«Il fatto di quei Galilei il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici». I Romani dovevano aver sedato con la violenza un ritrovo di Galilei che volevano compiere il loro culto al tempio, forse temevano che poi sfociasse in rivolta: meglio prevenire. E questo fatto ha provocato dolore e scalpore fra la gente, non solo per la sua drammaticità, ma soprattutto perché deve aver messo in questione la fede. Infatti, una morte cruenta era segno, per un ebreo, di una condanna divina, come ogni morte improvvisa. Ma come è possibile che delle persone siano così colpite da Dio, proprio mentre dimostrano, invece, di essere a lui votate, con l’offerta dei loro sacrifici!? Questo terribile fatto di cronaca ha scosso molto le coscienze in ordine alla fede. Perciò «alcuni» presentano a Gesù l’episodio, per ascoltarne la sua valutazione. Ricordiamo che la liturgia ci offre il contesto: l’episodio della trasfigurazione, letto domenica scorsa, ha mostrato tutta la bellezza della presenza divina nell’umanità di Gesù e ha rivelato che la via crucis che lo attende è divinamente fondata, attraverso le Scritture. È questa la figura di Maestro che viene interpellata su tale questione.
Gesù risponde non ricorrendo alle nostre frasi fatte di una pseudo fede: «Bisogna abbandonarsi alla volontà di Dio…». Né dall’altra parte incita alla rivolta contro un potere violento come quello romano, che pure denuncia in tutta la sua idolatria schiavizzante (vedi il detto sul tributo a Cesare: cfr. Lc 20,20-26). Per Gesù, i fatti drammatici non devono interpellare innanzitutto la religione oppure la società, devono, invece, interpellare se stessi: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Soprattutto nel nostro mondo attuale si tende riversare sugli altri le responsabilità, per evitare di dover mettersi in discussione. Gesù, all’opposto, sembra proporci di sentirci chiamati in causa anche davanti ad eventi grandi ed estranei a noi. In effetti, quando si pone al centro dell’attenzione una situazione o un fatto, il modo corretto di presentarlo consiste non in uno sguardo da esterno, da non coinvolto, da estraneo, ma da quello di chi, per il semplice fatto che lo propone, deve proporsi positivamente. Cioè, non posso limitarmi a denunciare, per esempio, il degrado ecologico e chiedere un cambiamento della politica: devo impegnare innanzitutto la mia vita, solo allora la mia istanza avrà non solo una coerenza, ma anche un’efficacia.
Quindi il fatto di quelle persone uccise dai Romani non deve farmi pensare chissà quali crimini nascosti avessero commesso per subire tale pena, né deve portare a una strumentalizzazione della religione che accentui una inammissibilità della violenza tale da portare ad altrettanta rottura e violenza. Deve, invece, spingermi a un cammino di cambiamento che mi porti ad abbracciare quelle armi della fede che si coniugano anche nella forza della carità che vince il male con il bene.
Gesù conferma e rafforza questa sua posizione con la parabola del fico che non porta frutto. Il padrone dice al contadino di tagliarlo. Ma questi, non solo gli consiglia di aspettare ancora, ma si coinvolge in prima persona: «Lascialo ancora quest’anno, finché io gli avrò zappato attorno e io avrò messo il concime». L’infruttuosità dell’albero è, per il padrone, ragione di condanna («taglialo»), per il contadino è, invece, motivo di un suo maggiore coinvolgimento e impegno personali. Non spetta a noi giudicare ed escludere l’altro per la sua infecondità. Quest’ultima, invece, deve diventare invito a lavorare ancora di più, perché sia fatto tutto il possibile, e anche l’impossibile, affinché sia posto nella condizione di portare frutto.
Qui si rivela anche la qualità della pazienza, che non è semplice attesa. Un aspettare, talvolta, che si tramuta in un crescendo di malsopportazione per cui, alla fine, si fa pagare all’altro, con gli interessi, la propria falsa pazienza. Si tratta, invece, di accettare responsabilmente e di sostenere generosamente quella situazione di incompiutezza che vediamo nell’altro. Situazione che, poi, dobbiamo saper vedere anche in noi stessi.
Ma il capolavoro del racconto Gesù lo pone alla fine. Forse sfugge un po’ alla nostra attenzione, ma il contadino dice al padrone: «Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, tu lo taglierai». Nemmeno alla fine, nemmeno davanti a tutti quegli sforzi inutili, nemmeno dopo tanta buona cura risultata inefficace, nemmeno di fronte alla constatazione di un’assoluta infruttuosità, il contadino sarà disponibile a tagliare l’albero: «Tu lo taglierai, non io». Dio è così con l’uomo. E’ a questo Dio che dobbiamo convertirci, ed è con questa responsabilità che dobbiamo stare nel mondo.
A cura di Alberto Vianello – Monastero di Marango