I brani della bibbia, che la liturgia presenta oggi alla nostra riflessione, vanno letti considerando il periodo liturgico in cui ci troviamo: cioè in una prospettiva battesimale e pasquale. Tutte e tre le letture, infatti, accennano in modi diversi al mistero di illuminazione, al passaggio dalle tenebre dell’errore alla luce della vita, che si opera in noi tramite il battesimo, nel quale veniamo inseriti nel mistero di morte e di risurrezione del Cristo. La guarigione di un uomo, nato cieco, dà a Gesù l’occasione di manifestarsi come la «luce del mondo» e come colui che «fa vedere», cioè come il rivelatore del Padre. La docilità del cieco ai gesti di Gesù, e la pronta obbedienza al suo comando, sono segno di quella confidenza, che arriva all’atto di fede.
II cieco, infatti non riceve soltanto il dono della vista fisica, ma soprattutto il dono della fede, che lo porta a riconoscere e adorare il Signore. Tuttavia, questi due modi di vedere, non sono sempre uniti; anzi, la maggior parte di coloro che videro Gesù, non lo riconobbero come Dio. E se questa pagina dell’evangelo è tanto interessante e attuale, ci pare sia proprio perché rivela la grande fatica del credere. .
Il difficile cammino compiuto dal cieco è tutto il contrario di quello dei giudei. Lo vediamo accedere, gradino per gradino, con la sua rettitudine e con un ragionamento fatto di buon senso, a una comprensione sempre maggiore dell’avvenimento di cui è beneficiario e della persona di Gesù, per giungere, con una continua ascesa, fino alla luce della fede. Con i suoi occhi nuovi, egli «vede» colui che lo fa vedere, e diventa segno, simbolo, dell’uomo illuminato dal Cristo: un testimone della fede in Gesù.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Cf Is 66,10-11
Rallégrati, Gerusalemme,
e voi tutti che l’amate, riunitevi.
Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza:
saziatevi dell’abbondanza
della vostra consolazione.
Laetáre, Ierúsalem,
et convéntum fácite,
omnes qui dilígitis eam;
gaudéte cum laetítia, qui in tristítia fuístis,
ut exsultétis,
et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestrae.
La celebrazione di questa domenica a metà del cammino quaresimale è pervasa da un contenuto senso di gioia; è la domenica di Laetare (rallegratevi), nome preso dalla prima parola dell’antifona d’ingresso della messa. Il sacerdote in questo giorno può sostituire con il colore rosa quello viola dei suoi paramenti, esprimendo così anche visivamente quella gioia dovuta alla pasqua ormai vicina (cfr. coll[1]), all’incontro con Cristo luce che illumina ogni uomo.
La citazione di Is 66,10-11 è adattato, il testo originale diceva «Gioite con Gerusalemme». Nell’adattamento oggi l’imperativo è rivolto a Gerusalemme stessa, la Chiesa che qui celebra. Intorno ad essa chiunque la ama deve fare adunanza, poiché dopo la tristezza dell’abbandono divino, causato dal peccato, essa si riscopre di nuovo come la Sposa amata, con cui si fa giubilo (Sal 121,6), anzi di cui esulta il Signore stesso (Is 63,19). Così la Sposa riceve dal Signore altri figli, e il Signore dichiara beati chi la amerà e gode della sua pace (Tob 13,18). Si avvicina il tempo della gioia, la consolazione che il Signore infonde sulla Sposa, e che i figli della Sposa succhieranno dalle mammelle di lei, nutriti amorevolmente. I Padri, approfondendo questo tema, spiegano che le due mammelle della Sposa che nutrono i figli per la Vita eterna sono le Scritture dell’A T. e del N. T.
Canto all’Evangelo Cf Gv 8,12b
Gloria a te, o Cristo, Verbo di Dio!
Io sono la luce del mondo, dice il Signore,
chi segue me, avrà la luce della vita.
Gloria a te, o Cristo, Verbo di Dio!
Le due dichiarazioni solenni del Signore alla festa delle capanne del canto all’evangelo (Gv 8,12b) riguardano l’Acqua della Vita che è lo Spirito Santo (Gv 7,37-39), e la Luce del mondo (v. 12). Sul primo tema si rimanda alla Domenica III di quaresima. In Giovanni, il Verbo è Dio, Vita, Luce. La luce indica sempre la vita. Il Signore è questa Luce divina che vivifica (Gv 1,5.9; 3,19; 9,5; 12,46). La Luce propriamente irraggia a torrenti inesauribili sugli uomini (Sal 35,10: «Nella Luce tua vedremo la Luce»). Essa è posta anche sul Servo per illuminare le nazioni (Is 42,6; 49,6), per la manifestazione all’ultimo dei tempi (Mal 4,2), ma già realizzata adesso (1 Gv 2,8). Perciò solo chi segue il Verbo divino incarnato vive la Luce dell’eternità beata; ma seguire Lui significa farsi discepoli obbedienti (Gv 12, 26), fino alla morte che glorifica Dio (21,19). Fino a diventare essi stessi la luce del mondo (Mi 5,14). E si diventa così accettando la Croce per seguire il Signore (Mt 10,38), sempre guidati da Lui (Lc 1,78-79).
Le tre letture e la nuova colletta[2] ci consentono rapidamente di individuare i temi che caratterizzano la Liturgia della Parola di questa Domenica: quello della luce (evangelo e II lettura) e quello del vedere («l’uomo guarda l’apparenza, Dio vede il cuore», I lettura).
La liturgia della IV Dom. di Quaresima fa parte del cammino di preparazione dei Catecumeni al Battesimo, che si celebrerà durante la vigilia di Pasqua. A partire dal III sec. il grande esame dei catecumeni, conclusivo dei tre scrutini richiesti, verteva proprio sul c. 9 di Giovanni e si chiudeva con la professione di fede del cieco nato: «Credo, Signore!».
La luce corrisponde al Battesimo dove il catecumeno, come il cieco nato, che «camminava nelle tenebre, viene condotto alla grande luce della fede» ed elevato alla dignità di figlio (cf Prefazio[3] e Salmo responsoriale).
Per noi, che siamo già battezzati, questa liturgia è continua mistagogia del Battesimo affinché non ci capiti di scontrarci con Cristo, come accade ai giudei della pericope evangelica (vv. 16.22.24.41). Ogni uomo «illuminato» (= battezzato; cf Ef 5,8; Eb 6,4; 10,32), per la sapienza che deriva dalla forza dello Spirito Santo, è in grado di testimoniare nella semplicità: «lo credo, Signore!» contro ogni sapere tronfio e goffo del mondo.
Con la preghiera dopo la comunione[4] tutta la Chiesa (formata da tutti gli uomini) invoca Cristo “Luce per ogni uomo” affinché la Luce sapienziale brilli dentro i cuori, al fine che tutti i fedeli pensino e desiderino sempre quanto è gradito a Lui e al suo amore di carità. Da notare come oggi questa preghiera sia rivolta al Figlio, lasciando fuori della prospettiva il Padre e lo Spirito Santo. Secondo quanto è invece sancito dagli antichi Concili come immutabile legge liturgica: «Quando si assiste all’altare, la preghiera sempre sia diretta al Padre».
La pericope di Gv 9 nel suo insieme è una creazione giovannea originalissima di alto valore artistico e teologico; la scena di questo processo è uno dei brani più brillanti dell’Evangelo dove abbonda quell’ironia tragica in cui l’evangelista si rivela un artista.
Con queste affermazioni non si vuole insinuare neppure lontanamente che l’evangelista abbia inventato di sana pianta i fatti e i dialoghi riportati in questo capitolo. È vero che gli altri evangelisti ignorano un episodio del genere; questo tuttavia non è un motivo sufficiente per negare la storicità della pericope giovannea. Anche i sinottici raccontano miracoli di guarigione di ciechi o per esteso (cf Mc 8,22-26; 10,46-52; Mt 9,27-30;) o in modo sommario (cf Mt 11,5 e Lc 7,22; Mt 15,29-30), anche a Gerusalemme (cf Mt 21,14).
Dietro all’episodio, narrato in questo capitolo, sta quindi una buona tradizione storica.
Il miracolo più vicino a Gv 9,1-8 è quello del cieco di Betsaida, narrato in Mc 8,22-26, dove Gesù usa la saliva, un particolare arcaico, ricordato solo da Marco e Giovanni. Queste osservazioni depongono a favore dell’attendibilità storica dell’episodio giovanneo; tuttavia si tratta di fatti diversi, raccontati in tradizioni diverse.
Questo miracolo interrompe, solo momentaneamente, la serie di controversie dei cc 7-8; controversie che culmineranno con la decisione, da parte dei capi giudei, della morte di Gesù (Gv 11,45ss).
Anche se l’episodio è considerato un brano battesimale e come tale è stato utilizzato nella liturgia e nella catechesi sul battesimo dai Padri, non ci sono nella narrazione delle indicazioni precise in tal senso.
Le opinioni degli esegeti non sono probanti a favore di nessuna delle due interpretazioni; possiamo tuttavia parlare di allusioni battesimali:
- Giovanni in questa pericope adopera per ben 5 volte il verbo «lavare» («nìptein» e non «louein», termine, quest’ultimo, che nel N.T. ha valore sacramentale, cf 1 Cor 6,11 e At 22,16);
- la piscina (di Siloe = inviato) nella quale il cieco si lava è figura di Gesù, che è l’Inviato del Padre;
- con tale lavaggio il cieco si purifica dal fango e acquista la luce della fede;
- l’insistenza sulla cecità dalla nascita, che invita ad accostare questo segno al miracolo spirituale della nascita dall’acqua.
Se l’allusione al battesimo sembra probabile, il significato teologico principale di questa pericope è di carattere cristologico, in quanto la tematica di fondo s’incentra sulla rivelazione di Gesù, luce del mondo e sulla fede nel profeta messianico, Rivelatore escatologico.
Giovanni nel suo evangelo raduna simbolicamente 7 «segni», o miracoli del Signore. I «segni» (sèméia), gesti concreti, efficaci, storici, che rivelano il l’identità di Gesù, sono scelti secondo la «teologia simbolica», e per questo simbolicamente limitati a 7, quale prefigurazione del massimo «Segno» dell’evangelo di Giovanni: l’8°, la Resurrezione del Crocifisso. Nell’ordine essi sono:
- Cana: 2,1-12;
- la guarigione del figlio dell’ufficiale regio: 4,46-54;
- la guarigione del paralitico alla piscina di Betzaetà: 5,1-9
- la moltiplicazione dei pani e dei pesci: 6,1-15;
- il cammino sulle acque: 6,16-21;
- la guarigione del cieco nato: 9,1-41;
- la resurrezione di Lazzaro: 11,1-45
Si nota a colpo d’occhio che solo due sono in comune con i sinottici:
- la moltiplicazione dei pani e dei pesci;
- il cammino sulle acque.
Dal c. 7 sappiamo che Gesù si è recato a Gerusalemme per la festa delle Capanne[5]; questa era una celebrazione ebraica autunnale, che faceva memoria del pellegrinaggio di Israele nel deserto, sotto le tende (o capanne), appunto.
Una grande quantità di luce caratterizzava questa solennità, con falò, torce e luminarie, che avvolgevano la città di Gerusalemme in un’atmosfera straordinariamente luminosa.
L’affermazione di Gesù in 8,12: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita», da una parte si collega col simbolismo della festa, dall’altra prepara al senso profondo dell’episodio del cieco nato.
I lettura: 1 Sam 16,1-13
L’autore dei due libri di Samuele narra l’origine della monarchia ebraica, per metterne in risalto il significato religioso. Per l’agiografo il re è un personaggio sacro, ma non come veniva concepito nell’Oriente antico, in cui il re era considerato dio, sacerdote e salvatore. In Israele invece, è solo un rappresentante di lahvé, non è dio e nemmeno sacerdote nel pieno senso della parola. Il re normalmente viene eletto da Dio, perché realizzi i suoi piani in mezzo al popolo eletto. Il profeta ha il compito di donargli l’investitura, di guidarlo con le sue direttive, di rimproverarlo e condannarlo tutte le volte che si allontana dal piano di Dio. Il primo re, Saul, ha fallito la sua missione, perché non ha saputo aver fede e ha trascurato l’insegnamento di Samuele. Davide invece, ha incarnato l’ideale del re, dedito tutto a Dio e obbediente alla voce dei profeti.
In questo brano ci viene descritta la scelta e l’investitura di Davide a sovrano compiuta da Samuele, al posto di Saul defenestrato.
Dio è sempre l’imprevedibile, non può essere schedato, il suo modo d’agire è sempre impensabile. Così le sue scelte non si identificano con quelle degli uomini. Anche il profeta deve con fatica scoprire e verificare continuamente il volere di Dio (v. 7), perché egli «vede nel cuore», non si ferma all’apparenza. Davide, il più piccolo dei figli di Ishaj, la cenerentola della famiglia, viene scelto ad essere re, al posto di Saul. Con l’unzione, compiuta da Samuele su Davide, si viene a confermare che lo Spirito di Dio ha preso possesso di tutta la sua persona, come è proprio della natura dell’olio «penetrare profondamente nel corpo».
Si consuma il dramma terribile di Saul. Per avere mancato alla parola profetica è rigettato come re d’Israele nonostante la sua unzione consacratoria. In questa condizione seguita tuttavia a vincere i nemici del suo popolo dando prova del suo sovrumano eroismo. Samuele compiange quest’uomo infelice (16, la). Il Signore taglia corto, gli ordina di prendere il corno dell’olio (10,1), e di recarsi da Ishaj (lesse) di Betlemme, tra i cui figli è stato scelto il re futuro (v. 1b). Il libro di Rut (4,17.22) narra che da Booz di Betlemme e da questa Moabita nacque Obed, da cui nacque Ishaj, da cui nacque David (in 4,18-22 la genealogia da Fares, figlio di Giuda, fino a David). Tra i figli d’Ishaj il Signore si sceglie il suo Unto (Sal 77,71; 88,20-21; At 13,22). Ai vv. 2-5 il Signore consiglia anche come dovrà agire Samuele per non destare i sospetti dell’irritato Saul; basterà fare con il gruppo di lesse un sacrificio al Signore.
Finito il sacrificio, Samuele procede alla scelta. Anzitutto, secondo le consuetudini, punta sul primogenito, che è anche alto e robusto, proprio adatto a essere «l’Unto del Signore» (v. 6). Tuttavia dentro di lui risuona l’ammonimento divino: non si deve tenere conto dell’aspetto esterno, della statura imponente, il Signore lo rifiuta (v. 7a); Egli non si cura dei muscoli, delle carcasse umane vuote di cervello ma piene di cibo, di allenamenti e di anabolizzanti (alla lettera, Sal 146,10-11; At 10,34). Infatti l’uomo guarda in superficie, il Signore scruta il cuore (1 Re 8,39; 1 Cron 28,9; Sal 7,10; 43,22; Pr 15,11; Sap 1,6; Ger 11,20; 17,10; 20,12; At 1,24, per la scelta di uno dei Dodici). Questa dote sarà poi trasferita sul Re messianico (Is 11,3; Domenica II d’Avvento, sopra). Samuele ovviamente non è in grado di guardare così, deve lasciarsi guidare dal Signore (v. 7b).
I vv. 8-9 narrano come avvenga la «selezione regressiva», da diversi a uno solo, e questo è scelto anche per tutti gli altri. Nessun fratello di David è perciò idoneo. Ishaj allora presenta a Samuele 7 figli, numero simbolico, e nessuno di loro è il prescelto (per la genealogia, 1 Cron 2,14-16), certo tra la sorpresa del padre e dei figli (v. 10). Samuele chiede se Ishaj abbia altri figli. Sì, un altro, un ragazzo, un pastorello che adesso sta dietro il gregge (v. 11a; vedi 17,14; 2 Sam 13,3; 1 Cron 2,13). Samuele vuole anche questo, prima di iniziare il convito che deve seguire il sacrificio offerto (v. 11b; ancora il v. 5). Così ordina di inviare a portarlo qui, e la scelta è fatta (2 Sam 7,8; Sal 77,70-71). Resta solo il rito che sigilla la scelta.
David si presenta. Era rosso, come Edom, il fratello di Giacobbe (Gen 25,25), un colore che provoca sempre curiosità se non disprezzo, come precisamente manifesterà Golia prima del duello fatale con David stesso (17,42). Ma David aveva gli occhi belli, da dominatore, ed era di aspetto piacevole, ammirato dai suoi, e invidiato dai nemici (v. 12a). Il Signore ordina di ungerlo, come fece una volta con Saul (9,17; 10,1), in segno di consacrazione indelebile, di proprietà gelosa del Signore (v. 12b). David è l’8° figlio, numero simbolico che indica la pienezza raggiunta. Samuele lo unge «tra i suoi fratelli», quindi anche a capo di questi, i quali, poi lo seguiranno fedelmente nelle sue battaglie (2 Sam 2,4; 5,3: David unto di nuovo dalla casa di Giuda e poi da quella d’Israele, due unzioni rituali per indicare il Re unico sulla nazione riunificata; inoltre Sal 77,70; 88,21). Da allora lo Spirito del Signore, lo Spirito regale e sacerdotale, prende possesso di David (v. 13a). David è «l’Unto del Signore, il Masìah, il Christós», la figura del Re messianico, il progenitore del Re messianico, Gesù Cristo (Mt 1,1). Il popolo di Dio è affidato al Re messianico affinché sia pascolato nella fedeltà e nella giustizia (Sal 77,70-72). Il Signore scruta l’intimo del cuore, vi pone il suo Spirito Santo, la sua Luce, la sua Vita, per il bene del suo popolo.
Il Salmo responsoriale: 22,l-3a.3b-4.5.6, SFI
Il Versetto responsorio: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla» (v. 1) fa cantare al Signore che pascola il gregge dei suoi fedeli, ai quali nulla può mancare mai. Il canto gioioso dell’Orante comincia con affermare la fiducia (v. 1): il Signore pasce me, formula dell’alleanza, «Tu sei il Pastore mio, io sono il gregge tuo». Il Pastore è potente, il gregge è docile sotto la
sua guida (Sal 77,52; 79,2; Is 40,10-11; Ger 23,4; 31,10; Ez 34,11-16.
23; Gv 10,11; 1 Pt 2,25; 5,4; Ap 7,17). È possibile seguire questo tratto lungo tutta la narrazione biblica. La fiducia prosegue affermando che nulla manca al gregge (Sal 33,10-11; Mt 6,33; Lc 22,35).
Il canto si fa anamnesi storica, che rievoca l’evento dell’esodo antico. Il Pastore divino conduce il suo gregge ai buoni pascoli, nella patria, con cura affettuosa (v. 2a; Ez 34,14; Gv 10,9), e procura l’acqua che fa vivere (richiamo a Es 17,1-7); acqua di riposo, dove si placa ogni ansietà, lite, tentazione e mormorazione (v. 2b). Così ristora l’anima affaticata del gregge, fiducioso nel Signore ma anche teso verso i pericoli numerosi (v. 3a; 18,8). La guida divina prosegue. Per amore del suo Nome, della sua Fedeltà, il Signore fa procedere il suo gregge sulle Vie sue, che sono «di giustizia», rette, indirizzate alla misericordia e alla bontà (v. 3b; anche 5,9; 138,24, con lo Spirito del Signore; 142, 10; Pr 4,11; 8,20).
L’Orante, che impersona tutto il gregge, riafferma ancora la sua ferma fiducia. Potrà anche procedere nel deserto, dove le valli scoscese e orride nascondono il sole, sembrando luogo della morte, ma sa che il Signore sta anche lì (Sal 138,11-12; Giob 3,5), perciò non teme alcun male (v. 4ab). La Mano del Signore lo guida con forza (Sal 138, 10); ogni timore è rimosso (Es 3,11-12; Is 43,2; Sal 26,1). Il segno della Guida divina sono il bastone del pastore e lo scettro della regalità, sempre in funzione, con effetto rassicurante (v. 4cd; Mich 7,14). Il Signore poi trasmetterà questo scettro con potenza al suo Pastore prescelto, intronizzato alla sua destra, vittorioso della vittoria di Dio, che
prende le consegne in Sion per dominare sui nemici, Colui che il Signore «genera oggi», fuori del tempo, e ne fa il suo Sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec (Sal 109,1-4).
Si accompagnano a questo altri segni efficaci, sacramentali, che il Pastore prepara per il suo gregge, il popolo suo. Sono operazioni antiche, sempre permanenti e funzionanti. E anzitutto il Convito (Sal 77,19-20; 2 Sam 17,27-29; Pr 9,1-6), che raccoglie nell’unità tutta la comunità, e da cui sono esclusi i nemici di Dio e del gregge (v. 5ab). Il Signore dona anche il segno della sua consacrazione, l’olio della gioia (v. 5c; 44,8; Sir 9,8, segno che non deve mancare; Giud 9,9; Sap 2,7; Lc 7,46; Mt 26,6), quello che fa risplendere il volto (Sal 103,15b). E di più, il Signore offre la coppa comune, quella dove beve prima Lui e poi dona ai suoi figli (Sal 15,5; 35,9), che i suoi figli adoranti innalzano a Lui (Sal 115,4, «coppa della salvezza»), coppa abbondante, squisita, inebriante (v. 5d).
Questi sono i segni della Misericordia divina, lo éleos ed hesed dell’alleanza, permanenti nella vita del popolo orante (v. 6ab; 91,11). Quale desiderio più può esprimere l’Orante? Solo di abitare in eterno nella Casa del Signore, all’ombra delle sue ali, dove si riceve la pinguedine della sua abbondanza, le meraviglie della sua Grazia (v. 6cd; vedi 26,4; 83,4-5).
Esaminiamo il brano
1 – La narrazione comincia con gli elementi della vocazione, che si esprime con tre verbi: passò, guardò, chiamò. Così incominciano il brano della vocazione di Levi i due primi sinottici (Mc 2,14; Mt 9,9); anzi Mc 1,16 riporta questa espressione anche all’inizio della vocazione dei primi discepoli.
«cieco dalla nascita»: si noti come per ben otto volte si insista sul fatto che fosse un uomo nato cieco.
2-I discepoli esprimono, nella loro domanda, un’opinione popolare: era una salda credenza giudaica che ogni disgrazia fosse il castigo del peccato, e che i peccati dei genitori potessero essere puniti nei loro figli (cf Es 20,5; Dt 5,9).
È anche possibile che i discepoli fossero convinti che l’uomo potesse aver peccato prima di nascere, nel seno di sua madre, come ritenevano alcuni rabbini del tardo giudaismo; in alcuni passi dell’A.T. si fa riferimento implicito allo stato di miseria e di peccato della creatura ancor prima della nascita, cf Gb 14,4 e Sal 51,7. È possibile che abbiano ragionato nel modo seguente: può darsi, data la prescienza di Dio, che il castigo sia stato inflitto per dei peccati futuri che sarebbero stati commessi nel futuro.
Una mentalità giustizialista (solo allora?) frutto della misconoscenza della Bontà divina, e del moralismo che vedeva il bene e dunque il benessere, ed il male e dunque le punizioni.
I discepoli chiedono al Signore che decifri la casistica: è cieco perché punito del peccato dei genitori, oppure suo.
Nell’A.T. era escluso che il peccato dei padri potesse ricadere sui figli, ed Ezechiele consacra un lungo capitolo a stabilire questo dato fermo (Ez 18,1-32), ribadendo la Volontà del Signore: «Avrò forse Io piacere della morte dell’iniquo – parla il Signore Dio! – o piuttosto che egli si converta e viva?».
In altro contesto, Gesù stesso avverte che gli uccisi dalla strage fatta da Pilato nel tempio, o i travolti dalla torre di Siloe, non erano più colpevoli di altri (Lc 13,1-5), richiamando però alla conversione.
3 – La puntuale risposta di Gesù non può che escludere che questo male, la cecità, sia causata dal peccato morale del cieco o dei genitori, contrastando con il parere comune (vedi v. 34) e applicando il detto di Ger 31,29-30.
Poi conclude: il fatto che si vede adesso è disposto affinché si manifestino le opere divine in lui. Il «segno» che segue è quindi «segno» della Gloria divina, la cui manifestazione finale è la Resurrezione di Cristo stesso, la massima opera del Padre con lo Spirito. Così sarà anche per Lazzaro (11,4).
4 – Gesù aggiunge la spiegazione: «Dobbiamo compiere» il plurale implica che vi sono inclusi anche i discepoli, i quali compiono le opere di Gesù e quindi di Dio (cf Gv 14,12).
«finché è giorno» l’immagine è ricordata ancora in 11,9-10 ed è applicata al breve tempo della decisione di fede in 12,35-36.
Il «giorno» è la vita terrena di Gesù, in cui deve compiere la missione ricevuta dal padre. Il tempo è poco e deve essere impiegato per intero, poiché quando viene inevitabilmente la notte, non si può operare più. È il supremo richiamo alla brevità del tempo concesso.
5 – La rivelazione sale di tono; adesso Gesù annuncia per la prima volta che mentre sta nel mondo, è la «Luce del mondo», come farà ancora (8,12; 12,35), come è proclamato del Verbo (1,4.9).
6-7 – Alle parole fa seguire una strana operazione, che sa di stregoneria. Con saliva e terra fa un impasto e lo applica sugli occhi del cieco.
Fa così anche con altri infermi (cf Mc 7,33; 8,23; Mt 9,29), però nello stesso caso si serve del tocco della sua mano divina. Che significa questo gesto?
Non si tratta di medicamenti di stregoneria; anzi Gesù peggiora la cecità ricoprendo gli occhi con uno strato spesso di fanghiglia.
Tutto questo perché sia chiaro che il cieco è guarito solo per la sua Parola: «Va e lavati», che richiede una fede obbediente.
Nell’A.T. il profeta Eliseo al lebbroso Naaman siro aveva ordinato un’azione analoga: doveva andare a lavarsi nel fiume Giordano, per ottenere la guarigione (2 Re 5,10). Per alcuni Padri, tra i quali soprattutto S. Ireneo, il fango fatto con la saliva potrebbe avere valore simbolico in riferimento alla creazione del primo uomo; in tale spiegazione si alluderebbe alla nuova creazione operata dal Verbo incarnato (cf Lett. 80,1-5 di Sant’Ambrogio, vescovo)
Giovanni nel suo racconto accentua molto il fatto che il Maestro fece del fango; in effetti ne parla ben 4 volte (vv. 6.11.14s).
Secondo la casistica farisaica, questa azione era proibita nei giorni festivi; l’evangelista vuol sottolineare che Gesù ha trasgredito realmente la legge del riposo sabatico, almeno secondo i giudei.
Da notare che in «spalmò il fango sugli occhi» il verbo significa letteralmente «unse» (anche v. 11). Ricordiamo che l’unzione faceva parte del rito battesimale sin dai primissimi tempi cristiani.
Il luogo d’invio è la «piscina di Sìloe»; l’evangelista stesso ne dà l’interpretazione in senso cristologico: «è l’inviato». È un luogo ben noto, storico; la piscina inferiore era scavata in direzione sud-est del tempio, allo sbocco di un canale superficiale che portava l’acqua dalla fonte di Ghicon all’interno della città. In seguito sappiamo che il re Ezechia (720-692 a.C.) nel 701 a.C per difendere Gerusalemme, nella guerra con il re assiro Sennacherib, interrò il canale costruendo una galleria (2 Re 20,20). I preparativi di Ezechia sono ampiamente descritti in 2 Cron 32,3-5.30. Il nome ebraico è Shaliah, aramaico shliha’, «canale emittente» e simbolicamente «inviato» (cfr apostolo); un rotolo di rame, trovato a Qumran (3Q15 XI,7), parla in questo senso della piscina di Siloè. Gesù è l’inviato per eccellenza (cf 6,29; 10,36; ecc.).
«Piscina», greco kolymbḗthran, ancora oggi per la Chiesa greca significa anche «fonte battesimale».
Al cieco il Signore fa la medesima operazione che Isaia fece sull’ulcera di Ezechia, su cui applicò un impasto di fichi (2 Re 20,7) per dimostrare che il Signore sa guarire anche contro i medicamenti popolari. Il cieco, obbedisce, và, è guarito lavandosi gli occhi, e torna con la vista perfetta.
L’«aprire gli occhi ai ciechi» era già nell’A. T. un gesto dai connotati messianici (cf Is 6,9-10; 29,9-12; 35,4) e Gesù si presenta come il “giorno”, come la luce che rischiara le tenebre dell’umanità. Significativo è anche il fatto che il cieco debba lavarsi gli occhi a Sìloe, la fonte della festa delle Capanne, la sorgente cantata da Isaia (8,6-7) come simbolo del Signore e della sua protezione. Essa, infatti, scorre lievemente ed è ben diversa dalle acque prorompenti dei grandi fiumi come il Tigri, il Nilo, l’Eufrate, che incarnano l’orgoglio delle potenze e dei loro eserciti. L’evangelista prosegue mette l’accento sul particolare del nome, caricandolo di significato spirituale: Sìloe, che in ebraico di per sé significa «inviante», cioè «emissione» d’acqua diviene per Giovanni, forzando l’etimologia, «inviato».
Questa visione cristologica verrà poi sviluppata da S. Agostino che scriverà: il cieco non lava i suoi occhi in una qualsiasi sorgente ma nelle acque simbolo di Dio, anzi del Cristo stesso, l’Inviato del Padre, come spesso si ripete nel IV Evangelo (3,17.34. 5,36.38 ecc.). Il cieco passa così dalla tenebra alla luce attraverso il passaggio nell’acqua purificatrice che è Cristo. Ecco, per un’altra via il riferimento battesimale che pervade tutto il c. 9.
«Và»: att. imperativo presente.
8-11 – È narrata ora con vivacità la reazione della folla al prodigio della guarigione del cieco nato.
Due sono i problemi sollevati in questi versetti: l’identità del miracolato e il modo con il quale è stato guarito; queste due questioni saranno al centro degli interrogatori del cieco e dei suoi genitori, anche da parte dei farisei.
Le risposte della folla sono contraddittorie e il cieco deve riaffermare che è proprio lui; come questo avvenne, il guarito risponde narrando fedelmente i fatti.
12 – Alla domanda «Dov’è questo tale?» il guarito non può che rispondere: Non lo so; è l’ignoranza della fede, come in altri passi (Gv 1,31.33).
Il cieco pur intuendo il mistero della persona di Gesù non ha ancora maturato la sua fede, per lui Gesù è ancora un uomo, anche se straordinario; tra breve farà il salto qualitativo, riconoscerà in Gesù il profeta che viene da Dio (v. 17), e il Figlio dell’uomo, nel quale si rivela il Padre (v. 35ss).
13-17 – Il cieco ora deve ripetere (e lo fa sintetizzando al massimo gli elementi del prodigio) la sua deposizione dinanzi ai tutori della legge, che, ciechi spiritualmente, considerano solo la non osservanza del sabato, dimenticando di riflettere sui «segni» che Gesù operava (Gv 2,23-25; 5,1-18).
Il precetto divino del sabato era sacro, il massimo nella Legge, e dunque inviolabile (Es 20,8); osservarlo significava mostrarsi fedeli.
La legislazione del sabato si fece via via sempre più minuziosa, tale da imporre innumerevoli divieti (cf Es 35,1-3; Nm 15,32-36; leggi da “L’ambiente storico Culturale delle Origini Cristiane” di Romano Penna, “Shab. 7,2” pag.46)[6].
Nonostante l’affermazione del primo gruppo di farisei, rimane il fatto incontestabile del segno straordinario, compiuto da un trasgressore della legge; per cui altri farisei obiettano ai loro colleghi.
A motivo del dissenso fra i due gruppi dei tutori ed interpreti della legge, qualcuno si rivolge al cieco guarito per ascoltare il suo parere.
Ecco un altro esempio di fine ironia giovannea: i dotti farisei, coloro che scrutano la Scrittura giorno e notte, non sanno risolvere l’enigma e si rivolgono all’ignorante miracolato, il quale fa prontamente la sua professione di fede: «È un profeta!».
Degna di attenzione è la serie, progressiva ed ascendente, dei titoli attribuiti a Gesù dal cieco nato: comincia col riconoscere in Lui uno che fa semplicemente dei miracoli (cf v. 15), poi un «profeta» (cfr. v. 17), «uno che fa la volontà di Dio» (v. 31), che è «da Dio» (v. 33).
18-23 – Non arrendendosi all’evidenza dei fatti si richiedono ulteriori prove; vengono chiamati i genitori del cieco perché si dubita dell’identità del miracolato. I genitori confermano che il loro figlio era cieco ed adesso è guarito; sul modo della guarigione non si pronunciano, e rimandano ad interrogare direttamente il figlio, ha l’età sufficiente per rispondere (= è maggiorenne e per la legge giudaica la sua parola ha dunque valore giuridico).
«chiedetelo a lui»: (lett. interrogate lui) att. imperativo aoristo che ordina di dare inizio ad un’azione nuova.
Desta stupore la freddezza dei genitori del miracolato; la scena ha dell’inverosimile, non una esclamazione di gioia, non una espressione di riconoscenza per l’eccezionale prodigio di cui è stato oggetto il loro figlio.
Il terrore della scomunica dalla sinagoga era grande (cf 7,13; 12,42; 19,38; Nicodemo va di notte da Gesù per non farsi notare, 3,2); la cospirazione contro Gesù era già stata stabilita (7,45-52).
24-25 – Nella successiva udienza alla sicurezza legale dei giudici si contrappone la semplice realtà del fatto, presentata con sapiente intelligenza dal cieco nato.
«Da’ gloria a Dio»: (imperativo aoristo positivo) è una formula che costituisce l’interrogato in solenne giudizio (cf Gios 7,19; 1 Sam 6,5; Ger 13,16; Mal 2,2; Lc 17,18; At 12,23).
Segue la dichiarazione che vorrebbero far sottoscrivere al cieco nato; ma egli non abbocca all’amo. La risposta del guarito è abile: non sa nulla se il guaritore sia peccatore, sa solo che adesso ci vede (contra factum non valent argumenta).
26-27 – Il tribunale si ostina, la ripetizione del racconto mira infatti a cogliere delle contraddizioni per poter negare il fatto.
Il cieco guarito si è accorto che i nemici del Maestro vogliono trovare un pretesto per condannarlo; perciò li provoca per costringerli a smascherare le loro intenzioni.
28-29 – L’ex cieco ha colto nel segno, ora non sussistono più dubbi: la risposta è l’ingiuria, quella di chi non ha ragione. Rileviamo in questa risposta, tutto il disprezzo per Gesù: i giudei non si degnano neppure di chiamarlo per nome, ma lo indicano con un pronome, mentre ostentano la loro fierezza di essere discepoli di Mose.
30-33 – L’argomentazione del cieco guarito è ancora sul fatto incontestabile della sua guarigione, per rigettare l’obiezione dei giudei e per dimostrare l’origine divina del Maestro.
«Dio non ascolta i peccatori»: e non da ad essi nessun potere: cf Gb 27,9; Sal 65,18; Prov 28,9; Is 1,15. Ma ascolta i suoi veri adoratori: Sal 33,16; Prov 15,29; At 10,35; Giac 5,16.
Questo prodigio appare unico nel suo genere; nella storia sacra non si registrano casi analoghi. Gli oracoli profetici, predicevano la guarigione di ciechi solo ad opera dell’Eletto di Jahvé, nell’era messianica.
34 – La frase richiama il v. 1 con cui forma inclusione. I capi abusando del loro potere in modo altero e superbo, mostrano di essere loro ciechi, nati interamente nel peccato e ostinati nel non volerne venire fuori.
L’espulsione del testimone di Cristo dalla sinagoga consuma il peccato dei giudei e prepara alla susseguente rivelazione di Gesù come “il Figlio dell’uomo”.
35-36 – È l’unica volta nel N.T. che questo titolo «cristologico» diviene oggetto di una solenne professione di fede.
37 – cf con la rivelazione finale alla samaritana Gv 4,26.
38 – «Credo Signore»: come farà Marta fra breve (Gv 11,27). La professione di fede e la prostrazione esprimono la convinzione che Dio è presente nella persona di Gesù.
Il cieco è come un catecumeno: ha fatto un cammino che gli ha aperto gli occhi. Questo cammino si è compiuto dopo una serie di domande e risposte (cf vv. 35-38) che delineano chiaramente le tappe della fede, che è dono non improvviso e folgorante, ma pedagogia progressiva da parte di Dio, che rispetta ritmi e capacità dell’uomo nell’attirarlo a sé.
39 – «per giudicare»: lett. «per il giudizio»; il vocabolo greco krima è un termine tecnico per indicare il processo, non verso la fine (che Giovanni indica con krisis = sentenza) ma al suo aprirsi e durante il suo svolgimento. Noi potremmo dire: per aprire un processo.
Il Figlio è stato mandato solo per salvare il mondo (3,17; 12,47); però la sua proposta di salvezza per tutti crea effettivamente una divisione: accettarla o respingerla. L’uomo che si riconosce cieco acquista la vista alla luce di Gesù, mentre chi si considera superbamente veggente e si chiude nella sua ragione chiude ancor più gli occhi alla luce di Gesù.
Con la venuta di Gesù-luce è venuta l’ora della decisione ultima: per la perdizione o per la salvezza escatologica.
- 40-41 – «Siamo ciechi anche noi?»: la prima condizione per uscire dal peccato è avere coscienza di essere nel peccato.
Monito per i farisei, diventa invito pressante per noi: apriamoci alla luce della rivelazione, partecipiamo con il cieco nato all’esperienza della luce, che viene da Gesù. A nulla valgono, per la nostra salvezza, tutte le nostre preghiere, digiuni, elemosine se manca la fede (cf Lc 18,9-14, la parabola del fariseo e del pubblicano).
La fede inizia, opera ed esige il riconoscimento della realtà quale essa è in rapporto a Dio e all’uomo: Dio è misericordia, l’uomo è miseria e peccato.
Dio chiede solo la possibilità di poter essere e fare in noi quello che è; ma questo non avviene se non nella rottura del nostro peccato che ha reso il nostro cuore come sasso. Il cuore contrito e umiliato è il vero sacrificio che Dio non disprezza (Sal 50,19).
La cecità fisica è drammatica perché chiude l’uomo nella prigione della tenebra impedendogli di gustare pienamente il meraviglioso ventaglio di colori della vita ma ancora più terribile è la cecità interiore che chiude l’uomo nella morte, nella prigione del suo orgoglio, impedendogli di spalancare le porte del cuore alla vita, alla meraviglia dell’amore e di Dio.
Il racconto evangelico poteva concludersi come celebrazione di un prodigio, di una nuova strada aperta dal Signore, ma le parole di Gesù lo aprono al valore di “segno” di una realtà che riguarda tutti e tutti interpella. Gesù, che è vera luce del mondo, rivela definitivamente che cosa significa vedere, provoca alla verifica di questa capacità.
Gesù si manifesta consapevolmente come criterio di verifica, come pietra di confronto per la propria fede. Essere ciechi o vedere è una condizione che sì verifica proprio a confronto dell’accoglienza o meno di Gesù.
Con questo nuovo modo di vedere, che Cristo offre a noi nel battesimo; con questa luce che dobbiamo far risplendere continuamente nella nostra condotta, occorre che ci accostiamo, ora, ai misteri che stiamo per celebrare. Per molti, come al tempo di Gesù, questo nostro stare insieme può sembrare tempo perso, abitudine o altro; per noi costituisce, invece, un incontro di fede col risorto, che ci offre la sua carne come nutrimento, e la sua parola come luce di verità, a rischiarare il nostro cammino.
Anche noi però, come Samuele, possiamo fermarci all’apparenza, non entrando nel cuore del mistero che sta compiendosi. Anche per noi può accadere ciò che è accaduto ai giudei, di non saper scorgere, in questi umili segni, la presenza divina.
Spesso ci capita di passare accanto al Cristo, senza che riusciamo ad avvertirne la presenza: è troppo piccolo il segno per noi, che abbiamo la vista offuscata dai bagliori delle astronavi, e dal luccichio delle nostre macchine.
«Tu vai dicendo: io sono ricco, dovizioso, non ho bisogno di nulla. E non sai che sei un meschino, un miserabile, un povero, e cieco e nudo! Io ti consiglio a comprare da me, dell’oro raffinato col fuoco, per arricchirti, e delle vesti bianche per rivestirti, sicché non apparisca la vergogna della tua nudità, e del collirio, per ungere i tuoi occhi, affinché tu ci veda» (Ap. 3,17-18).
Nuova Colletta:
O Dio, Padre della luce, tu vedi le profondità del nostro cuore:
non permettere che ci domini il potere delle tenebre,
ma apri i nostri occhi con la grazia del tuo spirito,
perché vediamo colui che hai mandato a illuminare il mondo,
e crediamo in lui solo, Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore.
Egli è Dio, e vive e regna…
[1] Colletta:
O Padre, che per mezzo del tuo Figlio
operi mirabilmente la nostra redenzione,
concedi al popolo cristiano di affrettarsi
con fede viva e generoso impegno
verso la Pasqua ormai vicina.
Per il nostro Signore…
[2] Nuova Colletta:
O Dio, Padre della luce, tu vedi le profondità del nostro cuore:
non permettere che ci domini il potere delle tenebre,
ma apri i nostri occhi con la grazia del tuo spirito,
perché vediamo colui che hai mandato a illuminare il mondo,
e crediamo in lui solo, Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore.
Egli è Dio, e vive e regna…
[3] Prefazio:
Nel mistero della sua incarnazione
egli si è fatto guida dell’uomo che camminava nelle tenebre,
per condurlo alla grande luce della fede.
Con il sacramento della rinascita ha liberato gli schiavi dell’antico peccato
per elevarli alla dignità di figli.
[4] Preghiera dopo la comunione:
O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo,
fa risplendere su di noi la luce del tuo volto,
perché i nostri pensieri
siano sempre conformi alla tua sapienza
e possiamo amarti con cuore sincero.
Per Cristo nostro Signore.
[5] Cf. Es 23,14-17; Dt 16,1-17 (enunciazione delle tre feste principali); Lv 23,33-43 e Nm 29,12-39 (Rito della festa).
[6] «I lavori principali (proibiti di sabato) sono quaranta meno uno. Seminare; arare; mietere; legare covoni; trebbiare; spulare; cernere prodotti; macinare; vagliare; impastare; cucinare; tosare la lana; lavarla; batterla; tingerla; filare; ordire; fare due staffe; tessere due fili; fare un nodo; sciogliere un nodo; cucire due punti; cacciare un capriolo; scannarlo; scorticarlo; salare la pelle; lavorarla; raschiarne i peli; tagliarla; scrivere due lettere; cancellare per scrivere due lettere; fabbricare; abbattere; spegnere il fuoco; accenderlo; battere col martello; trasportare da un luogo all’altro» (Shab. 7,2).
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano