Commento al Vangelo di domenica 20 Giugno 2021 – Comunità di Pulsano

Domenica della «tempesta sedata»

Oggi il lezionario ci mostra un Gesù dominatore il cui potere si allarga fino ad abbracciare gli elementi della natura nella loro raffigurazione più grandiosa e potente: il mare. Il tema è fondamentalmente uguale a quello degli episodi seguenti di un Gesù dominatore delle malattie e delle potenze demoniache, perché nel simbolismo della Bibbia, il mare, pur sottomesso al dominio di Dio, rimane un mondo carico di misteri e di pericoli, a motivo della profondità dei suoi abissi, dell’amarezza delle sue acque, del perpetuo fluttuare delle sue onde, della sua potenza distruttrice quando si scatena. Esso diventa perciò anche l’immagine più eloquente ed efficace delle forze del male, orgogliose e minacciose, che trovano una plastica raffigurazione nei mitici e favolosi mostri che la fantasia popolare colloca nei suoi abissi. La residenza del Leviatan, il mostro marino (cf. Gb 3,8; Sal 74,14); il grande abisso che, quando scatenava la sua forza, impauriva i naviganti (cf. Sal 107,23-27).

Dopo aver annunciato ai discepoli e alle folle alcune parabole da una barca appena scostata dalla spiaggia (cf. Mc 4,1-34), Gesù decide di passare all’altra riva del mare di Galilea: si tratta di un’“uscita” dalla terra santa di Israele, per andare verso una terra abitata dai pagani. Qual’è la ragione che muove Gesù? Gesù vuole annunciare la misericordia di Dio anche alle genti pagane e non solo alle pecore perdute della casa di Israele” (cf. Mt 15,24). Vuole combattere Satana e togliergli terreno anche in quella terra straniera e non santa. Gesù, il messia, va anche tra i pagani! Ma alla volontà di Gesù si oppone il mare, che è il luogo dove le forze del male si scatenano in tempesta. Eppure il mare, questa realtà potente e tumultuosa, è sottomessa a Dio. Dio era là (cf I lettura) quando nacque uscendo dal seno della terra; come un bambino indifeso lo avvolse di fasce (caligine o nuvola oscura) e lo vestì (di nubi). Il salmo responsoriale e l’evangelo, mentre sottolineano la signoria di Gesù sul mare, ci suggeriscono l’invocazione fiduciosa a Dio nel pericolo, e lo stupore e il timore di fronte alla potenza del Signore che comanda. Entrambi i brani scritturistici presentano lo stesso schema letterario: la situazione di pericolo (lo scatenamento delle forze del mare), l’invocazione fiduciosa di Dio, l’intervento miracoloso del Signore, l’azione di grazie (salmo), lo stupore e il timore (evangelo).

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 27,8-9

Il Signore è la forza del suo popolo

e rifugio di salvezza per il suo Cristo.

Salva il tuo popolo, Signore,

benedici la tua eredità,

e sii la sua guida per sempre.

Nell’antif. d’ingresso (Sal 27 genere supplica individuale) il salmista riafferma la sua fede e fiducia nel suo Signore, che è unica forza del suo popolo, con il quale si è vincolato in forza dell’alleanza. L’epiclesi chiede con forza (“Salva il tuo popolo, Signore” che si chiama «supplica per la nazione») che il Signore di questo suo popolo sia il Sovrano potente e il Condottiero infallibile per l’eternità (cfr Is 63,9: «in tutte le loro tribolazioni. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati; con amore e compassione li ha riscattati, li ha sollevati e portati su di sé, tutti i giorni del passato»).

Canto all’Evangelo Lc 7,16

Alleluia, alleluia.

Un grande profeta è sorto tra noi,

e Dio ha visitato il suo popolo.

Alleluia.

L’alleluia all’evangelo è invece l’esclamazione della folla plaudente quando Gesù resuscita il figlio unico della vedova di Naim: il «Profeta grande», atteso da Israele (vedi Dt 18,9-22), finalmente è venuto tra il suo popolo operando i prodigi promessi, con Lui e le sue opere finalmente il Signore stesso ha visitato il suo popolo.

Continuiamo il cammino del Tempo ordinario e lungo questo Tempo, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, noi celebriamo ancora e sempre Cristo Signore Risorto, mentre Lo contempliamo in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o opera, o prega.

Questa Domenica Gesù appare dunque come il Sovrano della creazione, che deve obbedire al suo comando. Il contesto è il termine del giorno in cui il Signore ha insegnato le parabole (Mc 4,1-34), e la sera ormai venuta. Gesù sta ancora a Cafarnao, sulla sponda settentrionale del Lago di Genesaret, e ha necessità di ritrovarsi sull’altra riva. Dal seguito della narrazione risulta che vuole recarsi a Gerasa (vedi Mc 5,1-20), che sta in basso, verso oriente. Quindi chiede ai discepoli, che sono pescatori e quindi barcaioli provetti, di traversare lo specchio d’acqua con la barca.

Dopo la «giornata delle parabole», inizia ora la «giornata dei quattro miracoli». Marco continua a sviluppare lo schema iniziale: Gesù si rivela mediante le parole (le parabole) e le opere (i miracoli).

Queste azioni miracolose si collocano nel corso di un viaggio:

  1. Gesù compie la traversata del lago per dirigersi verso il territorio pagano della Decapoli[1], e durante la notte fa cessare la tempesta (4,35-41);
  2. sull’altra riva guarisce l’indemoniato (5,1-20);
  3. attraversato di nuovo il lago, è invitato da Giàiro a salvare la figlia e durante il cammino guarisce l’emorroissa (5,21-34);
  4. arriva alla casa di Giàiro e risuscita la figlia (5,35-43).

Come si vede, si tratta di un complesso di fatti organizzati da Marco secondo uno schema locale (un viaggio) e temporale (una giornata). Ma lo svolgimento di tutti questi fatti in una giornata sembra assai inverosimile dal punto di vista storico (un giro di diversi Kilometri!). Deve trattarsi quindi di una sequenza «teologica». C’è infatti un legame interno che dà unità al brano: è il fatto che testimoni di questi quattro miracoli sono solo i discepoli. Non sono miracoli per la folla (che è assente: 4,36; interviene a fatti avvenuti: 5,14; è come se non ci fosse e non si avvede di nulla: 5,31; è tenuta positivamente a distanza: 5,40); si tratta perciò di gesti dei quali i discepoli devono cogliere il segreto. È ancora da tenere presente che si tratta di quattro episodi tutti giocati sul contrasto paura-fede: 4,40; 5,15.33-34.36.

Esaminiamo il brano

35 – «In quel medesimo giorno, verso sera»: l’evangelista identifica il contesto del brano in quello stesso giorno in cui Gesù ha “Insegnato le parabole” (Mc 4,1-34). Gesù infatti è inviato dal Padre, battezzato con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al padre, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue.

«Passiamo all’altra riva»: Alcuni dettagli, a prima vista insignificanti, fanno intravedere l’intenzione di Marco: dopo aver preso l’iniziativa Gesù si lascia condurre, senza essersi preparato.

«lo presero con sé»: L’espressione è unica, perché di solito è Gesù che prende con sé i discepoli: cf. Mc 9,2; 10,32; 14,33)  Da questo punto in poi nell’evangelo Gesù diventa un vero itinerante che si sposta fuori dei confini della Galilea, anche se i riferimenti geografici di Marco non sono sempre chiari. Questo aneddoto segna l’inizio di una serie di «viaggi per mare» di andata e di ritorno tra la riva occidentale (giudaica) e quella orientale (pagana) del lago. Questo primo viaggio approda ad oriente in 5,1 e Gesù ritorna sulla sponda occidentale in 5,21. Il viaggio successivo da ovest a est comincia in 6,45 ed è contrassegnato da un miracolo in mare durante la traversata. Il ritorno è narrato in 6,53. Dopo un viaggio per terra verso nord che termina ad est del lago (7,31), Gesù ritorna verso ovest in 8,10. In 8,13, in un linguaggio simile a 4,35, Marco racconta di un viaggio verso est con una puntata a nord fino a Cesarea di Filippo, seguita dal ritorno presumibilmente per terra attraverso la Galilea (9,30).

36 – «così com’era»: ossia come al solito senza bagaglio, ma ricordiamo anche che Gesù era stato costretto a salire sulla barca e a insegnare seduto su di essa per la calca della folla (4,1); la notazione, quindi, sta a dire anche che egli, terminato il discorso in parabole, senza scendere a terra, così come si trovava si fece trasportare all’altra riva, forse nella speranza di godervi un pò di riposo.

«c’erano anche altre barche…»: all’inizio si parla di altre barche, poi di queste altre barche non se ne parla più ed è difficile dire se queste barche erano di semplici pescatori oppure di gente che intendeva seguire il Maestro sull’altra sponda del lago. Comunque sia l’obiettivo è poi fissato solo sulla barca occupata dai Dodici; in questa barca Gesù dorme tranquillo, mentre si sta per affondare. Il tipo di barca usata si può presumere dalla scoperta archeologica della barca di Kinneret nel 1986 e dal mosaico di una barca scoperto a Magdala-Tarichea. Doveva misurare circa otto metri in lunghezza e circa due e mezzo in larghezza, con una portata da dodici a quindici persone.

37 – «sì sollevò una gran tempesta»: L’insorgere improvviso di tempeste è ancora oggi motivo di preoccupazione sul lago di Genezaret. La causa sta nel fatto che il lago è a circa 208 metri sotto il livello del mare ed è circondato e dominato da monti abbastanza alti, da cui scendono venti freddi e violenti, che provocano dei forti movimenti nell’acqua.

Il mare nella Scrittura è spesso simbolo della potenza del caos ostile a Dio (cf. 5,13; 6,45-51). L’espressione «grande tempesta di vento» (laîlaps megálē anémou) in greco indica un mulinello di vento tipo tornado che scende improvvisamente dall’alto.

le onde si rovesciavano nella barca: La descrizione è realistica, ma «le onde» (kŷma) costituiscono anche un legame verbale con i salmi dell’AT che parlano del potere di Dio sul mare (Sal 42,8-9; 65,8; 89,10; 107,23-32).

38 – «dormiva»: L’immagine è quella di Gesù accomodato sul ponte di poppa che dorme su un cuscino da marinaio (o forse un sacco di sabbia usato sia come zavorra che come sedile). «E dormiva» (katheúdōn, lett. «dormiente») ricorda il contadino di 4,27 il cui sonno beato è il preludio al miracolo della crescita e del raccolto. Senza contare che un sonno tranquillo è un segno della fiducia nel potere e nella protezione di Dio (Prv 3,32-34; Sal 3,6; 4,9; Gb 11,18-19). Il contrasto quasi comico tra il profondo sonno di Gesù, il mare in tempesta e il terrore dei discepoli dà maggior risalto al potere della parola di Gesù.

Dopo la lezione sul seme gettato in terra, che germoglia e cresce, indipendentemente dal seminatore, «che egli dorma o vegli, di notte o di giorno» (4,27-28), non bisognava aver fede in Colui che aveva preso l’iniziativa della traversata, anche se ora sembrava dormire di un sonno pesante come la morte?

Unico luogo nell’evangelo in cui Gesù dorme; il sonno ha certo la sua giustificazione nella stanchezza accumulata durante tutto il giorno, si noti, tuttavia, come il verbo greco (katheúdō) tradotto con “dormiva” tra i suoi significati contenga anche quello di “essere morto” (1 Ts 5,10: hína eíte grēgorō̂men eíte katheúdōmen – sia che vegliamo sia che dormiamo), “‘dormire il sonno della morte” (Ef 5,14: «égeire, ho katheúdōn, kaì anásta ek tōn nekrōn – Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti»).  Per questo ed altri motivi la Chiesa post-pasquale ha interpretato questo “sonno” come figura della Morte e Risurrezione gloriosa di Cristo.

«lo svegliarono»: Il fatto diventa catechesi: Marco sta guardando alla comunità di Roma, che è come una barca in piena burrasca. Nella comunità c’è Gesù, colui che risorge: perché aver paura? Il verbo egeírō (qui tradotto con svegliare) è il verbo usato generalmente dagli evangeli sinottici per indicare la Resurrezione di Gesù (cf. Mt 28,6; Mc 16,6; Lc 24,6).

Il verbo egeírousin ricorda anche l’azione del contadino in 4,27 che «dorme e si sveglia, notte e giorno». Il verbo egeírō è usato anche per far «alzare» (guarire) i malati (2,9.11; 3,3; 5,41; 10,49) e in molti casi ha la connotazione di risurrezione.

«Maestro»: Gesù è chiamato così dopo un’intera giornata dedicata all’insegnamento (4,1-34). Quando poco dopo fa tornare la bonaccia sul mare, Gesù conferma di essere colui che è potente nelle parole e nelle opere (vedi 1,21-28). Gesù è chiamato «maestro» (didáskale) non solo in un contesto didattico (9,38; 10,17.20.35; 12,14.32; 13,1) ma anche qui e in 9,17, prima di un miracolo. Gesù è chiamato anche rabbi (un appellativo ebraico successivo per «maestro») tre volte, due volte da Pietro (9,5; 11,21) e una volta da Giuda (14,45). Nella tradizione ebraica Mosè era potente nelle parole e nelle opere (At 7,22). Il ridurre il mare alla calma con la sola parola è appropriato anche per il titolo di «maestro». Con questa immagine i lettori di Marco hanno la conferma del potere dell’insegnamento di Gesù.

«non t’importa che noi moriamo?»: I discepoli invece sono disperati; la descrizione della scena è molto efficace: la barca è già piena d’acqua (v. 37), la tragedia incombe ed essi invocano: «Maestro…».

Qui tutti i verbi sono al presente, il che dà l’idea di un vivo senso di urgenza. «Non t’importa» (ou mélei soi) dà l’idea di una distaccata obiettività da parte di Gesù (vedi 12,14). Il grido di allarme dei discepoli è simile a quello dell’equipaggio in Giona 1,14: «Signore, fa’ che noi non periamo!». Un possibile punto di contatto tra Giona e Gesù in Marco è la convinzione che il Dio d’Israele ha il potere di salvare dal mare in tempesta e che Giona, chiamato da Dio ad andare a Ninive, città simbolo delle genti pagane, fugge, fa un cammino in direzione opposta (cf. Giona 1,1-3); Gesù invece, inviato da Dio, va tra i pagani. Gesù appare dunque come Giona, ma un Giona al contrario: non riluttante, ma missionario verso i pagani, in obbedienza a Dio. In ogni caso, Giona e Gesù sono due missionari di misericordia, ed entrambi la predicano a caro prezzo: scendendo nel vortice delle acque e affrontando la tempesta (cf. Giona 2,1-11), perché solo attraversandola si vince il male. Ecco perché Gesù dirà che alla sua generazione sarà dato solo il segno di Giona (cf. Mt 12,39-41; 16,4; Lc 11,29-32), ossia la parabola della misericordia annunciata a prezzo della discesa nelle acque di morte, a prezzo dell’andare a fondo e poi la resurrezione.

39 – «Destatosi»: notiamo ancora l’uso del verbo egeírō. Gesù interviene e contrariamente a quanto raccontato da Matteo (cf. Mt 8,28-34 e vedi anche Lc 8,26-39 più simile a Marco) prima calma la tempesta e poi ragiona con ì discepoli (un rimprovero alla loro paura, che suona come incredulità). Il participio usato è diegertheìs (con un dia intensivo) invece del semplice egertheìs, per presentare l’immagine di Gesù che si alza dritto in piedi sul ponte della barca in un confronto diretto con il mare in tempesta.

«Taci, calmati»: Il miracolo è narrato secondo il genere dell’ esorcismo: Gesù «sgrida» il vento come aveva fatto con gli spiriti maligni (cf. 1,25 e 3,12). Il mare è pensato ancora come una potenza malefica personificata che deve essere esorcizzata. Da notare ancora che l’originale greco siōpáō (tacere) traduce il verbo con un imperativo presente: per Gesù che dormiva, il vento e il mare tacevano e quindi devono continuare a tacere (imper. pres.); comanda quindi di ritornare allo stato di quando Egli vegliava, prima di addormentarsi. Per il verbo phimóō (calmati meglio sarebbe ammutolisci) la traduzione letterale è più suggestiva «metti la museruola», proprio come si comanda ai cani. Gesù tratta gli elementi come un padrone assoluto [cf. I lettura, Salmo responsoriale e il Sal 89(88),9-10. È Dio che ha agito sulle acque del caos (Gen 1,2), sulle acque del diluvio (Gen 8,lss), sulle acque del Mar Rosso (Es 15,8) ecc.]; questi, impauriti gli obbediscono: nell’A.T. Jahvé non avrebbe potuto agire diversamente e con maggiore autorità.

L’espressione è tipica: in ebraico e in arabo infatti, il vento non urla ma abbaia, come un cane. Il perfetto (descrive l’azione completa nel passato, ma che dura nel suo effetto verso il presente e il futuro) sottolinea in maniera più plastica il comando di Gesù: taci e continua a tacere, poiché noi sappiamo che le onde si calmano con difficoltà e di solito lentamente (proprio come un cane ormai eccitato, perché lanciato nella sua azione).

«e ci fu grande bonaccia»: La grande (megálē) bonaccia si contrappone alla «grande» tempesta di 4,37 e ricorda i «grandi» rami di 4,32.

40 – «Perchè siete così paurosi?»: Il rimprovero di Gesù «deilós» indica qualcosa che è più della sola paura: perché siete codardi? vili?

«non avete ancora fede?»: la mancanza dell’articolo sottolinea che non avevano più alcuna fede, nemmeno una briciola, una fede qualsiasi. Marco riferisce le parole di rimprovero ai discepoli dopo il miracolo; Matteo invece prima. La narrazione di Marco appare più naturale: la cosa più urgente era calmare la tempesta, poiché la barca era già piena d’acqua, poi si poteva ragionare.

41 «E furono presi da grande timore»: Alla fine, come in 1,27, c’è intorno a Gesù la reazione del «timore». In 1,27 Marco utilizza il verbo thambéō che indica lo sbigottimento, lo stupore, la meravìglia mentre sia in 4,41 che 16,8 utilizza il verbo phóbos che traduce, oltre alla paura pura e semplice, anche il timore religioso nel senso di Lc 1,50 («di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono», il Magnificat, il cantico di Maria).

Il verbo usato da Marco (phóbos) indica anche, in senso generico, l’aver paura ma può anche indicare il timore religioso, quel brivido riverenziale, quella venerazione che coglie l’uomo biblico quando si imbatte nella presenza inimmaginabile di Dio. Ci piace far rilevare questa possibile traduzione, anche se gli elementi a nostra disposizione non ci autorizzano ad imporla, cosa possibile invece nell’episodio che narra la reazione delle donne di fronte alla tomba vuota (16,8). In quell’episodio, dove si parla anche di trepidazione (trómos) e di estasi (ékstasis), è immediato pensare al timore adorante. Il verbo ékstasis indica quello stato di smarrimento durante il quale si compiono atti senza quasi responsabilità alcuna; è l’esperienza mistica; è la visione (cf. At 10,10: «[Pietro] Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi»), presenza dialogante che Dio dona ai suoi fedeli.

Per i discepoli sulla barca possiamo sicuramente dire che, nel momento in cui si rendono conto del fatto, la loro paura è sicuramente diversa ma non meno intensa di quella di prima.

Se accettata pienamente, la presenza di Dio non è un tranquillante per la nostra vita; la sua Parola, tremenda, sodatrice di tumulti, scuote e provoca la nostra fede per operare la liberazione e la salvezza.

«il vento e il mare obbediscono a lui»: l’indicativo presente indica infatti un potere ordinario, non momentaneo. Gesù ha agito come se fosse cosa ordinaria per Lui e i discepoli ne rilevano la straordinarietà.

«gli obbediscono»: «Il vento e il mare» reggono un verbo al singolare, il che sta ad indicare che sono concepiti come un’unica forza. Il verbo «obbedire» (hypakoúō) è l’intensificativo del verbo «ascoltare» e normalmente viene usato per la risposta all’insegnamento. Gesù, qui il maestro potente nelle parole e nelle opere, riceve la risposta della sottomissione da parte delle forze della natura.

Antifona alla Comunione Sal 144,15

Gli occhi di tutti, Signore,
si volgono a te fiduciosi,
e tu provvedi loro il cibo a suo tempo.

L’orante del salmo 144 (Inno) celebra il Signore come Centro unico di tutti gli uomini e di tutte le speranze. Gli occhi dei fedeli sono rivolti solo a Lui come al sovrano buono ed adorabile. Solo Lui al tempo stabilito nutre tutti. Nessun tempo migliore è la Domenica, Giorno del Signore Risorto: qui “oggi” siamo nutriti con la sua Parola, alla Mensa del suo Convito, come figli della Chiesa, la Sposa del Signore. Il Padre rimuove da noi ogni timore conducendoci alla confessione del Risorto per il quale ci dona sempre lo Spirito Santo.

I Colletta

Dona al tuo popolo, o Padre,

di vivere sempre nella venerazione e nell’amore

per il tuo santo nome,

poiché tu non privi mai della tua guida

coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore.

Per il nostro Signore…

 

II Colletta

Rendi salda, o Signore,

la fede del popolo cristiano,

perché non ci esaltiamo nel successo,

non ci abbattiamo nelle tempeste,

ma in ogni evento riconosciamo che tu sei presente

e ci accompagni nel cammino della storia.

Per il nostro Signore…

Le due collette chiedono e riconoscono la guida fedele che il Signore non fa mai mancare e che ha stabilito saldamente nella sua Carità ed insieme il perenne «timore ed amore» del suo Nome e della sua Presenza.

[1] – La Decapoli (in greco deka poleis significa dieci città) era un raggruppamento di dieci città libere, con un proprio territorio, disseminate soprattutto a est e nord-est del Giordano fino a includere Damasco; altre città sono Filadelfia (che sorgeva nel luogo dell’antica Rabba, capitale degli Ammoniti, e dell’odierna Amman, capitale della Giordania), Gerasa (l’odierna Jarash, con splendide rovine romane), Pella (la città nella quale si rifugiarono i Cristiani prima della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C), Gadara (dove forse avvenne la guarigione dell’indemoniato chiamato “Legione”) e Scitopoli (ai tempi della Bibbia, Bet-Sean, l’unica città della Decapoli sul lato occidentale del Giordano).

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

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