Non c’è che dire, Gv 9 (come tutto il vangelo) è capolavoro letterario di avvincente ironia. In questi primi giorni di trincea ho sostato a lungo davanti a questo testo. Condivido il frutto della sua meditazione. Questa volta però, seguendone passo dopo passo la strutturazione; poi tirerò le somme, soprattutto sull’apertura e la chiusura (vv.1-7 e 35-41).
Fece del fango con la saliva, acquarello di Maria Cavazzini Fortini, aprile 2014(vv.1-7) Gesù passa nella vita del cieco che non si aspetta affatto il suo passaggio. Gesù lo vede, egli in principio non sa di essere visto. La vita dell’uomo che non sa di essere guardata con infinito amore da Dio, può essere una vita bella? È vita questa? Come è bello scoprire nell’avvio del vangelo gli occhi di Gesù che cercano un uomo che nessuno cercherebbe: un mendicante cieco. L’uomo che non sa ancora di essere visto così, non sa nemmeno qual è il suo statuto esistenziale: un cieco che mendica amore e vita. Gesù è la luce vera che illumina ogni uomo, luce che dona amore e vita (Gv 1,9). Il vangelo, nella vita concreta, comincia sempre così: con l’iniziativa che parte da Dio. Non dimentichiamolo. Poi ci sono i discepoli che fanno la solita “magra” figura. La domanda che rivolgono al maestro tradisce dove abita ancora il loro cuore: in questioni di “caccia al colpevole”. Gesù spezza l’assurdo collegamento tra lo status di infermità di una persona e il peccato, anzi, chiarisce che le opere di Dio avvengono proprio in ciò che non funziona nella nostra vita. Procede operando sul cieco dei gesti particolari e poi lo invita a fare una cosa precisa. Il cieco obbedisce e guarisce. Per il momento, tenetevi a mente le parole “fango” e “piscina di Siloe” (Inviato), le riprenderemo dopo.
(vv.8-12) Chi viveva vicino o più lontano dal cieco nato si accorge che qualcosa di straordinario è avvenuto, qualcosa è cambiato: è lui o non è lui? Questo il dilemma. È in gioco la sua identità. Ma ecco che interviene l’interessato. Qual è la sua reale identità? Che è lui, ma non è lui. Rassicura tutti di essere lo stesso mendicante che era cieco rispondendo alla domanda dei presenti: come è possibile che la stessa persona prima cieca ora è lì davanti, come un vedente che cammina e parla come loro? Egli si limita a ricordare il protocollo di guarigione a cui è stato sottoposto, il cui principio è stato quell’uomo chiamato Gesù. Cosa si può dire fin qui? Che chi incontra davvero Gesù, inizialmente ripete agli altri, con stupore, la novità che lo ha investito e gli ha cambiato la vita. Il suo raccontare suscita una nuova domanda: ma dov’è questo Gesù? E qui veniamo a sapere che il Signore, dopo aver operato, se ne è andato. Perché? Nella sincera risposta dell’ex-cieco possiamo intuirlo: c’è di mezzo la pedagogia divina per farci avvicinare a Lui. Dio infatti, dopo averci cercato e beneficato, vuole che liberamente lo cerchiamo. Comunque nella sua risposta, si esprime un’incognita: non lo so. Non è che quando incontri il Signore sai già bene cosa ti sta accadendo e chi è colui che hai incontrato.
(vv.13-23) I presenti ne fanno un caso da sottoporre all’autorità religiosa. Comincia un nuovo interrogatorio e il mendicante ricomincia il suo racconto. Sembra di assistere, per chi può ricordarlo, a quella celebre scena del film Così parlò Bellavista di L. De Crescenzo, dove un tizio del popolo si trova sempre a dover raccontare daccapo quello che gli è accaduto ad ogni nuovo passante che, avvicinandosi alla folla, chiede: “cosa è successo?” (puoi vedere qui la esilarante scena: https://youtu.be/H2dCB7OqI8Q). Anche tra i farisei non c’è accordo davanti alla sua testimonianza. Cresce il dissenso fra loro ma, paradossalmente, cresce anche l’illuminazione conoscitiva nell’uomo guarito. Ogni autentica testimonianza, parte sempre dall’ammissione di non saper bene chi è Gesù. Così anche il testimone per eccellenza, Giovanni il Battista, che lo dichiara apertamente agli inviati di Gerusalemme (Gv 1,33). Solo chi sa di non sapere può accogliere in dono un sapere nuovo: la verità che viene da Dio, non dall’uomo. E cresce pure l’irrigidimento religioso davanti all’illuminazione dell’ex-cieco: i farisei coinvolgono i suoi genitori per trovare un appiglio che giustifichi il loro rifiuto. Oramai è iniziato un vero e proprio processo al povero ex-cieco. Ma anche questo tentativo cade a vuoto.
(vv.24-34) L’interrogatorio delle autorità religiose si fa incalzante. La domanda è sempre la stessa, l’ex-cieco non può non far risaltare ironicamente il loro vero problema: sono persone che non ascoltano. Nulla di nuovo sotto il sole, la storia è sempre la stessa, dappertutto e in tutte le istituzioni. Quando si nega l’evidenza della verità senza riuscire a darne prova, a corto di argomenti, si cerca sempre di imporre il peso dell’autorità, invocandola proprio perché si manca di autorevolezza. È la logica di chi ha fatto del proprio credo uno strumento di potere, chiuso in una cassaforte di orgogliosi schemi. Perciò, mentre l’ironia è l’unica “arma” sulla bocca del mendicante, l’arroganza è sempre sulla bocca del potente: si ricorre all’insulto e al bando dalla comunità quale necessità di allontanare chi è dalla verità. Per l’uomo guarito, l’ostilità e gli ostacoli sono come le doglie di un parto che lo daranno ancor più alla luce, pronto per un incontro sempre più intimo con Colui che è la Luce. I farisei invece saranno sempre più immersi nelle tenebre: davanti a Gesù sempre si opera uno svelamento di ciò che abita nei cuori degli uomini (cfr. Lc 2,34-35). Da notare il crescendo del “noi sappiamo” dei farisei davanti al “io so solo” professato dall’ex-cieco.
(vv.35-41) Ma anche Dio sa cosa succede, ha udito il processo. E, fedelmente, cerca e si pone subito a fianco di chi è stato espulso dalla comunità umana. Ancora una volta è Lui che prende l’iniziativa. Non può essere che così. Chi viene liberato dalla verità (Gv 8,32) viene bandito da chi è nelle tenebre. Ma proprio perché vive la vicenda stessa di Gesù, può ora vederlo con gioia, faccia a faccia. Gesù gli chiede se crede nel Figlio dell’uomo. E l’ex-cieco risponde: chi è? Siamo giunti al cuore del vangelo. La guarigione della vista ricevuta è stata solo un segno della bontà di Dio. Il suo significato è un dono ancora più grande: l’uomo può ora professare la sua fede vedendo Colui che si fa vedere solo nella fede. E il suo nome è: colui che parla con te. Solo chi ascolta la Parola può guarire dalla sua innata cecità. Principio del vedere è udire una parola creatrice che non è mia, ma che mi rende capace di vedere l’Invisibile. Principio di cecità è invece il rifiuto di questa parola. La fine del vangelo ci riporta dunque al suo inizio. Possiamo ora tirare qualche conclusione.
Per mezzo del racconto della guarigione del cieco nato, Gesù offre di guarire dalla colpa più pericolosa, capace di accecare il nostro spirito: quella di pensare di sapere, e quindi di “vedere” chi è Dio e chi è l’uomo, senza riconoscere prima la propria cecità. Solo chi ascolta e si fida della sua parola, può guarire e finalmente vedere (conoscere) chi è Dio e chi è l’uomo. La Parola di Dio prima deve cambiare, cioè guarire, il nostro modo di pensare Dio e l’uomo. Con che cosa Gesù ha fatto il fango poi applicato sugli occhi del cieco? Con la sua saliva. In questi tempi siamo più consapevoli, per i divieti e i limiti impostici, di come le nostre parole siano veicolate dalla saliva. Tu parli e il più delle volte, senza accorgertene, butti fuori saliva. Il fango fatto da Gesù è elemento di fortissima carica simbolica: se la sua parola giunge al mio cuore, si avvia un processo inesorabile che mi porterà a vedere chi è Dio e chi sono io. Io sono fango e produco fango. Ma Dio, dopo avermi tratto dalla polvere, in Gesù è venuto nel mio fango, lo ha fatto suo, e ne ha fatto il luogo della sua rivelazione. Cercarlo altrove è molto rischioso. Lui è l’Inviato nella cui piscina, la sua Misericordia, io divento una meravigliosa opera di Dio: come direbbe S.Paolo, una nuova creatura (2Cor 5,17).