innocenza, ma una qualità religiosa e morale, designando chi vive nel corretto rapporto con Dio e trasforma l’esistenza in un atto di adesione alla sua volontà. Il Regno appartiene ai giusti di ogni tempo.
28 – «Là ci sarà pianto…»: Adesso segue la descrizione del Convito. Da fuori, gli esclusi riusciranno solo a intravedere i Patriarchi, padri del popolo di Dio, Abramo e Isacco e Giacobbe, e tutti i Profeti di Dio. Essi sono le figure rappresentative dei beati che sono ammessi a godere del Regno di Dio, insieme a tutto il loro popolo redento. Quelli esclusi, da fuori piangeranno senza più speranza. Sta qui un velato rimando, che sarà poi sviluppato, alla parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31), ancora con il richiamo ad Abramo ed ai Profeti (Lc 16,24-31).
29 – «dall’Oriente e dall’Occidente, dal Settentrione al Meridione»: sono due inclusioni letterarie che indicano la totalità dei popoli della terra, che partiranno dai quattro punti cardinali e si disporranno al Convito nel Regno. «siederanno»: Questo disporsi è indicato dal verbo anaklínō che significa lo stare semisdraiati su cuscini intomo alla mensa comune, come era tipico per il mangiare nel mondo antico dell’uomo libero, da cui si ha il latino “triclinio” . Luca spiegherà nel «lógìon ecclesiale» della Cena, che il Regno è inaugurato dalla Resurrezione e consiste nel Convito, al quale dopo la Resurrezione già mangerà e berrà lo stesso Signore Risorto con i suoi già in terra da allora per sempre (Lc 22,14-20 che appartiene all’Evangelo della Domenica delle Palme).
30 – «Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi»: La clausola finale è amara. Gli ultimi tra i chiamati hanno obbedito e si ritroveranno come primi. Mentre i primi chiamati che non obbedirono, si troveranno ultimi, con la porta chiusa, saranno esclusi. Gesù lo ripete anche, in altro contesto, Mt 19,30.
Il Signore così mostra che nulla avverrà alla fine, che non sia già dall’inizio del tutto chiaro in forza della sua Rivelazione di misericordia. Ciascuno è avvertito.
Chi dunque si salverà? Gesù ci ha fatto capire che non è un problema di numero, ma di cuore: si salveranno tutti coloro che abbracceranno la logica della croce, che seguendo il loro Signore diverranno simili a lui. Il Padre aprirà per loro il Regno, perché riconoscerà nei loro volti i lineamenti del Figlio.
Ritroviamo un’eco di queste parole in At 10,34-35: «Pietro allora prese la parola e disse: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”».
Ognuno può essere escluso e ognuno può essere incluso; dinanzi alla parola profetica di Gesù non conta ormai più l’essere giudeo o pagano, ciò che conta è la conversione e lo sforzo perseverante per non divenire ‘operatori d’ingiustizia’. L’appello ultimo dunque è al lettore perché agisca ‘ora’ per non correre il rischio di negarsi l’ingresso nella porta della vita.
Quanti si salveranno? Se la domanda è sbagliata, la risposta del profeta escatologico è sorprendente: tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, popolo costituito di Giudei e Gentili, di poveri, di disabili, di donne, di chiunque ‘lotta’, perseverando nella sequela.
Con la II di Colletta preghiamo dunque:
O Padre, che chiami tutti gli uomini
per la porta stretta della croce
al banchetto pasquale della vita nuova,
concedi a noi la forza del tuo Spirito,
perché unendoci al sacrificio del tuo Figlio,
gustiamo il frutto della vera libertà
e la gioia del tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…