Questo racconto che chiude il vangelo di Matteo ha forma asciutta, quasi scarna; non vi troviamo dispiegamento di narrazione, come, poco prima, negli episodi della morte e della Resurrezione di Gesù. Non espressione di emozioni e affettività, da parte dei discepoli. Secondo un biblico schema di investitura e invio, di ieratica solennità, Matteo ci presenta un Gesù che rivela il suo compimento divino, per dare ai discepoli una missione fondativa, cui segue una rassicurazione finale.
Eppure, entrando nel cuore del testo, tutto si anima. Gli apostoli stanno tornando in Galilea, come forse il loro cuore impaurito suggeriva, ma come avevano prescritto alle donne sia l’angelo prima, che Gesù in persona, dopo: “Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (28,10). Interessantissima e si direbbe “moderna” questa scelta di Matteo che situa la ritardata visione del risorto in Galilea, non in Gerusalemme come faranno Luca e Giovanni. Non nella immediatezza dell’annunzio sconvolgente, ma dopo un cammino di giorni, dopo una macerazione di dubbi, riflessioni, ricordi. Per loro la visione del Risorto è rimandata, ma non così per le donne. Ad esse è stato dato di abbracciare ancora i suoi piedi e prosternarsi davanti a lui, mescolando alla nuova deferenza la consueta tenerezza del passato.
Vi precede in Galilea, come li ha sempre preceduti. Lui avanti e loro a seguirlo, per monti e deserti della Giudea, sino a Gerusalemme, dove si doveva consumare la sua fine. E ora hanno ripercorso in senso inverso la strada, in undici: un numero che è una ferita alla loro storia di comunità e di sequela. Un ritorno che sa di sconfitta, di ripiegamento, o altro? O desiderio di ripercorrere i luoghi rassicuranti di una presenza, di un incontro felice che lì aveva preso vita? O folle obbedienza all’invito altrettanto folle, riferito dalle donne. E il monte? Il loro monte, forse quello su cui erano sgorgate le beatitudini, il discorso della nuova legge per un nuovo popolo di poveri. Pareva loro di riudirne risuonare le parole. Ed ecco là lo vedono. E là finalmente si prostrano, silenziosi. Allora è veramente risorto! …o è un fantasma? “Essi però dubitarono”. E’ uno squarcio sulla loro umanità. Ma è anche una necessità della realtà indimostrabile della resurrezione, cui ci si può avvicinare solo nell’atto di fede. Nello stesso momento adorano e dubitano; il dubbio è assunto nella loro adorazione come nella nostra.
Dubitarono di chi? Di Gesù? Di sé? Del loro futuro?
“Se sei tu…, ci aveva provato una volta Pietro a sfidarlo a partire dal dubbio di ingannarsi, al baluginare della sua figura sul lago, nell’oscurità della notte … di’ che venga a te sulle acque” (14,25-33). Sempre con quella smania di partecipare al potere! Ma ora come presentazione chiarificante ascoltano: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. E’ il corollario della sua resurrezione. E’ rassicurazione che ne discende. Autentica conclusione secondo le Scritture, rivelazione della sua misteriosa identità di Messia, Figlio dell’Uomo, così disegnato già dal profeta Daniele (Dan 7,13-14). E se solo un poco abbiamo imparato ad ascoltare Gesù, a gustarne le parole, per una specie di connaturalità del gusto spirituale, possiamo avvertire che non di trionfalismo si tratta, per un Gesù che per tutta la sua esistenza ne ha rifiutato ogni intrusione. Invece un’altra volta Gesù ha parlato di un suo potere; quando si è rivelato, nel suo morire e nel suo risorgere, signore della sua vita: “Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo.” (Gv 10,18). Questo è per lui il potere: fare dono, anzi sperpero della sua vita per gli altri. Anche per chi l’avrebbe tradito o rinnegato. E’ il potere umile dello spogliamento di sé, dell’amore totale che costringerà il Padre a risvegliarlo da morte. A partire da questa resurrezione, e dall’ascolto di queste parole scritturali, nascono a cascata, concatenate, tutte le indicazioni successive.
-Poiché io vivo, anche voi, discepoli, vivete in me. Poiché io sono stato liberato, anche voi in me siete liberati. “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”. Condividete con tutti, tutti, la bellezza della sequela. Un giorno, in questa terra, vi ha sorpreso la chiamata a vivere l’intimità con me, in una vita fraterna, e a crescere nella sapienza del regno, sino a riconoscere il Dio Padre di tutti-.
Frutto di tutta la bellezza e la gioia qui intessute, fiorisce il mandato: condividere queste luminose energie, questa scoperta con tutti, siano le varietà dei popoli, siano, nei popoli, le varietà esistenziali dei singoli. Questo è il fine, l’impegno amoroso della Chiesa che qui si costituisce, con questi undici uomini dubbiosi, per essere continuazione della missione in terra di Cristo. “Immergendoli nella realtà segreta del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, nell’essenza comunitaria dell’amore divino che diventa salvezza e comunione di salvati. Al di là del sentore liturgico di una formula, gustiamone il sapore originario: da questa Resurrezione a tutti gli uomini è dato di essere immersi in una nuova relazione con Dio, svelato per sempre e da sempre Padre, nell’atto di amare in eterno il Figlio unico; e questo, Gesù di Nazaret, è stato svelato, eternamente Figlio amato, rivolto ad amare totalmente il padre, mentre ciò che circola tra di loro, il reagente che permette questo dinamismo, è lo Spirito santo; colui che, sceso con Gesù sulla terra fin dall’incarnazione, si appresta a mantenerne la presenza nella sua assenza. “Lo Spirito ha dimorato in Gesù – dice Ireneo con fulminante intuizione – per abituarsi ad abitare in noi.” Padre omniamante, Figlio amato e Spirito di amore: il tri-unico Dio, vortice di pace, di bellezza, di luce, aspetta di attrarre a sé non il singolo individuo, né più un singolo popolo, l’eletto, ma tutti i popoli insieme in un unico corpo (Mt 8,11) che venga catturato nel dinamismo dell’amore.
Se quello è il fine, questo sarà il metodo: insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho prescritto, la ripetizione e la continuazione dell’unico insegnamento dell’unico irripetibile Maestro: quelle sue uniche parole di Vita che rendono praticabile l’amore. Niente di meno e niente di più, nella fedeltà, e senza cedimenti alle sirene del potere.
E dove sarà Gesù da ora? Lo dice: ecco, io sono con voi tutti i giorni. Tutto si distende così nell’annunzio di una permanenza, a contraddire l’assenza, non più sofferta. Ancora per una volta, l’ultima, Gesù si manifesta come colui che porta a compimento la storia e le speranze di Israele E’ con noi, l’Emmanuel della promessa antica (Is 7,14) e nuova (Mt 1.23), visibile agli occhi del cuore nei lineamenti di ogni altro uomo, leggibile nel grembo della Scrittura, udibile nelle sue parole che ancora risuonano. Ma ancora più intimamente, disceso nella nostra interiorità accogliente, se lo accogliamo. E’ sempre il descensus del Padre che egli ripercorre. Non si pone per Matteo alcuna Ascensione, che sarà formula più consona all’uditorio lucano.
Certo c’è un andirivieni tra cielo e terra in questi giorni che precedono la prossima celebrazione della Pentecoste, la “discesa” dall’alto del dono dello Spirito; e per questo oggi la liturgia ci fa celebrare, sotto nome di Ascensione, la Salita al Padre del Risorto, come definitiva chiusura delle sue apparizioni. Ma ora sappiamo che lui è con noi, anzi ci precede… Il Signore sempre ci precede… Il Signore primarea – dice papa Francesco – arriva prima, lo troviamo là, alla fine dei nostri percorsi e non solo di quelli santi che ci conducono a Lui; ma anche al termine dei nostri impantanamenti, nel cuore dei nostri fraintendimenti, delle nostre cadute, lo troviamo là, che ci aspetta e ci tende la mano per rimetterci in piedi.
Commento a cura di Raffaella
Fonte: Comunità Kairos (Palermo)
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