Il commento al Vangelo di domenica 24 maggio 2020 – Anno A, a cura di Paolo Curtaz. Qui di seguito il testo ed il video.
Ha fede in noi
Lo Spirito illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza siete stati chiamati, ci dice san Paolo.
Adesso, in questo tempo di pandemia.
Qui, nel momento in cui la paura ci impedisce di guardare lontano.
A me, così come sono, il Signore rivolge questa Parola tagliente e consolante.
Anche se non sono capace. O non vedo. O non ho le forze.
È lo Spirito, in grande atteso, che illumina, rischiara, accende, scalda, scuote.
Siamo chiamati alla speranza.
Perché il Signore è con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).
Perché a noi, a me, il Signore affida l’annuncio del Regno.
Se ne va
Se ne va, il risorto, torna al Padre.
Compiendo un inaudito gesto di fede. Folle e profetico, grandioso e fecondo.
Un gesto di fede nell’umanità, in noi, in me.
Affida ad uno sparuto gruppo di discepoli, fragili uomini e donne, l’incarico di proseguire l’annuncio, di costruire il Regno, finché egli venga.
Uomini e donne che ancora dubitano, mentre, prostrati, lo riconoscono Messia e Signore.
Perché, come abbiamo visto con Tommaso, il dubbio è parte essenziale nella vita del credente, e il dubbioso, cioè il curioso, l’irrisolto, è stimolante spina nel fianco che impedisce alla Chiesa di diventare arrogante di Dio.
Ha fede in noi, il risorto. Affidandoci delle parole, le sue parole, la Parola, e quel poco che è riuscito a costruire nei suoi tre anni di vita pubblica.
A noi che, invece, vorremmo fuggire, chiedere aiuto, lasciar fare a lui.
Si ribaltano le posizioni, invece.
Dio non risolve, affida.
Non interviene, chiede.
Finale grottesco
Cosa c’è da festeggiare?
Si festeggia un ritorno, non una partenza. E sentiamo, dietro il sorriso di facciata, la nostalgia straziante di un addio, di uno scambio sfavorevole, di un’ingiustizia.
Noi, sgomenti come i discepoli della Scrittura. Ma come? Proprio ora che avevano capito, dopo il grande spavento della croce, si ritrovano da soli?
Proprio ora che, dopo una lunga latitanza, mi sono avvicinato alla fede e ho riscoperto il gusto della preghiera, mi spostano il prete carismatico? Il confessore? Si scioglie il gruppo? Si interrompe la rubrica che mi ha sostenuto durante la pandemia? Interrompono la diretta quotidiana da Santa Marta?
Se capissimo che Dio ci tratta da adulti! Se avessimo il coraggio dell’ardire di Dio che ci fa uomini e donne, santi e profeti, sacerdoti e re! Invece di restare a traino, eterni subalterni!
Gesù ascende al cielo per essere il per-sempre-presente.
Non vincolato da un corpo, non segnato dallo spazio e dal tempo. Ma presente.
Come scrive Mauriac: Dal giorno dell’ascensione noi abbiamo un Dio in agguato in ogni angolo della strada.
Paradosso insostenibile del cristianesimo!
Prima ci chiede di credere che il Dio invisibile si è fatto uomo.
Ora ci chiede di credere che il Dio accessibile si consegna nelle fragili mani di uomini peccatori e incoerenti!
Elia il profeta
Il racconto di Luca prende ampiamente spunto dall’ascensione di Elia, una pagina molto conosciuta in Israele e punto di riferimento anche per i neo-convertiti. Troviamo il racconto dell’ascensione di Elia nel secondo libro dei Re: il grande profeta viene rapito in cielo sopra un carro di fuoco, sparisce fra le nubi e il suo discepolo, Eliseo, ha la certezza di ricevere almeno una parte dello spirito profetico, avendolo visto sparire.
Luca descrive l’evento dell’ascensione usando lo stesso paradigma: le nubi, simbolo dell’incontro con Dio (ricordate il Sinai? O il Tabor?), i due uomini che richiamano i due angeli testimoni della resurrezione, il bianco delle vesti, segno del mondo divino…
Il cuore del racconto non è, quindi, la descrizione di un prodigio, ma la descrizione di una consegna: come Eliseo riceve lo spirito della profezia da parte di Elia, così gli apostoli ricevono il mandato dell’annuncio da parte del Risorto.
L’ascensione segna l’inizio del tempo della Chiesa.
Cielo e terra
Sono gli angeli a dare la chiave interpretativa dell’evento: non guardate il cielo, guardate in terra, guardate la concretezza dell’annuncio.
I discepoli del risorto sono chiamati ad annunciarlo, finché egli venga, a renderlo presente. La Chiesa, allora, diventa il luogo dell’incontro privilegiato col risorto, e assolve il suo compito solo quando rende presente il vangelo.
Matteo ci dice come.
Dubitarono
Diversamente da Luca, Matteo situa l’addio in Galilea, su di un monte.
Monte che rappresenta il luogo dell’esperienza divina: solo chi l’ha incontrato può raccontarlo con credibilità.
E in Galilea: il luogo della frontiera, del meticciato, del confine, dei pagani, dei traditori ma, anche, il luogo dove tutto è iniziato, il luogo dell’incontro, dell’innamoramento.
Solo attingendo alle esperienze che ci hanno convertito possiamo annunciare con verità il Signore.
Ecco cosa significa non guardare il cielo: partire dalla povertà della mia parrocchia, dal senso di disagio che provo nel vivere in un paese rissoso e partigiano, dall’impressione di vivere alla fine di un Impero che crolla pesantemente sotto un cumulo di verbosità, nell’incertezza di un futuro segnato dalla pandemia.
Qui siamo chiamati a realizzare il Regno, a rendere presente la speranza.
Qui, in questa Chiesa fragile, in un mondo fragile.
Che Dio ama.
Allora non stupisce il dubbio dei discepoli, che è il nostro.
Il risorto ci rassicura: non siamo soli, egli è con noi.
È iniziato il tempo della Chiesa, fatta di uomini e donne fragili che hanno fatto esperienza di Dio e lo raccontano nella Galilea delle genti.
Dio ha bisogno di me.
Ha fede in me.