DOMENICA «DI CRISTO RE»
XXXIV ed ultima del Tempo per l’Anno B
«Gesù il nazareno, il re dei giudei»: così è formulato il motivo della condanna di Gesù nell’iscrizione che Pilato fa porre sulla croce del calvario (Gv 19,19), esprimendo la conclusione a cui è giunto al termine del processo, dopo un interrogatorio che Giovanni riferisce nelle sue linee essenziali. Uno strano interrogatorio, in cui l’accusato assume quasi le fattezze del giudice, dominando il dibattito con la forza sovrana della sua parola. Pilato vuol far confessare a Gesù la sua pretesa al titolo di re. Egli non la nega, ma prima di rispondere pone al procuratore romano una domanda preliminare, come se volesse vederlo personalmente coinvolto nella vicenda: «Dici questo da te?». Quindi prosegue: Se si parla di un titolo regale nel senso politico che intendono i miei accusatori, allora no, «il mio regno non è di questo mondo». Gesù è venuto nel mondo per «rendere testimonianza alla verità». In quanto testimone della verità egli è re, per questo è nato e per questo sta andando incontro alla morte. Non per una verità astratta, e ancor meno per mettere la propria forza spirituale al servizio delle nostre ideologie o per fare dell’evangelo il motore ausiliario delle nostre ambizioni umane, ma per testimoniare la fedeltà di Dio agli uomini nonostante la loro ribellione e il loro rifiuto della salvezza portata dal Figlio.
Al giorno d’oggi è più facile che in passato non fare della Chiesa uno dei regni di questo mondo. Ma la tentazione di ridurre l’evangelo all’una o all’altra delle forze politiche della società è ancora attuale. Non dimentichiamo che per esorcizzare questa tentazione Gesù è morto. Vivendo anche noi della sua luce e della sua verità, parteciperemo alla speranza di un regno in cui la chiesa cesserà definitivamente di essere un gruppo sociale fra gli altri, perché in essa Dio sarà tutto in tutti.
Seguiamo l’eucologia:
Antifona d’Ingresso Ap 5,12a; 1,6b
L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza
e ricchezza e sapienza e forza e onore:
a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno.
L’antifona d’ingresso costruita con Ap 5,12a; e l,6b ci presenta nell’aula che è la reggia celeste, la corte regale che adora il Dio Invisibile sul trono dal quale regna insieme con l’Agnello Risorto (cap. 4; 5,11). Sono uniti nella lode e nell’azione di grazie gli Angeli, i 4 Viventi, i 24 Anziani sacerdotali, nella solenne, gioiosa, festale, cosmica, eterna Liturgia. In particolare tutti insieme questi adoratori proclamano dell’Agnello: «È degno!» È l’Agnello Servo sofferente (Is 53,7-8) ma Risorto, per questo è l’unico degno anzitutto di ricevere e di possedere il Dio Invisibile, il Padre suo. E nel Padre suo, essendo Egli stesso Dio da Dio, l’Agnello Risorto è degno di ricevere «la potenza e la divinità e la salvezza e la forza», da donare agli uomini redenti, santificati e da divinizzare. Perciò è anche degno di ricevere da essi l’adorazione (v. 5,12, qui amputato). E finalmente, è degno della dossologia finale: «A Lui con il Padre la gloria e la potenza in eterno!» (v. 1,6, qui amputato). Visione e liturgia eterne, beatificanti, trasformanti, divinizzanti. Facendo proprie queste acclamazioni, anche noi fedeli chiediamo «qui oggi» nella fede e nella speranza di essere ammessi per la grazia inconsumabile dello Spirito Santo a quella liturgia beata.
Canto all’Evangelo Mc 11,9b.10a
Alleluia, alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Alleluia.
Nell’alleluia all’Evangelo (Mc 11,9b.l0a) siamo con le folle in tripudio, con il corteo delle palme, acclamiamo Gesù umile e a cavallo di un asino pacifico, mentre compie il suo ingresso regale messianico a Gerusalemme, la Città del Grande Re (Sal 47,3; Mt 5,35), la Sposa regale, della quale ora viene a prendere possesso. Poiché lì soltanto si deve, da parte del Disegno divino, che Egli debba consumare il suo destino regale nuziale salvifico: sulla Croce, nella Resurrezione, con l’Ascensione, nel dono dello Spirito Tuttosanto e Buono e Vivificante. La benedizione del popolo, acclamata «dal Nome del Signore» (v. 9b), è tributata a Colui che viene, titolo messianico. Dal Nome del Signore è benedetto il Re e Salvatore universale, e anche il Regno che con Lui si presenta (v. 10a). Ma il Regno del Padre sono Cristo con lo Spirito Santo (Mt 12,28; Lc 11,20): poiché con lo Spirito Santo il Padre salva anzitutto il Figlio facendolo risorgere dalla morte, e nel Figlio Risorto tutti gli uomini. Si realizza così la promessa consegnata a David, nel Figlio suo, Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
La pericope evangelica di oggi va dunque riletta nel contesto della Passione del Signore narrata da Giovanni (Gv 18,1 – 19,42), e che si proclama il Venerdì santo e quindi dall’idea teologica di fondo della solennità, la “regalità”, ribadiamo ancora senza mai dimenticare che la Domenica la Chiesa celebra Cristo Signore Risorto nell’anamnesi dell’intero suo Mistero salvifico indicibile. E che gli aspetti particolari, come quello di oggi, sono estrapolazioni operate secondo la legge ben nota della «selezione per accentuazione», attraverso la quale dal Tutto si prende una parte per mettere in risalto un aspetto nella sensibilità dei fedeli. Così, qui l’accento principale va solo sulla «Domenica del Signore Risorto», sulla cui basi si può operare una proficua lettura.
La solennità di Cristo Re fu istituita dal papa Pio XI con l’enciclica “Quas primas ” dell’11 dicembre 1925, a conclusione dell’anno santo. Si stabilì che tale celebrazione avesse luogo l’ultima domenica di ottobre, a conclusione del «mese missionario»». La riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II l’ha trasferita poi alla domenica ultima dell’anno liturgico.
L’Anno liturgico, che è propriamente 1′ «Anno della divina Grazia», si apre, e si chiude, con la visione grandiosa e terribile del «Signore che viene» all’ultimo dei tempi. In realtà, un Anno liturgico non è mai fine a se stesso. La «teologia simbolica» ci aiuta a comprendere che esso è il «segno» di un ciclo completo, simbolo della vita degli uomini nel mondo. Tuttavia paradossalmente tale circolo non è chiuso, ma aperto, a spirale in crescendo, e disposto sapientemente in modo tale che il Principio debba essere identico alla sua Fine.
Come già si è accennato, nei cicli la solennità di Cristo Re, chiude l’anno riportando la visuale alla Gloria finale del Signore: puntualmente, precisamente ripresa dalla Dom. la di Avvento del ciclo successivo:
- Ciclo A: Dom. 34a, la Venuta finale con il Giudizio
- Ciclo B: Dom. la di Avvento: la Venuta finale (Mc 13,33-37)
- Ciclo B: Dom, 34a, la Venuta del Re eterno
- Ciclo C: Dom. la di Avvento: la Venuta finale (Lc 21,25-28.34-36)
- Ciclo C: Dom. 34a, la Venuta del Re Crocifisso con il Regno suo
- Ciclo A: Dom. la di Avvento: la Venuta finale (Mt 24,37-44)
e così proseguendo senza interruzioni.
Nella Scrittura il termine «Re», applicato sia al Dio Vivente, sia al suo Inviato, il Re messianico, significa sempre al di là perfino della gloria regale infinita o finita, il «Salvatore» del popolo dell’alleanza.
I 3 cicli liturgici del Rito romano propongono perciò opportunamente 3 aspetti diversi e convergenti della Regalità del Signore Risorto, non a caso invariabilmente nell’aspetto salvifico:
- Il ciclo A presenta Cristo come il “Pastore dell’umanità” e, allo stesso tempo, come giudice supremo dei vivi e dei morti; il risorto viene a riprendersi gli eletti suoi dopo il Giudizio (Mt 25,31-46: Evangelo; Ez 34,11-12,15-17: 1 lett).
- Il ciclo B nell’umiltà estrema dell’abbassamento causato dalla Passione volontaria, il Re testimonia al mondo il Regno-Salvezza per il popolo di Dio: prima davanti al tribunale religioso giudaico, egli si era identificato col personaggio annunziato da Daniele (Cfr. la lett. Dn 7,13-14); davanti a Pilato con la dichiarazione «Tu lo dici: io sono re» (Gv 18,33-37: Evang.); al mondo, perché Gesù è risuscitato, il «primogenito dei morti, il principe dei re della terra» (II lett. Ap 1,5-8).
- Il ciclo C fa notare come l’investitura regale (Cfr. 2 Sam 5,1-3: I lett.) sia avvenuta proprio sulla croce (Lc 23,35-43: Evang.). Ma Gesù non è solo Re dei giudei, come dichiara il titolo posto sulla croce, ma è capo del corpo della Chiesa e Signore di tutte le cose, redente e riconciliate nel suo sangue (Col 1,12-20). Il Re dunque vuol dire solo il Salvatore; gli orpelli del manto con ermellino, della corona gemmata, del globo e dello scettro in mano, togliamoli di mezzo una volta per sempre. Sta sulla croce per risorgere e venire col suo regno di salvezza; anno per anno, tutto questo è oggetto di anamnesi della Chiesa che spinta dallo Spirito ripete di continuo: «Vieni Signore!» (Ap 22,17), affinché il Signore possa rispondere: «Si! Vengo presto!» (Ap 22,20).
Il brano evangelico, che nelle liturgie festive dell’anno B è stato “secondo Marco”, oggi è tratto da Giovanni, l’evangelista che più degli altri celebra la regalità singolare di Cristo. Ormai abbiamo capito come la terminologia “regale” non debba trarci in inganno: essa, infatti, non è presa in prestito dalle esperienze dei re e dei regni di questo mondo; ma deriva dal linguaggio biblico (Cfr. quello solenne dei salmi della regalità) e dalla tradizione profetica (del trionfo di Dio a salvezza del suo popolo).
Proprio per questo Gesù, per ben tre volte, nel dialogo con il procuratore romano Pilato sottolinea la diversità e l’originalità del suo regno (Cfr. «Il mio regno non è di questo mondo… se il mio regno fosse di questo mondo... il mio regno non è di quaggiù» (v. 36). Gesù aveva iniziato la sua predicazione in Galilea annunciando: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15); e l’espressione “regno di Dio” o “regno dei cieli” negli evangeli sinottici ricorre ben 104 volte. Con Gesù questo regno è vicino, anzi è presente: Dio irrompe nella storia umana e conduce il tempo verso la sua pienezza. Il messaggio di Gesù è «la buona notizia del regno»; ed è proprio il regno l’oggetto della quotidiana invocazione nostra: «Venga il tuo regno».
Nel primo colloquio con Pilato (18,33-38) Gesù dichiara di essere re e precisa la natura della sua regalità. Siamo nei bel mezzo del racconto della Passione (cc. 18-19) e confrontando la narrazione di Giovanni con le narrazioni sinottiche possiamo osservare un ampio fondo comune. Negli incontri passati abbiamo notato che per quanto riguarda l’attività del Cristo, l’evangelista Giovanni presenta rari paralleli con i sinottici, ma con l’ingresso di Gesù in Gerusalemme la situazione sembra cambiare radicalmente: il materiale di Marco è presente in gran parte, sia pure non alla lettera o nei singoli particolari . E se fino al Getsemani l’ordine degli episodi diverge notevolmente, dall’arresto in poi l’ordine è invece quasi uguale. Quanto detto suggerisce una conclusione: il racconto giovanneo della Passione si rifà a un racconto antico e comune, che probabilmente iniziava con l’arresto di Gesù; i ricordi della Passione si solidificarono in fretta nella tradizione, e questo spiega l’ampio accordo esistente fra i quattro evangeli. Dopo aver messo in luce ciò che vi è di comune fra Giovanni e i sinottici, l’attenzione si può concentrare sulle molteplici differenze: omissioni, aggiunte e spostamenti. Giovanni, ad esempio, tralascia la preghiera di Gesù nel Getsemani, alcune scene di oltraggio, il processo giudaico, il grido di Gesù morente; concede un grandissimo spazio al processo romano di fronte a Pilato; modifica la scena della Croce e le parole pronunciate da Gesù.
Le motivazioni di queste differenze si possono trovare nell’analisi delle singole scene; ma già ora possiamo affermare che non si può semplicemente pensare al fatto che Giovanni attinge a ricordi differenti: si tratta invece, almeno nei casi principali, di una consapevole rilettura, di una comprensione originale della tradizione comune.
Dunque Giovanni si trova di fronte a un racconto che viene dalla tradizione e lo elabora in modo originale; è come dire che l’evangelista ci offre non soltanto una storia ma anche la sua interpretazione. I sinottici Matteo e Marco riportano solo tre episodi sul processo davanti a Pilato: Gesù, portato davanti a Pilato, richiesto se è re, rifiuta di rispondere; la folla chiede il rilascio di Barabba; dietro la sua insistenza, Pilato lo consegna perché fosse crocifisso, dopo averlo fatto flagellare. Luca aggiunge, da una tradizione propria, l’interludio, in cui Gesù viene inviato da Erode (Lc 23,6-12). In Giovanni il processo romano è un lungo episodio (18,28-19,16), che occupa più di un terzo della passione: già questa è una prova che Giovanni lo considera molto importante. Prima di passare alla lettura analitica, è opportuno prendere subito visione della costruzione scenica dell’intera sezione e del ruolo dei personaggi.
La costruzione scenica è molto chiara: i giudei non entrano nel pretorio per evitare di contrarre una impurità legale che avrebbe loro impedito di poter celebrare la pasqua (18,28). D’altra parte, il processo di Gesù deve necessariamente svolgersi all’interno del tribunale; Pilato è costretto a fare da tramite, in un continuo andare e venire fra l’esterno, dove stanno i sacerdoti e la folla, e l’interno, dove sta Gesù. Pilato esce quattro volte e rientra tre volte. E così questo andare e venire divide l’intero episodio in sette quadri, in cui si alternano le scene esterne (nelle quali il dialogo è fra Pilato e i giudei) e le scene interne (nelle quali il dialogo è fra Pilato e Gesù).
Non c’è dialogo diretto fra Gesù e i giudei, ma solo fra Gesù e Pilato, i giudei e Pilato. Al centro (è il quadro quarto: 19,1-3) sta la scena muta degli oltraggi.
Ecco un breve schema della struttura settenaria con movimento chiasmatico circolare, tipico di Giovanni (nei sinottici Pilato rimane sempre fuori sul tribunale, davanti al quale sta in piedi Gesù):
1 – Fuori: i giudei chiedono la morte (18,28-32) |
7 – Fuori: «Ecco il vostro re!»; i giudei ottengono la morte (19,13-l6a) |
2 – Dentro: Gesù si dichiara re della verità (18,33-38) |
6 – Dentro: Gesù parla a Pilato del potere dall’alto (19,9-12) |
3 – Fuori: Pilato dichiara Gesù innocente, ma i giudei preferiscono Barabba (18,38b-40) |
5 – Fuori: Pilato dichiara due volte Gesù innocente e lo presenta: «Ecco l’uomo!» (19,4-8) |
4 – Flagellazione ed irrisione di Gesù re, senza cambiamento di luogo (19,1-3) |
Abbiamo già avuto occasione in passato di dire che il racconto della passione sembra svolgersi su due piani, e quindi permette due letture: quella secondo le apparenze e quella secondo la fede. Questo è particolarmente vero per il processo. Tutta la nostra scena, come molte altre del 4° evangelo, deve essere intesa simultaneamente su due piani diversi: piano storico e piano spirituale. Il primo evoca e suggerisce generalmente il secondo, la realtà sensibile divenendo segno e simbolo della realtà spirituale. Per ottenere questo effetto l’evangelista ricorre al mezzo stilistico dell’inversione di ruolo, ma potremmo anche parlare di «ironia».
Questa inversione di ruolo, o ironia, nel nostro caso si manifesta in diversi modi: i giudei sono gli accusatori e Pilato il giudice, ma in realtà è Gesù l’accusatore e il giudice. Si osservi, altra forma di quell’ironia, l’abilità dì Giovanni nel far emergere la verità dall’avversario a sua insaputa; persino nel fargli dire materialmente la verità che egli ignora, o che, addirittura combatte. È così che passiamo dalla «burla» alla più profonda realtà: nel gioco dei soldati e nella proclamazione dispettosa ed ironica di Pilato la fede è invitata a scoprire la regalità di Gesù.
“Gioisci, re dei giudei”, dicono i soldati romani a Gesù. Il re promesso è crocifisso da tutti, lontani e vicini. Crocifisso in quanto re, è re in quanto crocifisso: è il re della verità che fa liberi (cf. 8,32). Dopo che il potere religioso ne ha predisposto l’intronizzazione sulla croce, quello politico ne proclama la regalità con la condanna a morte. Il testo è davvero un gioco di ironie. Ciò che è detto per burla, è vero; ciò che si ritiene vero, è una burla. Stupida e tragica. La menzogna stessa, senza volerlo né saperlo, afferma la verità: il re crocifisso crocifigge alla sua vacuità ogni potere di morte. Siamo allo scontro definitivo. Le tenebre sono uscite allo scoperto, riunite insieme per giudicare e condannare Gesù. Ma la luce del mondo dissolve la tenebra che l’ha presa. Gesù infatti esegue sovranamente il giudizio di Dio: invece di condannare qualcuno, dà la vita per tutti. Contro il Figlio, inviato dal Padre, si sono riuniti tutti i potenti, per compiere ciò che la mano e la volontà del Signore aveva preordinato che avvenisse (At 4,27s): manifestare a tutti il suo amore, gloria sua e salvezza nostra.
Il tema del testo è la regalità universale di Gesù, proclamata davanti al luogotenente di Cesare, suprema autorità mondiale, primo rappresentante del capo di questo mondo (cf. 12,31). Il re è l’uomo ideale, ideale di ogni uomo. Libero e potente, vuole ciò che gli piace e fa (fare) ciò che vuole: rappresenta Dio in terra. La concezione che abbiamo di re corrisponde a quella che abbiamo di Dio: è l’uomo realizzato, sua immagine e somiglianza.
Il confronto con Pilato occupa circa un terzo del racconto della passione: oltre il processo, continua fin sulla croce (19,19-22) e nella deposizione (cf. 19,31.38). Il suo potere si esercita dalla condanna all’esecuzione, dall’uccisione alla sepoltura del Giusto. Svela così la sua essenza ingiusta e mortifera.
La regalità di Gesù, come vedremo nel processo, smantella la nostra immagine pervertita di uomo e di Dio. Non bisogna farsi immagini di Dio, né dell’uomo, perché l’unica sua immagine è l’uomo, vero e libero. Nella sua semplice solennità, il processo davanti a Pilato è un compendio, sublime e disincantato, di “teologia politica”, una miniera inesauribile sulla verità dell’uomo e di Dio.
I “giudei”, nominati 22 volte, non sono il popolo, ma i suoi capi. Rappresentano l’opposizione alla luce, tipicamente “religiosa”, che è in ciascuno di noi. L’origine del male infatti è sempre un’immagine negativa di Dio, di ciò che comunque ci proponiamo come modello da imitare. Per questo, nel racconto della passione, il rappresentante del mondo politico non fa che eseguire, in un gioco di ipocrisia e ricatti reciproci, la stessa volontà perversa della quale è succube il mondo religioso. Quando Giovanni parla di “giudei”, giova ripeterlo, non intende il popolo giudaico, come funestamente molti hanno voluto intendere. Anche Gesù, gli apostoli e la prima comunità, come pure gli evangelisti, sono giudei. Il termine “giudei”, usato in senso negativo, indica i capi, il cui unico interesse è tenere il popolo sotto il proprio dominio (cf. 9,1ss): secondo la critica profetica (cf. Ez 34), non sono pastori, ma ladri e briganti (cf. 10,1ss). Sono chiamati polemicamente “giudei”, perché considerano tali solo se stessi, escludendo gli altri, che pure lo sono. Comunque anche tra i capi non tutti sono così (cf. 10,19-21; 12,42s), come Nicodemo (3,1ss; 7,50-52; 19,39), Giuseppe d’Arimatea (cf. 19,38; Mc 15,43p) e Gamaliele (cf. At 5,34ss).
Gesù è il re universale, l’uomo libero che libera tutti, proprio in quanto crocifisso dal potere religioso e politico. La Chiesa è chiamata a riconoscere in Gesù la verità dell’uomo e la verità di Dio, per testimoniare al mondo la libertà da ogni dominio dell’uomo sull’uomo. La regalità di Dio non si fonda sulla violenza e sull’oppressione, ma sull’amore e sul servizio. Non viene da questo mondo, ma da Dio stesso. Gesù è venuto a portarla in questo mondo, per restituire all’uomo la sua umanità.
Esaminiamo il brano
33 – «Tu sei il re del giudei»: il tema del colloquio è affrontato fin dall’inizio; si tratta della regalità di Gesù, dell’origine e della sua natura. A livello storico si deve supporre che questo fosse il capo di accusa politico: essersi considerato «re dei giudei», cioè messia politico. Sorprende molto che siano proprio i giudei ad uccidere la loro speranza più grande in un messia; essi non solo hanno respinto il loro liberatore ma hanno preferito considerarsi sudditi di Cesare (19,1246). Le pretese religiose di Gesù sembravano troppo alte (19,7) ed è per queste che viene condannato.
34 – La risposta di Gesù è una contro domanda, che mette in evidente imbarazzo il procuratore romano, anche perché appare implicita la collusione dell’autorità politica con quella religiosa. Oltre a ciò, leggendo più attentamente tra le righe, l’evangelo ci rivela ancora una volta, e più chiaramente che mai, chi veramente guidi la discussione. Neppure Pilato è dunque un protagonista; lui che pure era un rappresentante dell’impero romano nella Giudea (dal 26 al 36). La sua celebrità ha sfidato i secoli solo perché un giorno davanti a lui comparve un modesto predicatore ebreo di nome Gesù di Nazaret. Con lui ebbe occasione di scambiare alcune battute, restandone un pó incuriosito e un pó sconcertato. Dimenticato dalla storia profana, egli ogni domenica viene ricordato nelle chiese di tutto il mondo quando i cristiani professano la loro fede: nel credo, infatti, si ricorda che Gesù «fu crocifisso sotto Ponzio Pilato».
35 – La prima domanda di Pilato non era scaturita da una sua personale valutazione, ma era formulata su suggerimento dei giudei. Gesù induce Pilato a porre la domanda giusta: Che cosa hai fatto? È di qui che bisogna partire, dalle azioni di Gesù, non dall’interpretazione distorta che ne danno i giudei. La sua azione mostra che egli è re, ma in modo completamente diverso da come i giudei vorrebbero far intendere.
36 – La risposta di Gesù è solenne ed è espressa in forma ritmica.
Va notata l’inclusione tra «il mio regno non è di questo mondo» all’inizio e «il mio regno non è di quaggiù» alla fine, oltre alla costruzione chiastica dei primi due righi purtroppo non visibile nella nostra traduzione (sarebbe: «Il mio regno non è di questo mondo. Se di questo mondo fosse il mio regno») Gesù insiste sull’origine della sua regalità; noi sappiamo che secondo Giovanni l’origine non è soltanto la provenienza, ma l’essenza e la logica.
Non dunque: il mio regno non riguarda il mondo, ma: il mio regno non viene dal mondo, ha una diversa origine e obbedisce a una logica differente. Nulla in comune fra la regalità di Cristo e la regalità del mondo. Le differenze?
La regalità mondana si manifesta:
- nella potenza,
- nella imposizione
- e nella ricerca di sé;
La regalità del Cristo si manifesta:
- nel dono di sé,
- nell’amore e nel servizio alla verità,
- nel rifiuto della potenza come mezzo per sottrarsi alla contraddizione.
Ecco perché nell’evangelo di Giovanni, come anche nei sinottici, la regalità di Cristo è manifestata con chiarezza soltanto nel contesto della passione.
Fuori di tale contesto non si può comprendere la vera natura di questa regalità.
«le mie guardie»: tutta la disquisizione sulla identificazione delle guardie (gli apostoli? gli angeli?) è una pura speculazione se si ritiene che qui si tratta di una ipotesi irreale, in cui anche le guardie rimangono ovviamente solo nella supposizione di un regno politico, che Gesù invece esclude già in modo radicale.
37 – «Dunque tu sei re?»: Dal regno di Gesù a Gesù re. Pilato ritorna, infine, alla domanda iniziale del v. 33 senza la qualifica «dei giudei», dove si vede chiaramente che il discorso da storico diviene progressivamente teologico.
«Tu dici che io sono re»: Anche qui la risposta di Gesù è espressa nella forma solenne e ritmica dei discorsi di rivelazione. Può essere considerata una risposta affermativa oppure invece evasiva e critica; probabilmente il senso è proprio quello critico (Cfr. Mc 14,62).
«per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità»: è l’esplicitazione del motivo dell’incarnazione; Gesù è la verità (14,6) e quindi le sue parole e le sue azioni sono una testimonianza della verità ed alla verità. La testimonianza più grande sarà data col suo imminente innalzamento sulla croce (12,32).
«Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce»: Qui è chiaramente indicata la condizione indispensabile per comprendere la testimonianza del Cristo; una condizione che invece manca a Pilato.
È qui indicato il modo con cui Gesù regna: non mediante la potenza, ma solo mediante la «parola e la verità», e sono suoi sudditi unicamente coloro che accettano liberamente nella fede tale verità.
«ascolta la sua voce» nel senso di accogliere e seguire Gesù come buon pastore (Cfr. 10,3). Il pastore rappresentava anche il capo, il re.
Con la domanda del v. 38 si direbbe che Pilato abbia accolto l’appello contenuto nel v. 37b; e gli chiede: Che cos’è la verità? La domanda è priva di impegno, quasi distratta, è più un tentativo di sottrarsi di fronte a ciò che non capisce. Con il suo rapido passare oltre, Pilato svela l’inconsistenza della sua pretesa obiettività: egli non è veramente interessato alla verità.
Gesù non risponde e la domanda resta come in sospeso» È un silenzio che si spiega; Gesù ha già risposto alla domanda. Tutta la sua vita e le sue parole sono una risposta a quell’interrogativo.
Nel racconto della passione, Giovanni pone di continuo la domanda che ritroviamo in tutto il suo evangelo: Chi è Gesù? Qui la risposta è la seguente: Gesù è il re dell’universo. Preoccupato di rivelare tutti gli indizi della divinità di Cristo, Giovanni sceglie questo titolo come simbolo del potere di Cristo su tutto e su tutti. Con la sua morte è giunta l’ora della verità, che è come il trono del suo regno: l’umanità può accedere alla comunione con Dio. La morte di Gesù non è una fine; al contrario, inaugura un regno che non avrà mai fine
II Colletta:
O Dio, fonte di ogni paternità,
che hai mandato il tuo Figlio
per farci partecipi del suo sacerdozio regale,
illumina il nostro spirito,
perché comprendiamo che servire è regnare,
e con la vita donata ai fratelli
confessiamo la nostra fedeltà al Cristo,
primogenito dei morti e dominatore di tutti i potenti della terra.
Egli è Dio…