Commento al Vangelo di domenica 24 Novembre 2019 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 24 novembre 2019 a cura della Comunità monastica di Pulsano.

SOLENNITÀ «DEL SIGNORE NOSTRO GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO»

Riconoscendo che Gesù è re, noi crediamo che con lui Dio ha manifestato in modo pieno che la realizzazione dell’uomo può avvenire solo nell’obbedienza alla sua volontà. Non c’è azione dell’uomo che non sia sotto il giudizio di Dio, non c’è spazio nella storia che possa fare a meno dei rapporto con Dio per mezzo di Gesù. La dottrina della signoria di Cristo ci insegna ancora che la vita a cui siamo chiamati è la stessa vita che ha vissuto Gesù Cristo: vita di servizio ai fratelli. Vivendola noi confessiamo la sua signoria e diventiamo a nostra volta uomini di pace e di riconciliazione. Nella Chiesa di Cristo, come in ogni comunità, il ministero (= servizio) della autorità, è dato non per l’affermazione personale, ma in funzione dell’unità e della carità. Cristo, buon pastore, è venuto non per essere servito ma per servire (Mt 20,28; Mc 10,45) e dare la sua vita (Gv 10,11). Queste affermazioni aiutano a evitare le ambiguità inerenti al concetto di regalità non inteso nel senso di Cristo.

Cristo è chiamato a guidare il popolo di Dio, ad esserne condottiero (cf prima lettura); la sua regalità è di origine divina ed ha il primato su tutto, perché in lui il Padre ha posto la pienezza di tutte le cose (seconda lettura). Eppure l’evangelo di Luca presenta la regalità di Gesù riportando la parodia della sua investitura a re dei Giudei sulla croce, che richiama fortemente l’altra parodia avvenuta nel pretorio di Pilato e riportata dagli altri evangelisti. L’investitura regale di Gesù si svolge attorno alla croce, trono improvvisato del nuovo Messia. Per rendere più evidente questo accostamento, Luca ricorda l’iscrizione che domina la croce : «Costui è il re dei giudei» (v. 38), ma senza dire che si tratta di un motivo di condanna (cf Mt 27,37). In Luca si tratta dunque di una semplice iscrizione, in Marco e in Matteo di un motivo di condanna, in Giovanni di un’affermazione contestata. In ogni caso, quale abisso tra questa formula e lo spettacolo dell’impotenza del crocifisso, tra la salvezza che alcuni attendevano da lui e la realtà di un condannato incapace di salvare se stesso!

Così l’iscrizione tiene il posto della parola di investitura, simile a quella del Padre che investì il proprio Figlio al battesimo (Lc 3,22). Luca, inoltre, introduce qui un episodio riportato altrove (v. 36a; cf Mt 27,48) e vi aggiunge una frase (v. 37b) con la quale la folla attende di conoscere i titoli di Gesù alla regalità, titoli esteriori che Gesù si rifiuta di fornire: egli non vuole che la sua regalità gli venga dallo sfuggire alla sua sorte, ma dalla sua fedeltà alla medesima!

Per Luca, Gesù in croce, fatto oggetto di scherno e di ingiurie, è il prototipo del giusto perseguitato, martirizzato dagli empi che gli lanciano la loro sfida: «Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso!».

Salvare è la parola chiave di questo brano. I capi dei sacerdoti, i soldati, il ladrone crocifisso accanto a lui mettono in dubbio la sua potenza regale, eppure Gesù è il salvatore: potrebbe salvare se stesso, «e anche noi». Ma come comprenderlo senza convertirsi? Soltanto un capovolgimento radicale di noi stessi ci permetterà di cogliere, nella fede, il mistero della croce del Cristo.

Riferendo le reazioni dei due malfattori condannati al medesimo supplizio, l’evangelista mette in luce gli atteggiamenti che è possibile assumere di fronte al messia: il primo perde, se stesso bestemmiando quel re da farsa, mentre il secondo si volge verso colui «per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» (Col 1,14). E Gesù, che fin dalla tentazione nel deserto ha sempre rifiutato qualsiasi manifestazione di potenza a proprio vantaggio, dimostra ora di poter salvare chi ripone in lui la propria fiducia: «Oggi sarai con me nel paradiso». «Oggi»: nel tempo del regno che già ha fatto irruzione nel mondo nella persona di Gesù, il solo che ci possa salvare (cf. At 4,12), Guardando la croce, siamo abbastanza, consapevoli di questo? La morte stessa non potrà separarci dalla vita eterna «con Gesù». All’ombra della croce, infatti, si radica la signoria del Cristo e si raduna la chiesa, comunità di malfattori chiamati anch’essi alla salvezza.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Ap 5,12; 1,6

L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza

e ricchezza e sapienza e forza e onore:

a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno. 

Visione e liturgia eterne, beatificanti, trasformanti, divinizzanti. Nella divina liturgia (in tutti e tre gli anni abbiamo la stessa eucologia) noi fedeli facendo nostre le acclamazioni del libro dell’Apocalisse, chiediamo «qui oggi», nella fede e nella speranza, di essere ammessi per la grazia inconsumabile dello Spirito Santo a quella liturgia beata. Nell’aula che è la reggia celeste, la corte regale adora il Dio Invisibile sul trono dal quale regna insieme con l’Agnello Risorto (cap. 4; 5,11). Nella solenne, gioiosa, festale, cosmica, eterna Liturgia sono uniti nella lode e nell’azione di grazie gli Angeli, i 4 Viventi, i 24 Anziani sacerdotali. In particolare tutti insieme questi adoratori proclamano dell’Agnello la testimonianza: «È degno! – áxión». È l’Agnello Servo sofferente (Is 53,7-8) ma Risorto, per questo è l’unico degno anzitutto di ricevere e di possedere il Dio Invisibile, il Padre suo. E nel Padre suo, essendo Egli stesso Dio da Dio, l’Agnello Risorto è degno di ricevere «la potenza e la divinità e la salvezza e la forza», da donare agli uomini redenti, santificati e da divinizzare. Perciò è anche degno di ricevere da essi l’adorazione (v. 5,12, qui amputato). E finalmente, è degno della dossologia finale: «A Lui con il Padre la gloria e la potenza in eterno!» (v. 1,6, qui amputato).

Canto all’Evangelo Mc 11,9.10

Alleluia, alleluia.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!

Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!

Alleluia.

Nel canto all’evangelo siamo con le folle in tripudio, con il corteo delle palme, che acclamano Gesù umile e a cavallo di un asino pacifico, mentre compie il suo ingresso regale messianico a Gerusalemme, la Città del Grande Re (Sal 47,3; Mt 5,35), la Sposa regale, della quale ora viene a prendere possesso. Si compie il Disegno divino, che Egli debba consumare il suo destino regale nuziale salvifico: sulla Croce, nella Resurrezione, con l’Ascensione, nel dono dello Spirito Tuttosanto e Buono e Vivificante. Dal Nome del Signore è benedetto il Re e Salvatore universale, e anche il Regno che con Lui si presenta (v. 10a). Ma il Regno del Padre sono Cristo con lo Spirito Santo (Mt 12,28; Lc 11,20): poiché con lo Spirito Santo il Padre salva anzitutto il Figlio facendolo risorgere dalla morte, e nel Figlio Risorto tutti gli uomini. Si realizza così la promessa consegnata a David, nel Figlio suo, Gesù Cristo, il Figlio di Dio. È la visione grandiosa, in questa solennità, in cui ci viene mostrato il Figlio dell’uomo, intronizzato sul trono della Gloria, come sovrano universale adorato dagli angeli pronto alla rigenerazione degli uomini.

Il ciclo C dell’Anno liturgico si chiude, ma solo per riaprirsi la Domenica successiva, la la di Avvento del ciclo A, in prosecuzione e crescendo. L’Anno liturgico, che è propriamente 1’ «Anno della divina Grazia», si apre, e si chiude, con la visione grandiosa e terribile del «Signore che viene» all’ultimo dei tempi. In realtà, un Anno liturgico non è mai fine a se stesso. La «teologia simbolica» ci aiuta a comprendere che esso è il «segno» di un ciclo completo, simbolo della vita degli uomini nel mondo. Tuttavia paradossalmente tale circolo non è chiuso, ma aperto, a spirale in crescendo, e disposto sapientemente in modo tale che il Principio debba essere identico alla sua Fine.

Come già si è accennato, nei cicli la solennità di Cristo Re, chiude l’anno riportando la visuale alla Gloria finale del Signore: puntualmente, precisamente ripresa dalla Domenica la di Avvento del ciclo successivo

Ciclo A: Dom. 34a, la Venuta finale con il Giudizio

Ciclo B: Dom. la di Avvento: la Venuta finale

Ciclo B: Dom. 34a, la Venuta del Re eterno

Ciclo C: Dom. la di Avvento: la Venuta finale

Ciclo C: Dom. 34a, la Venuta del Re Crocifìsso con il Regno suo

Ciclo A: Dom. la di Avvento: la Venuta finale

e così proseguendo senza interruzioni.

Questa solennità fu istituita dal papa Pio XI con l’enciclica “Quas primas ” dell’11 dicembre 1925; il titolo stesso della festa mira ad ampliare la prospettiva del dominio di Cristo a tutto il creato nel senso di Col 1,12-20 (II lett).

Dio onnipotente ed eterno,

che hai voluto rinnovare tutte le cose

in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo,

fa’ che ogni creatura,

libera dalla schiavitù del peccato,

ti serva e ti lodi senza fine.

Per il nostro Signore…

La I colletta, sopra riportata, esprime in questo modo l’aspetto principale, nettamente cristologico, di questa solennità. Intorno a questo, la liturgia della Parola ne presenta altri in ciascuno degli anni del ciclo del Lezionario domenicale. Ora, nella Scrittura il termine «Re», applicato sia al Dio Vivente, sia al suo Inviato, il Re messianico, significa sempre al di là perfino della gloria regale infinita o finita, il «Salvatore» del popolo dell’alleanza.

I 3 cicli liturgici del Rito romano propongono perciò opportunamente 3 aspetti diversi e convergenti della Regalità del Signore Risorto, non a caso invariabilmente nell’aspetto salvifico.

  1. II ciclo A presenta Cristo come il “Pastore dell’umanità” e, allo stesso tempo, come giudice supremo dei vivi e dei morti; il risorto viene a riprendersi gli eletti suoi dopo il Giudizio (Mt 25,31-46: Evang.; Ez 34,11-12.15-17: I lett).
  2. Il ciclo B nell’umiltà estrema dell’abbassamento causato dalla Passione volontaria, il Re testimonia al mondo il Regno-Salvezza per il popolo di Dio: prima davanti al tribunale religioso giudaico, egli si era identificato col personaggio annunziato da Daniele (cfr. la Dn 7,13-14); davanti a Pilato con la dichiarazione «Tu lo dici: io sono re»(Gv 18,33-37: Evang.); al mondo, perché Gesù è risuscitato, il «primogenito dei morti, il principe dei re della terra» (II lett. Ap 1,5-8).
  3. Il ciclo C fa notare come l’investitura regale (cfr. 2 Sam 5,1-3: la ) sia avvenuta proprio sulla croce (Lc 23,35-43: Evang.). Ma Gesù non è solo Re dei giudei, come dichiara il titolo posto sulla croce, ma è capo del corpo della Chiesa e Signore di tutte le cose, redente e riconciliate nel suo sangue (II lett. Col 1,12-20).

Il Re dunque vuol dire solo il Salvatore; gli orpelli del manto con ermellino, della corona gemmata, del globo e dello scettro in mano, togliamoli di mezzo una volta per sempre. Sta sulla croce per risorgere e venire col suo regno di salvezza; anno per anno, tutto questo è oggetto di anamnesi della Chiesa nello Spirito Santo.

I lettura:  2Sam 5,1-3

Gli inizi della storia della salvezza – Davide si è fatto una reputazione di guerriero invincibile, è il capo di una banda temuta. Le tribù del nord vogliono un capo che le protegga efficacemente, e vengono a chiedere a Davide se vuole essere loro re. Egli accetta semplicemente, perché ama le responsabilità e prevede già la vittoria militare. Non vi è nulla di molto religioso in tutto ciò, ma solo delle soluzioni umane a dei problemi umani. È tuttavia attraverso il gioco degli avvenimenti politici che Dio incomincia a preparare là venuta del figlio di Davide.

Davide fu scelto dal sacerdote, giudice e profeta Samuele tra i figli di Iesse, per essere unto re d’Israele secondo il decreto del Signore (1 Sam 16,1-2). Samuele ebbe l’ordine divino di non guardare l’aspetto esterno, poiché il Signore guarda solo nel cuore (16,7). Quando Samuele unge Davide, lo Spirito del Signore si posa su lui da quel giorno (16,12-13). Deve passare un lungo, tribolato periodo. Davide deve superare l’avversione mortale di Saul, la morte tragica e valorosa di questo, per essere riconosciuto non solo come piccolo re del territorio di Hebron (2 Sam 3,1-5), ma di tutto l’Israele di Dio.

Convinte della figura di David, le 12 tribù si recano a Hebron, e a Davide fanno la professione di comunione: «Osso tuo e carne tua, noi siamo!» (v. 1). Esse riconoscono che già al tempo di Saul, Davide comandava e disponeva di Israele (v. 2a). Ma questa è una tipica adulazione orientale, del tutto fantastica, essendo fino ad allora Davide solo capo di un gruppo di fuorusciti. Poi gli richiamano il duplice oracolo del Signore: Tu pascerai il popolo mio, Israele (2 Re 1,1), e: Tu sarai condottiero d’Israele (v. 2b; 1 Sam 13,14; 25,30).

Allora possono venire i maggiorenti delle tribù. Davide stringe alleanza con essi davanti al Signore in Hebron. E chiamando a supremo Testimone il Dio d’Israele, come era uso, poiché ogni deviazione da Lui, causata dalle alleanze umane, era apostasia e idololatria, in quanto gli alleati dovevano giurare reciprocamente davanti agli idoli degli altri alleati (v. 3a).

Si ripete così la seconda unzione, dopo quella delle tribù di Giuda, sempre in Hebron (v. 3b; 2 Sam 2,4). Adesso tutto Israele, di nuovo nullificato, unge per sempre il suo unico re e lo consacra alla sua funzione.

L’unzione di Davide è tipo di quella di Cristo, come fanno comprendere le genealogie del Signore che nominano Davide (Rom 1,3; Lc 3,31; Mt 1,6). La regalità salvifica promessa a Davide (2 Sam 7) è attuata dal Figlio suo, che è il Figlio di Dio.

Il Salmo responsoriale:  121,1-2.4-5, CS col Versetto responsorio:«Andremo con gioia alla casa del Signore» (v. 1) canta il desiderio dell’assemblea di fare l’esodo gioioso fino alla Casa del Padre.

Il Salmista è forse un semplice fedele, il quale proclama la sua incontenibile esultanza quando i sacerdoti tre volte l’anno (vedi i calendari arcaici di Es 23,14-17; Lev 23,4-44; e le specificazioni di Num 28,16 – 29,39) convocano di regola e con ordine l’assemblea sacra festale plenaria del popolo di Dio a Sion, nel santuario, alla Presenza del Signore. Perciò l’Orante, rivolto a se stesso e ai fratelli, esorta: «Su, saliamo alla Casa di Dio!» (v. 1). Era questa anche una promessa profetica annunciata da Isaia (Is 2,3), e forse prima da Michea (Mich 4,2), era ancora viva al tempo di Zaccaria (Zacc 8,21), ed era restata il sogno fatale di tutti gli Ebrei per questi due ultimi millenni.

Ed ecco che con i loro piedi i pellegrini possono calcare il sacro suolo della città comune a tutti, e finalmente anche degli atri del santuario (v. 2). Da qui l’Orante devoto guarda intorno la Città, e la vede meravigliosa, quasi palpabile, la Città intera (Sal 146,2), unita e compatta in tutti gli elementi, soprattutto nella sua popolazione, con la quale i pellegrini fraternizzano per questa grande festa (v. 3). Essa è la meta delle tribù d’Israele che vi si danno sacro convegno quali «tribù del Signore», a cui è stato dato questo divino precetto (Dt 16,16; Lc 2,42). E l’intero popolo adesso è testimone che Israele esiste ed è vitale. E in quanto Israele, dà anche testimonianza a Dio e al mondo della meraviglia di essere questo popolo santo, che adesso viene a celebrare il suo Signore (v. 4).

A Gerusalemme sta anche il cuore della nazione, il trono di Davide e gli scanni dei giudici che con lui amministrano al popolo la perfetta giustizia voluta dal Signore (Dt 17,8). Ma di questo è segno e garanzia la Casa di Davide (v. 5).

Esaminiamo il brano

Il testo di Luca ricorda, nella scia degli altri sinottici (cfr. Mt 27,39-43; Mc 15,29-36), gli ultimi istanti di Cristo sul Golgota; tuttavia, pur narrando gli stessi eventi, il brano presenta delle differenze ed ha un significato grandioso, percepibile solo con una attenta lettura dell’intero evangelo di Luca.

La crocifissione, così come è riferita nel testo lucano, riprende sostanzialmente la tradizione sinottica: divisione dei vestiti, offerta dell’aceto, iscrizione col motivo della condanna, beffe e insulti degli spettatori. Luca tuttavia è il solo a riportare due parole di Gesù: quella del v. 34, relativa al perdono invocato sui carnefici — omessa da alcuni manoscritti importanti, ma che il parallelo con l’episodio della morte di Stefano (At 7,60) consiglia di considerare autentica —, e quella del v. 43, con cui Gesù risponde alla richiesta del secondo malfattore crocifisso con lui.

Luca a differenza degli altri presenta una folla che si dissocia dagli insulti dei capi contro Gesù; la folla (vv. 27.35.48) è più curiosa che ostile, e infine pentita.

Poi presenta una serie di insulti o scherni rivolti a Gesù prima dai capi (v. 35), poi dai soldati (v. 36s). I primi si riferiscono alla dichiarazione del processo giudaico (Salvi se stesso se è il Cristo di Dio, l’Eletto); gli altri, invece, alla dichiarazione del processo romano (Se tu sei il Re dei giudei, salva te stesso).

In questa cornice, e con lo stesso significato di scherno, va interpretata anche la scrittura di cui si parla al v. 38 (secondo Luca non va riconosciuta in essa il motivo della condanna ovvero la colpevolezza di Gesù, come vogliono invece Marco e Matteo). Forse anche il particolare dell’aceto (v. 36) va interpretato come uno scherno, mentre per Marco, Matteo e Giovanni (19,28s) va inteso come un refrigerio.

Viene infine lo scherno dei suoi compagni di supplizio (v. 39); mentre Marco e Matteo accomunano nello stesso destino negativo i due ladroni, Luca ci fa conoscere la conversione in extremis di uno di loro. Gesù non pronunzia le parole di apparente disperazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»; continua sino alla fine a esercitare il suo ministero di perdono.

Fino alla fine, Gesù resta quel segno di contraddizione annunciato profeticamente da Simeone (Lc 2,34). I due malfattori crocifissi uno alla sua destra, l’altro alla sua sinistra, ricordano tutti quelli che hanno dovuto prendere partito per o contro Gesù durante la sua vita, gli uni prendendosi gioco di lui e rifiutandolo, gli altri implorando nella fede quella salvezza che nessuno, tranne lui, poteva loro donare. I due malfattori danno testimonianza ed annunciano così quelli che in futuro guarderanno al crocifisso: anch’essi dovranno scegliere tra la preghiera e gli insulti, soprattutto quando saranno crocifissi come Gesù, versati nel crogiolo della sofferenza e sottomessi alla prova della morte.

Una nota: Come ogni cosa importante nella legge mosaica, è necessario che l’intronizzazione sia riconosciuta da due testimoni. Ma, mentre i testimoni della investitura regale della trasfigurazione sono due fra i principali personaggi dell’Antico Testamento (Lc 9,28-36) e i testimoni della risurrezione sono pure misteriosi (Lc 24,4), i due testimoni dell’intronizzazione del Golgota sono soltanto due volgari briganti. Investitura ridicola di colui che non sarà re se non andando fino al fondo della beffa! Luca fa seguire a questo brano l’episodio dei due ladroni, quasi ad indicare che per Cristo il modo di esercitare la sua regalità su tutti gli uomini, compresi i suoi nemici, è quello di offrire loro il perdono (vv. 34a.39-43). Luca è sensibilissimo a questa idea in tutto il racconto della passione, ma qui essa tocca il vertice. Con questo perdono, Cristo si presenta come novello Adamo, colui che può aiutare l’umanità a reintegrare il paradiso perduto dal primo uomo (cf Lc 3,38). Occorre ancora che questa umanità nuova accetti il perdono di Dio e non si ripieghi orgogliosamente su se stessa. Cristo arriva al momento della sua vita in cui potrà inaugurare una nuova umanità, liberata dalle alienazioni dei peccato; egli offre al buon ladrone di farne parte, perché la sua volontà di perdono è senza limiti. Il regno di Cristo si esercita su dei convertiti.

La pericope di oggi delinea un quadro particolare, dove si distaccano 3 parole di scherno e disprezzo, 1 parola di epiclesi, 1 Parola del Signore, che risponde solo all’epiclesi.

35-39: «il popolo»: Luca è il solo a notare la presenza del «popolo» che osserva. Ricordiamo che «il popolo», che per Luca è il popolo dell’alleanza, è sempre favorevole a Gesù (cf. ad es. 3,21; 7,29; 19,48; 20,1.26; 23,13.27).

Il supplizio di Gesù è raddoppiato dalla burla di quelli che lo hanno fatto condannare e di quelli che sono incaricati di eseguire la sentenza. Da un lato i capi del popolo lo scherniscono, dall’altro sono i soldati romani a prendersi gioco di lui e – attraverso di lui – del popolo di cui Gesù è re derisorio. Il popolo in compenso non unisce la sua voce a quella dei suoi capi. Il fatto che abbia salvato tanti di loro e non salvi se stesso, non li fa ridere. Pare però che il popolo non comprenda meglio degli altri ciò che avviene. Eppure proprio questo stesso popolo ieri accorreva in massa al tempio e pendeva dalle sue labbra. Oggi sono ancora presenti ma possono solo guardare senza dire nulla, non però senza pensare a tutto ciò di cui sono stati testimoni. Era necessario che fossero anche testimoni di ciò che avviene oggi dinanzi ai loro occhi.

Di fronte a Gesù, tre categorie di spettatori svolgeranno il ruolo del tentatore, apostrofandolo non più sulla sua identità di Figlio, ma sulla sua missione, sulla salvezza che è venuta a portare agli uomini.

I capi lo beffano (citazione del Sal 21,8); i soldati, realizzando la profezia di Sal 68,22, gli porgono aceto per scuoterlo ed aumentare le sue sofferenze; la terza tentazione è forse la più straziante; viene da un ladrone di strada crocifìsso con Gesù. Questi con un ultimo sforzo si scaglia contro Gesù ripetendo la richiesta impossibile: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!».

È l’ultima, terribile tentazione contro il Signore.

Nella prima, svoltasi nel deserto di Giuda, nella fame e nella sete, nella preghiera e nella veglia, il Signore è assalito dal demonio (cfr. Lc ,1-13 da leggere con Mt 4,1-11). Nella Ia Dom. di quaresima abbiamo ascoltato dei tre assalti tentatori che si succedono simbolicamente:

  1. il primo sulla filiazione: «Se sei Figlio di Dio…» (Lc 4,3);
  2. il secondo sulla regalità sua:«Io ti darò tutta questa potenza… se adorerai davanti a me» (4,7);
  3. il terzo di nuovo sulla filiazione divina:«Se sei Figlio di Dio…» (4,9b).

Il diavolo insinua e revoca in dubbio, la Parola del Padre al battesimo del Signore, che con 3 detenninazioni: «il Figlio mio, il Diletto, Mi compiacqui» (Lc 3,22b), manifesta sovranamente la filiazione anche dell’Umanità del Figlio, ed insieme gli assegna il programma battesimale che ha come culmine la Croce. Cristo vince, il programma messianico accettato, ma Luca aggiunge significativamente «il diavolo si allontanò da lui fino al kairòs» (Lc 4,13b), il tempo stabilito da Dio. Ed ecco il kairòs di Dio, la Croce; è una tentazione mortale, mortale per noi. La comprensione della scena è data dalle parole decisive e finali del Signore (vv. 34.46); il perdono universale è sigillato dalla totale fiducia con cui il Figlio si abbandona al Padre nella morte, vincendo la tentazione. La tentazione triplice è passata. Non fa effetto; il Cristo può salvare noi solo se non salva se stesso da questo kairòs di Dio. La salvezza è oggetto di grazia (cf. 19,9-10), e avviene soltanto nel modo in cui Dio la realizza (cf. 1,69.71.77), attraverso il salvatore (cf. 2,11) che egli ha inviato (cf. At 13,26): «Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo che sia necessario alla nostra salvezza» (At 4,12).  Gesù stesso, del resto ha affermato: «Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà» (9,24; cf. 17,33) Gesù dunque è tentato proprio da coloro a cui ha consegnato se stesso, e proprio sul punto della solidarietà con i fratelli. Il problema è inquietante: come può accettare di morire, quando sa per certo che tutti hanno bisogno di lui?  In quest’ultima prova, tuttavia, Gesù tace. Si è consegnato ai suoi fratelli, e si rimette a loro. Ed è uno di loro che risponde per lui. Mentre in Mc 15,32b e in Mt 27,44 i due «ladroni» si associano agli oltraggi degli spettatori, uno dei due «malfattori» di Luca proclama l’innocenza di Gesù: «E noi, da un lato, giustamente … ora costui, d’altro lato, non fece nulla di disonesto» (v. 41). Di fronte alla morte, bisogna fare spazio al timor di Dio: il destino comune degli uomini ci invita a questo.

Nelle tentazioni sono chiaramente riconoscibili i tre capi d’accusa presentati dagli uomini del sinedrio contro Gesù: l’autorità religiosa da lui assunta indebitamente, l’istigazione alla rivolta, la potenza messianica di dare la vita, che egli ha rivendicato per sé (cf. 23,2). Sono gli stessi argomenti delle tre polemiche nel tempio (20,2.22.27). Ma già all’inizio della vita pubblica, le tentazioni nel deserto, in ordine inverso, si riferivano anch’esse al dono della vita, al potere politico e all’autorità religiosa.

40-42: La parola dell’altro crocifisso è duplice. Con una, da buon Ebreo, ricorda al collega di supplizio di temere Dio, e di considerare la situazione comune, che sa senza scampo, dove loro sono colpevoli mentre Gesù è senza colpa. È la confessione di un cuore convertito. Poi rivolge la commovente epiclesi al Signore, nella totale fede: «Gesù ricordati di me quando vieni con il regno tuo!». Lo chiama per nome: è l’unico che chiama Gesù per nome, senza ulteriori specificazioni (vedi anche Lc 17,13; 18,38-39), segno di grande semplicità e di profonda fiducia. Lo supplica di ricordarsi di lui; questo «ricordo» è una tipica espressione della preghiera biblica (vedi Salmi).

«quando vieni con il regno tuo»: alla lettera, quando certamente vieni con il regno tuo (il testo greco usa il tempo aoristo congiuntivo, per indicare un futuro certo). Sono da considerarsi errate tutte le altre traduzioni (tipo: quando entrerai nel tuo regno), sia come teologia, che come filologia (purtroppo la nostra traduzione liturgica). Il greco per indicare «entrare », nella sua ricchezza, ha numerosi altri vocaboli, tra cui eisérchomai (v. Lc 4,38); qui si ha invece érchomai = venire, non: andare, senza equivoci. Il buon ladrone sà nella fede che Gesù realizzerà il regno che deve venire, e venendo troverà lui, anche se morto. La sua speranza dunque è la resurrezione e la vita e sa che solo Gesù la realizzerà.

43: La risposta di Gesù non solo sostiene la fiducia di quell’uomo, ma dimostra ancora una volta l’efficacia espiatoria della morte di Gesù, anzi previene le attese dell’orante. Nella versione lucana, Gesù in croce pronuncia tre parole.

La prima si riallaccia al discorso programmatico di Nazaret: è una parola di grazia, di perdono (v. 34). Il perdono è invocato dal Padre, il cui atteggiamento di misericordia (cf. 6,36) era stato espresso dalla figura del «padre misericordioso» della parabola (c. 15). Se i due malfattori, crocifissi uno a destra e l’altro a sinistra, richiamano l’idea di un giudizio, la prima parola di Gesù ci rivela che si tratta di un giudizio di grazia (cf. 9, 52-55): Gesù, consegnato alla nostra volontà, alla nostra storia, salva tutto questo introducendolo di nuovo nella dimensione della grazia. «Non sanno ciò che fanno»: sono forse irresponsabili? No, Gesù prega per uomini responsabili, che però ignorano — e anche per questo sono colpevoli — ciò che si gioca nell’esecuzione di Gesù. Luca non intende scagionare nessuno, ma vuol farci capire che, pur essendo colpevoli, siamo coinvolti in una storia che va al di là della nostra responsabilità. In due discorsi degli Atti degli apostoli, Pietro (At 3,15-17) e Paolo (At 13,27) segnaleranno la stessa ignoranza colpevole.

La seconda parola di Gesù è provocata dal «buon ladrone». Facendo eco alla triplice dichiarazione di innocenza pronunciata da Pilato, egli apre il proprio cuore all’Innocente che si è posto per libera scelta nel novero dei malfattori. Volgendosi verso di lui, osa chiamarlo semplicemente — lui solo in tutto l’evangelo — col nome che Dio gli ha dato ancora prima del suo concepimento (1,31): «Gesù». E formula questa preghiera: «Gesù, ricordati di me quando vieni con il tuo regno». La «memoria» a cui si appella il ladrone, è la presenza di Dio che opera con misericordia a favore del suo popolo (1,54), in virtù dell’alleanza (cf, 1,72; Sal 106,45).

«Oggi»: (gr semeron) segna il tempo della salvezza, frutto della misericordia divina (cfr. Lc 19,5-9; 2,11; 4,21; vedi anche Lc 15,lss; 18,9-14). Ricordiamo che era legato alla salvezza, dapprima nel racconto della nascita di Gesù (2,11), poi all’inizio della sua missione (4,21) e in occasione della sua visita a Zaccheo (19,5.9). Esso esprime sempre l’attualità della venuta di Gesù come salvatore: la presenza nascosta del risorto nella nostra storia. Ma Gesù aggiunge:

«con me»: indica una vita condivisa, un comune destino; indica la comunione dei giusti con Dio per l’eternità. Parole che rivelano a quell’uomo la sua condizione di discepolo: «Ora voi siete coloro che sono rimasti con me nelle mie prove. E io dispongo per voi, come il Padre mio dispose per me il regno» (22,28-29). Questa risposta in termini personali — «io/tu» — annuncia al malfattore il suo ingresso nell’alleanza. Alleanza nuova, perché comincia oggi; alleanza eterna, perché si riferisce alla realtà irreversibile che sta al di là della morte. Subendo la stessa pena di Gesù (v. 40), questo condannato viene associato al suo destino, viene assunto nella vita che egli comunica da parte del Padre. Anche Paolo dice che la gioia dei beati consisterà nell’essere con il Signore (cfr. 1 Ts 4,17). Diceva S. Ambrogio: «La vita è essere con Cristo, perché dov’è il Cristo, là è la vita, là è il regno».

«Paradiso»: nome di origine persiana che significa “giardino”: nel N.T. ricorre solo qui e in 2 Cor 12,4 ed Ap 2,7.

II Colletta

O Dio Padre,

che ci hai chiamati a regnare con te

nella giustizia e nell’amore,

liberaci dal potere delle tenebre;

fa’ che camminiamo sulle orme del tuo Figlio,

e come lui doniamo la nostra vita per amore dei fratelli,

certi di condividere la sua gloria in paradiso.

Egli è Dio…

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

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